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Massimo Donà: l'insospettabile obiettivo

9 Luglio 2025

Condensato in una novantina di pagine, il nucleo teorico della fotografia nella recente pubblicazione di Silvana Editoriale firmata da Massimo Donà, Filosofia della fotografia. I prodigi di un insospettabile obiettivo, è affrontato attraverso il pensiero e i suoi più autorevoli rappresentanti. Questo approccio ha un nobile predecessore che a molti potrà venire in mente fin dal titolo del libro: nel 1983 veniva pubblicato infatti il risonante Per una filosofia della fotografia, in cui il pensatore ceco Vilém Flusser (1920-1991) tentava di sondare la natura della rivoluzionaria arte tecnica attraverso calzanti snodi concettuali attinti da Kant come dall’etimologia, come dall’osservazione sociologica. 

Massimo Donà ha, in questo caso, una guida assai chiara, che enuncia fin dal principio: vede infatti nella figura di Italo Zannier – vero eroe epico della storia della fotografia di cui Donà fu allievo nel corso dei suoi studi – una voce da seguire e da cui attingere gli spunti più salienti per l’approfondimento teorico.

Ecco dunque I prodigi di un insospettabile “obiettivo”, come recita il sottotitolo: è più che importante ribadire l’entusiasmo genuino della mente di Donà nel muoversi e districarsi dentro i talvolta complessi labirinti in cui ci getta la natura della fotografia, e assistere quindi a uno stupore che in tutto si fa porta del pensiero generativo, carezzante il dorso di un essere di fatto difficile da afferrare.

La fotografia è una “soglia”, innanzitutto, che si apre alla possibilità di toccare con mano una verità che però sfuggirà sempre, e sempre sarà l’alterità a cui tenderemo senza mai raggiungerla, cadendo nello stagno, come Narciso. Mito a cui Donà torna a più riprese, intravedendo un intreccio di implicazioni più che coerenti con quelle poste dal ragionamento fotografico.

Noi siamo, innanzitutto, quell’entità che si trasforma restando se stessa, e dunque viviamo sempre in una “mobilità” volta alla nostra evoluzione e contemporaneamente in un’immobilità invisibile che ci fa restare chi siamo. Eppure la fotografia, nel cuore della propria istantaneità, trasporta i nostri volti in uno stagno immobile, più rigido di quanto potrà mai avvenire davvero nella vita reale, ed è per questo che l’immagine che ci restituisce la pellicola – o cosa per essa – non parlerà mai il linguaggio della pura verità. Sarà sempre, come ricorda Massimo Donà, inevitabilmente un inganno, sebbene sia evidente la propria aderenza alle fattezze delle cose che esistono.

“Solo come fantasmatico altro potrò averlo, il mondo”, scrive il filosofo veneto, sintetizzando in un colpo solo forse il concetto più vicino al vero quando si parla di fotografia, della sua natura profondamente radicata nel “rapporto con”, che è un rapporto di volta in volta con un mondo ridotto a un suo frammento speculare. A dire, in altri termini, che quello della fotografia è e sarà sempre un comunicare con le cose viste da una stanza piena di specchi, una frustrazione affascinante quanto irrisolvibile.

Per questo motivo Donà torna obbligatoriamente a Platone e alla sua concezione delle immagini come una doppia menzogna; in quanto copie – e dunque falsi – di una dimensione che è già copia di quella perfetta e ideale, iperurania.

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Italo Zannier.

Ed è per questo motivo che risulta necessario chiedersi, abbastanza presto: cosa si fotografa, quando si fotografa? O meglio: “cosa si scrive, propriamente, con la luce? Il reale, forse? No; perché il reale è già scritto con la luce.” Non soltanto la realtà visibile cattura la fotografia, che è per nostra condizione fisiologica resa possibile ai nostri sensi principalmente grazie alla luce. Cos’è dunque l’immagine? Cosa vediamo davvero riprodotto? Un enigma che apre alla domanda più abissale, se vogliamo, su cosa sia il mondo. Se il mondo è questo complesso oggetto stratificato di elementi visibili e invisibili, concepibili e soltanto intuibili, la sua immagine è un fantasma, appunto. Un’eco che ci giunge da lontano di un’entità vasta, sempre più vasta, e mai una voce che ci parli direttamente all’orecchio. Di questa imprendibilità, diciamo anche inavvicinabilità, Narciso, si diceva, diventa il grande portavoce. Siamo noi, ci dice Massimo Donà, l’eterna alterità che non potremo mai baciare, tantomeno conoscere, guardare davvero. L’estraneo che ci guarderà negli occhi ma non potrà parlarci. Riverbero dell’eco, mai voce.

La fotografia, dunque, diventa (o meglio, si sta riscoprendo essere) materia del pensiero – quest’anno abbiamo anche incontrato l’approccio di Emanuele Coccia a questa disciplina – ma è giusto contemplare e ricordare la fotografia inserendola dentro il contesto in cui nacque e venne concepita. Donà schizza bene il racconto delle numerose scoperte di natura tecnica e ingegneristica avvenute in quel XIX secolo così ricco di svolte, dall’elettricità (Edison) alla scoperta dei batteri (Pasteur), tracciando l’ambiente in fermento che viveva tutto attorno a quel famoso 1839, in cui sarebbe poi stato finalmente brevettato il dagherrotipo. Come l’aura misteriosa del romanzo Giphantie di Tiphaigne de la Roche, pubblicato nel 1760 e in cui già si raccontava di immagini fissate dal reale tramite i raggi luminosi, come specchi o quadri realizzati automaticamente. Un fermento sintetizzabile in un unico desiderio. L’umanità, ci dice il filosofo, aveva bisogno di vedere di più. Vedere più cose, più da vicino, e quelle lontanissime, e le strade di notte. D’altronde, anche Yves Bonnefoy vide nell’elettricità e nell’illuminazione urbana notturna una chiave interpretativa fondamentale per avvicinarsi alla fotografia: il lampione non fa che circoscrivere una porzione di realtà illuminandola, e facendo cadere nell’ombra ciò a cui il proprio fascio luminoso non arriva. Fa, di fatto, una fotografia.

La fotografia è pensiero quanto tecnica del vedere, quindi; e implicata quanto tutta l’arte del Novecento nell’irrisolto rapporto col cristianesimo, e in generale col divino. Se, come ricorda Donà riprendendo Pavel Florenskij, “l’immagine sarebbe stata ritenuta vera solo nella misura in cui si fosse dimostrata capace di custodire la perfetta invisibilità di quel che essa medesima mai si sarebbe azzardata a mostrare”, la fotografia si direbbe perfettamente inserita dentro un contesto che fa dell’invisibile – dell’impossibile da vedere – il proprio vero soggetto, sebbene trasfigurato negli oggetti sensibili.

A questo punto mi viene in mente un’immagine, l’autoritratto di Stanisław Ignacy Witkiewicz (1885-1939), drammaturgo e artista polacco, realizzato nel 1915 circa, in cui si vede l’uomo rifratto in più specchi, con lo sguardo torvo non si sa mai bene – questo l’aspetto quasi inquietante – rivolto a quale dei propri riflessi. Il soggetto, soprattutto quando siamo noi stessi, è sempre al di là dello sguardo che possiamo rivolgergli. Oppure, per dirlo con le parole che utilizza Massimo Donà: “Le potenzialità racchiuse nella fotografia derivano anzitutto dalla messa in forma di ciò che il nostro occhio non coglie”.

L’immagine fotografica vive quasi dentro uno “gnommero” gaddiano, un gomitolo inestricabile di paradossi e contraddizioni, domande irrisolte ed elementi sfuggenti. La sua evidenza non racconta il vero; il suo tempo sono molti tempi, disciolti tra il passato e il futuro, tra l’istante e l’eterno; ogni suo soggetto è un enigma, la sua memoria sempre un dimenticare, come diceva John Berger.

Così, rifacendosi al celebre termine coniato da Italo Zannier, “foto-fanìè”, ovvero alle apparizioni luminose che abbondano sugli schermi, pronte a scomparire una volta spenti, Massimo Donà ci ricorda della natura fragile dell’immagine, ora più che mai, non soltanto nella sua complessità teorica, quanto anche nella sua più labile sostanza.   

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