Una scepsi tentata dalla speranza / L’ombra delle parole e le traduzioni dei classici

4 Settembre 2019

Le traduzioni vivono in forme plurali. Non sono monocratiche né monolitiche. Si può sorridere se qualche versione di un’opera letteraria è definita “canonica” o “autorizzata”. Quando sento dire che i libri tradotti “invecchiano” perché “la lingua si evolve” penso sempre a quella diffrazione percettiva che ci coglie quando siamo seduti in treno, in attesa di partire, e di colpo un accenno di vertigine, ecco, ci si muove: meno di due secondi per capire che non siamo noi a spostarci – ci voltiamo, è il treno accanto al nostro che è partito. Inventare una metafora per descrivere il tradurre è sempre un esercizio sdrucciolevole, ma se volessimo dar fede a questa prospettiva dovremmo dire che un classico è un treno che sta fermo, mentre noi – la nostra lingua attuale, sempre in mutamento – siamo sul treno accanto, su quello che si muove. Dubito però che questa sia una descrizione affidabile; pur nella sua novità apparente, pur nel suo appello all’occasione quotidiana, pecca di dogmatismo. Ho il sospetto che anche l’originale sia plurale, esposto a una molteplicità di interpretazioni storiche, oggetto mobile nei marosi del tempo e degli sguardi, e che sia molto rischioso versarsi toto corde nella caccia a una “verità fissa e immutabile” dell’opera fonte. È da riflessioni di questo genere che io e Stella Sacchini siamo partiti mesi fa per plasmare la seconda edizione di BookMarchsL’altra voce, il festival dei traduttori che abbiamo concepito nelle Marche (www.bookmarchs.it). Ci siamo chiesti: se nell’opera inesausta del tradurre le risposte del dizionario sono soltanto un punto di partenza, quanta parte di tutto questo “ricercare le parole” spetta allora all’interpretazione? Quanto è vitale tentare una mossa ermeneutica consapevole e magari nuova, motivandola con un’azione intellettuale, e non solo guardare alle concezioni convenzionali comunemente diffuse di un classico? E poi: oltre le frontiere dell’istruzione scolastica, ma anche sui banchi, sarà possibile per i classici greci e latini (e di riflesso, mutatis mutandis, anche per quei classici moderni che hanno posto le basi della nostra concezione della letteratura) trovare una lingua in tutto aliena a quel faticoso “pseudo-italiano” prono a legnosi cliché lamentato da alcuni dei nostri maggiori classicisti, come Maurizio Bettini?

 

Proverbi paradossali, fraseologie ironiche e bons mots abbondano fra la piccola compagnia di chi traduce. Sono i frammenti sapienziali con cui, in una scepsi tentata dalla speranza, puntelliamo i muri dei nostri dubbi. Frugale e seducente è il brocardo che si deve a Samuel Beckett, «Try again. Fail again. Fail better»: condensazione massima delle rinunce necessarie e delle ambizioni legate comunque a questo mestiere. Eccolo il punto di fuga: l’umiltà del traduttore, postura che fa il paio con la tensione alla neutralità che dovrebbe caratterizzare le sue scelte. Sì: tradurre è sempre scegliere, in un momento preciso della storia e del fluire del linguaggio, e ogni scelta porta a una serie di rinunce o di riconfigurazioni del testo, di cui bisogna essere consapevoli. In realtà è difficile pensare a una traduzione che – per quanto anelante all’asintoto di una neutralità  – non “prenda la parola”, anche in ciò che non dice, anche quando dovendo decidere non decide, ereditando nella sua presunta trasparenza secoli di pregiudizi e facendoli passare come scontati. 

 

Pensiamo a un caso evidenziato di recente da Emily Wilson – la prima donna del mondo anglofono a tradurre l’Odissea – su cui nel maggio scorso ha riportato l’attenzione Serenella Zanotti in una lezione su donne, genere e traduzione al museo Macro di Roma (intitolata Soggetti in transito). Quando nel libro IV (v. 145), di fronte a Telemaco, Elena parla di sé quale causa della guerra definendosi kunópis (‘dog-eyed’, ‘shameless’, in un dizionario greco-inglese; ‘faccia da cane’, ‘impudente’, ‘sfrontata’, secondo un diffuso dizionario italiano), la totalità dei traduttori rende il termine (kunópidos, al genitivo) con “bitch”, “shameless bitch” e così via. Uno addirittura con «shameless whore that I was». In realtà, per Wilson, nel contesto omerico l’aspetto di cane – o la faccia di cane – di Elena non dovrebbe esprimere un senso deteriore, di dileggio morale, che rischia invece di scattare in automatico se anche in italiano traduciamo “cagna” seguendo ciecamente il dizionario, senza annusare le tracce ulteriori delle parole. Wilson – dandone conto nella sua introduzione – sceglie di ricreare in inglese diversamente: «They made my face the cause that hounded them», rovesciando con un cosciente gesto polemico la tavola dei valori canonici, mettendo in questione la pacifica lettura che molti secoli di traduzioni maschili, eroiche, virili hanno fornito del passo. Qui infatti né la faccia di Elena né le azioni a cui ha condotto gli Achei sono oggetto di rimprovero; fra l’altro nei poemi omerici càpita altre volte che donne o dee siano paragonate a un cane. Le donne sono come cani perché sono in basso nella scala sociale, e potrebbero rompere le convenzioni rifiutando di stare al proprio posto. Il riferimento alla “faccia di cane” denota che è la percezione maschile delle donne, piuttosto che i desideri femminili, a minacciare il tessuto sociale.   

 

 
A Wilson è stato mosso da diversi classicisti l’appunto di essere troppo modernizzante nel suo approccio a Omero. Proprio perché la società dei poemi omerici non concedeva spazio e valore alle donne, un epiteto fisso di questo genere doveva essere percepito dai rapsodi e dal loro pubblico – visti anche i contesti in cui appare – come necessariamente denigratorio. In cerca di altre voci, sono andato a riaprire la versione di Emilio Villa, che nella nota del 1971 alla sua Odissea osserva: in greco il valore dispregiativo di kuon, kunós (‘cane’) è recente, e nel greco omerico kunópis riferito a Elena cela una marca di ambito artemido-ecateo; dietro cui riluce forse una sua parentela con la Pótnia Theròn, la Signora delle Bestie dell’arcaica religione mediterranea. Un segnale preciso, di valore antropologico e cultuale, in nessun modo deprecatorio: «le femmine dee del poema, tutte totemizzate, per così dire, tutte vive, su un animale, residuato nel nome o negli attributi». Villa insiste sul fatto che nel mondo preacheo, e in tutto quel fondo culturale e cultuale precedente alla stesura più a noi prossima dei poemi omerici, gli eroi epici erano in effetti divinità minori. Quel passo non può intendersi come «“realistico”, cioè come Elena che dice di sé “sono una cagna, una svergognata”, e non può essere; Elena è Gran Madre, è Pótnia alla ricerca, a caccia, dei suoi maschi, o paredri diciamo»; un richiamo che va compreso in rapporto con il mito. Elena indica così tramite il “cane” la sua appartenenza, l’ambito divino da cui proviene. “Omero”, in quest’ottica, appare solo il filo terminale, l’ultimo punto d’arrivo del viaggio di una antichissima teomachia di origine orientale tessuta in sostrati perduti alla memoria e poi narrativizzata, quasi si direbbe secolarizzata in Grecia tramite un gran numero di filtri, rielaborazioni e passaggi: come la nuova egemonia cultuale di Atena. Mi chiedo se a una simile logica possa rimontare il fatto che alcuni oggetti o luoghi o personaggi nei poemi omerici sono definiti da due parole, diverse: una in lingua umana e una in lingua divina, con un valore cultuale (vi accenna anche Daniel Heller-Roazen nel suo Lingue oscure).

 

Nell’Odissea, secondo Villa, l’eroe «lavora il tessuto in trama e ordito» delle epifanie di Madri primigenie, compie un percorso iniziatico di affrancamento dalla Grande Madre: ma nel cerchio delle peripezie, uscire dall’acqua materna vuol dire alla fine ritornarvi pur sempre. L’«ambigua potenza sacrale delle acque» è principio di vita e anche di morte: «in realtà è sempre la donna, la Madre, una Pótnia Theròn che salva Odisseo dall’Acqua-Morte». In questo senso tradurre è anche archeologia, quindi coscienza dell’alterità irriducibile dei segni che abbiamo di fronte: vuol dire veramente indagare les mots sous les mots, il peso di un’ombra arcaica nel “megatempo” che le precede, e le ombre distorte che la mentalità contemporanea rischia di proiettare sulle parole antiche. La traduzione villiana fonda la sua motivazione così: legge in filigrana e fa emergere dal testo emanazioni-sedimenti di quel tempo arcaico, tenuissimi ma «tenaci e irrefutabili»: le radici mesopotamiche e micenee dell’epica omerica, e il «travaglio linguistico» dal quale si è formata.
 

Sono prospettive su cui non possiamo soffermarci ma che varrebbe la pena d’approfondire nel segno della possibilità, e del rifiuto di ogni dogmatismo quando parliamo di traduzione. Peraltro non sono sicuro che il saio dell’umiltà possa rimanere l’unico abito nel guardaroba del traduttore. Per esempio, Joyce ti chiede di scendere in strada vestendo i panni colorati del buffone sotto una toga di erudito. È vero che “traduzione” è anche quella carceraria, però non credo si possa tradurre letteratura (qualunque cosa ciò significhi) con le mani completamente legate; dall’umiltà si parte e all’umiltà si torna, ma dopo aver attraversato altri stati mentali. In casi come questi umiltà, studio, documentazione sono la base a conforto dell’audacia che serve, nel movimento del tradurre (e dell’erodere i margini del non-sapere), per tuffarsi in una nuova scelta traduttiva: senz’altro discutibile, aperta alle osservazioni della comunità degli studiosi, magari in lotta con le scelte precedenti, ma proprio per questo capace di fondare una diversa consonanza con la storia e la cultura antiche. Reinsediandole ancora nel nostro tempo, ma con l’aura della loro distanza. Villa lo fa, “prendendo la parola” in campo aperto, e proponendo di tradurre kunópis con ‘donna-cane’: «a causa di me, di me che sono / donna-cane, gli Achei investirono Troia per abbatterla». Uno scarto di questo genere (non meno di quello nell’incipit, con Odisseo polútropon, per Villa «straordinario giramondo») è in grado di trasformare alla radice la nostra lettura e comprensione del passo; e non sarà un caso se Emilio Villa – studioso di lingue semitiche antiche e non solo del greco – è anche uno fra i più audaci e polimorfi poeti che abbiamo avuto nelle pieghe clandestine di un Novecento magnificamente “irregolare”.
 

Dunque il dizionario non è che il punto di partenza di un attraversamento che convoca molti altri stimoli, motivazioni, necessità e risorse. Ogni parola è carica di tempo, sedimenta sensi e sfumature. La metafora animale in kunópis segnala probabilmente la presenza di un sottosenso religioso: le stratificazioni storiche di una lingua – quella greca – che non è appiattita solo sull’idioma omerico o sul V-IV secolo a.C., la sua fase classica, rivivono nell’ombra dietro la decisione di tradurre verso un certo orizzonte piuttosto che verso un altro. Una filologia più attenta al dato immediato del testo vede come indebita ingerenza extratestuale l’allusione a un senso che probabilmente né “Omero” né il suo uditorio percepivano. Se è vero che il filologo che traduce «ha la costante consapevolezza di negare se stesso», per dirla con G. Aurelio Privitera, questo di Villa potrebbe essere uno dei casi in cui un’apparente libertà testuale incontrerebbe invece una luce rivelatrice di una delle oscure facce ancestrali della lingua di Omero (o, per meglio dire, dei rapsodi dell’«officina omerica»). L’intelligenza storica di un testo e di una parola altrui può in questo modo, travalicando i limiti con un gesto critico non meno che mercuriale, penetrare fino alla falda artesiana del culto primigenio, del potente fondo arcaico.

 

E sarebbe quindi il caso di riprenderci anche noi la parola audacia, non relegandola solo nel cerchio della mentalità marziale e del discorso erotico. Un’audacia che rispetti la cornice di senso entro cui la traduzione avviene ma ridiscuta il destino delle scelte traduttive in un quadro ampio di riflessione, questa sì, antropologica; stando ben attenta, al contempo, a non scivolare nella pozzanghera di modernizzazioni cieche e sbarazzine. La prima traduzione francese dell'Odissea ad opera di una donna data al 1708, ed è quella di Anne Dacier. L’opera di Wilson, che due anni fa ha smosso le acque, arriva dunque alla fine di un percorso innovativo nel quale spiccano anche i nomi di traduttrici italiane (Rosa Calzecchi Onesti, Giovanna Bemporad, Maria Grazia Ciani). Fino alla prima metà del secolo scorso l’Iliade degli italiani era appesa a un chiodo in una cornice del Settecento, catafratta nei bronzei endecasillabi di Vincenzo Monti. Sappiamo che è stato questo il ruolo di Rosa Calzecchi Onesti, chiamata nel 1948 alla missione di rifondare la nostra lettura di Omero, svecchiando il lessico neoclassico e il ron ron montiano; epperò anche lei, alla fine del secolo, è paradossalmente approdata al rango di imprescindibile monumentum da cui svincolarsi. Ci è riuscito, con attenzione incisiva a oralità e ritmo, Franco Ferrari nella sua nuova traduzione dell’Iliade, pubblicata negli Oscar Mondadori nel 2018 (e ce ne parlerà durante il nostro festival). 

 

Il processo di rilettura e traduzione è soggetto anch’esso al tempo. Ritradurre Omero può voler dire anche dargli nuova luce interrogandolo, porsi in ascolto dell’inconscio storico della lingua per tentare di ricrearne i sensi nel nuovo testo, invece che pensare solo a quel significato immutabile-biunivoco annidato nelle nicchie e caselle del dizionario. Meglio allora evitare una facile sicumera, o peggio dogmatismo, parlando di traduzione. Non la traduzione esiste, ma le traduzioni. Wilson parla accanto a Villa, compie un pezzo di strada con lui nella nostra esperienza di lettori; così Calzecchi Onesti e Ferrari. Le varie traduzioni, anche di un classico, non vivono per competere tra loro. Esistono più voci scaturite dalla persistenza fluttuante dell’originale in un altro tempo, e le ritraduzioni servono a mettere in questione le visioni canoniche di un classico, aprendo possibilità: sono rivelatrici e contestatrici: aprono la discussione, invece di chiuderla tra le pagine ingiallite di un sapere indiscutibile e indiscusso.

 

“BookMarchs - L’altra voce”, festival dei libri e dei loro traduttori, si tiene in undici paesi delle Marche (province di Fermo e Ascoli Piceno) dal 4 all’8 settembre 2019, con un’anteprima (30 agosto-1° settembre). Il tema della seconda edizione è “Tornare a ridere al giorno: tradurre e ritradurre i classici”). www.bookmarchs.it

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