Politica e negazione / Per una filosofia affermativa

23 Agosto 2019

La riflessione che Roberto Esposito svolge in Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, si colloca all’interno di quel dibattito del pensiero italiano contemporaneo, che comprende la riflessione di Giorgio Agamben attorno ai concetti di inoperosità, potenza-di-non e potenza destituente, quella di Paolo Virno sulle implicazioni etico-politiche della negazione e quella di Massimo Cacciari sulla categoria negativa del potere che frena in S. Paolo. Tuttavia Esposito aggiunge un ulteriore contributo al tentativo di attenuare il carattere escludente – e al limite annichilente – del paradigma della negazione, facendo confluire la specificità e la portata della sua proposta nel concetto di immunizzazione, emblema di una negazione che, più che escludere, “include parte di ciò che intende escludere per vanificarne la forza d’urto”. 

 

L’esito teorico di Politica e negazione non sarebbe comunque pensabile senza l’operazione storico-critica condotta da Esposito nei due capitoli iniziali. L’intimo intreccio di filosofia e politica, dalla Grecia antica fino al primo Novecento, viene riletto a partire dal registro negativo che segretamente lo percorre. In particolare viene posta in luce quell’incapacità tipicamente occidentale di definire qualcosa – un ente, un oggetto, una categoria – senza negare al contempo il suo contrario. È stata proprio questa incapacità ad aver condizionato la formulazione delle categorie politiche moderne: la “libertà” come non-necessità e non-costrizione; la “proprietà” come assenza di ogni altra pretesa al possesso dello stesso bene; la “sovranità” come condizione di non-dipendenza dalle leggi dello Stato; il “popolo” come effetto del contrasto con un’entità altra – plebe, folla, moltitudine – situata al proprio interno. Questa stessa incapacità ha segnato, già diversi secoli prima, la valenza negativa – oltre che escludente – della categoria politica per eccellenza: la polis. Nell’accezione aristotelica, infatti, questa “assume da un lato l’aspetto di un modello presente in natura” – nonché il modello del “vivere bene” contrapposto al mero “vivere” – mentre dall’altro, e in virtù di ciò, “esclude tutti coloro che non si conformano ad esso”.

 

La coappartenenza di politica e negazione definisce così la fisionomia di un dispositivo che si esprime storicamente in due modi: nella declinazione negativa del politico e nel processo di politicizzazione della negazione. Se l’analisi del primo implica la messa a fuoco della negazione nelle categorie del politico, quella del secondo mostra il passaggio che essa compie “da uno statuto linguistico a uno logico, poi ontologico, e infine performativo, volto all’esclusione di quanto viene negato”. 

Su quest’ultimo versante dell’analisi la filosofia del primo Novecento con i suoi differenti ambiti lessicali rappresenta per Esposito un passaggio storico particolarmente emblematico. La politicizzazione della negazione prende piede tanto dallo strutturalismo linguistico di Saussure – fondato sul carattere negativo, relativo e oppositivo degli elementi che compongono il linguaggio – quanto dalla teoria psicoanalitica di Freud, dove la negazione è sia veicolo che rimozione di ciò che il soggetto non riesce ad esprimere in forma affermativa. Ad ogni modo è nel pensiero di Carl Schmitt che si rintracciano in maniera più evidente gli effetti metapolitici del processo. Per il filosofo e giurista tedesco la logica dell’omnis determinatio est negatio implica che la negazione definisca lo statuto del soggetto politico. Da qui sorge l’idea che il “sovrano” è tale solamente in quanto può negare la sussistenza dell’ordine vigente. Il soggetto politico esercita la negazione nelle forme esplicite dell’esclusione (la messa al bando di un “nemico interno”) e dell’annientamento (la guerra contro un altro Stato).

 

 

Da Aristotele fino a Schmitt, l’intensificazione del negativo da un punto di vista teorico comporta automaticamente l’attivazione di procedure escludenti da un punto di vista performativo. L’idea di Esposito è allora quella di spezzare tale nesso, per riannodare in senso non escludente i fili di una negazione sfuggita di mano a molti dei suoi interpreti. Ripercorrendo l’originale fil rouge che connette Macchiavelli, Spinoza, Kant, Nietzsche, Deleuze e Foucault, il filosofo italiano lascia intravedere la possibilità di un approccio alternativo al concetto di negazione. Negare, seguendo le argomentazioni di questi pensatori, non significherà più, semplicemente, escludere qualcosa, ma affermarne la differenza, in una dinamica relazionale fatta di scambi e contaminazioni reciproche. Differenza, determinazione e opposizione diventano le coordinate fondamentali per ripensare la categoria di negazione e per provare a includerla “in un orizzonte positivo, torcendola su se stessa fino a convertirne l’attitudine escludente in direzione affermativa o compatibile con l’affermazione”.

 

La differenza deleuziana gioca qui un ruolo decisivo, dal momento che essa, “piuttosto che separare, fa comunicare i differenti”, in un’ottica in cui “la divergenza agisce come un principio d’inclusione”. Lo stesso vale poi per la categoria di determinazione. In questo caso il ricorso di Esposito alla storia della filosofia passa attraverso il pensiero di Spinoza. Secondo il filosofo olandese, la determinazione di una cosa, comportando l’essere affetta di questa dalle infinite altre cose che compongono la sostanza, impedisce che esse siano escluse dal suo orizzonte ontologico. Per quanto riguarda infine l’opposizione, la valenza affermativa di tale categoria risiede tutta nel significato principale del prefisso ob (“davanti a”, “a fronte di”), il quale, contrariamente a quanto accade nella dinamica della “contrapposizione”, implica che nessuna delle polarità op-poste possa escludere o annientare del tutto l’altra. Emblematici diventano qui il contrasto politico tra nobili e popolari in Macchiavelli, l’opposizione reale tra attrazione e repulsione in Kant, il gioco di forze tra azione e reazione in Nietzsche e la dinamica tra potere e resistenza in Foucault. 

 

Su questo medesimo punto si delinea la proposta finale di Politica e negazione: “a tali bipolarità si può aggiungere – afferma Esposito – come loro condensato e possibile variante, la dialettica tra comunità e immunità”. La categoria di immunizzazione, in particolare, assume all’interno di tale dialettica un ruolo decisivo: “piuttosto che una semplice esclusione, essa attua una sorta di inclusione escludente – include parte di ciò che intende escludere per vanificarne la forza d’urto”, alla stessa maniera con cui la pratica della vaccinazione “immette nel corpo del paziente una porzione del virus da cui intende proteggerlo”. L’immunis è colui che salvaguarda se stesso dai vincoli della comunità in cui vive, nella misura in cui, assumendoli in parte, impara a comprendere il limite oltre il quale la loro assunzione non può che produrre effetti nocivi (omologazione, dipendenza, sfruttamento). Così facendo, inoltre, egli salvaguarda la comunità stessa dalla sua deriva totalitaria, vanificando la forza d’urto che la spingerebbe ad omologare le proprie eterogeneità ad un modello universale. 

 

L’immunizzazione attenua così il carattere escludente della negazione, facendola convergere in un nuovo paradigma. Ciò che viene negato, ora, non è più tanto l’opposto di ciò che si afferma, bensì la possibilità stessa delle posizioni opposte (comunità e immunità, in questo caso) di escludersi o annientarsi a vicenda. Questa possibilità viene negata per mezzo della tendenza del tutto affermativa con la quale ogni polarità conserva, trattiene o include, una parte di quella a cui si oppone.

Sotto il cappello di un medesimo paradigma – tenendo conto delle dovute distinzioni – l’approccio di Esposito alla questione del negativo diventa sovrapponibile a quello dei pensatori del panorama filosofico italiano ricordati all’inizio. Basti pensare al lavoro di Agamben attorno alla funzione negativa della potenza aristotelica: ciò che viene negato – nella dinamica fra potenza e atto – non sarebbe né la potenza né l’atto in sé, bensì la risoluzione integrale della prima nel secondo. Tracce di un simile approccio si trovano anche nel saggio su Il potere che frena di Massimo Cacciari nel quale, attraverso la categoria paolina del katechon, si indaga la declinazione teologico-politica di una negazione “che trattiene”. Ma anche il Saggio sulla negazione di Paolo Virno insiste su un valore linguistico della doppia negazione (non è che non ti amo), che rinvierebbe non tanto alla possibilità di restaurare un’affermazione originaria (ti amo), ma di conservarne qualcosa, potremo dire, allorché si nega anche il suo contrario (non non ti amo), restituendo in tal modo la complessità di un “affetto in via di trasformazione, colmo di sfumature inedite”.

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