Nirvana. Punk to the People

21 Gennaio 2014

Si uccise a 27 anni, il ragazzo dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri, spesso con la barba non fatta, con larghe camicie a scacchi, anfibi e jeans rattoppati. All’età in cui sono morti molti altri divi maledetti del rock. Kurt Cobain è stato uno degli ultimi miti della musica del Novecento, tormentato fin dall’infanzia, sconvolto, esacerbato, stremato dall’improvviso successo. A lui – che scriveva nei primi versi del pezzo che lo avrebbe lanciato nell’olimpo pop: “è divertente perdere e fingere” (Smells Like Teen Spirit) – e ai suoi Nirvana – il tentativo, destinato all’insuccesso, di costruire un’isola di (ironico?) appagamento in un mondo infelice – è dedicata l’ultima mostra della galleria ONO Arte Contemporanea di Bologna (via Santa Margherita 10, fino al 31 gennaio).

 

Ph. Charles Peterson

 

Segue a ruota un’esposizione sui Sex Pistols e su quell’officina di arti e marketing che fu il negozio Sex di Malcom McLaren e Vivienne Westwood nella Londra smarrita, ingrigita, senza domani degli anni settanta. E qui si indaga un’altra crisi, quella dei novanta, che avrebbe aperto la strada ai fermenti no-global proprio nella Seattle dei Nirvana, con quel movimento grunge che racconta di una gioventù senza più speranze (ancora “no future”), che viveva mettendo insieme parti di vestiario raccattate qua e là, rattoppando i buchi o lasciandoli bene in vista, creando quei patchwork che sarebbero stati poi ripresi da guru della moda sempre più attenti ai gusti della strada e alle creazioni del do-it-yourself di generazioni impoverite e cresciute nel mito della produzione indipendente, fuori dalle regole di un sistema ingessato e oppressivo.

 

 

C’è un legame tra le due mostre che potrebbe sembrare improprio a chi è cresciuto con il mito del grunge e dei Nirvana. Il titolo di questa esposizione, basata sulle immagini di diverso tenore scattate da tre fotografi, Charles Peterson, Kevin Mazur e Kirk Weddle, è Nirvana. Punk to the People. Riprende quello dell’Emp Museum di Seattle che ha allestito la grande antologica Nirvana: Taking Punk to the Masses. Il concetto è chiaro: Cobain e soci sono partiti dalla scena punk, sognata nella loro provincia del nord ovest degli Stati Uniti, per creare un nuovo stile, molto più morbido, più pop. Questa metamorfosi, dicono i critici, è evidente soprattutto nell’album che li portò al successo, Nevermind, del settembre 1991. Nel primo long playing, Bleach, ancora lo stile era quello duro delle band nate in quella zona periferica degli Stati Uniti, dove si concentravano grandi, innovativi complessi industriali (per tutti: la Microsoft).

 

Ph. Kirk Weddle

 

Alla fine degli anni ottanta siamo già nella crisi, alla fine del sogno, perché, mentre cade l’Orso sovietico, negli States “viene meno la solida certezza della crescita economica costante e duratura, l’americano medio si trova impreparato ad affrontare una latente crisi di sistema che di fatto tiene unito il tessuto sociale del quale la famiglia è un perno fondamentale”, scrive Maurizio Guidoni in Drugstore America, uno dei saggi del bel catalogo edito da Auditorium.  E continua: «I figli, lucidi e disillusi, sono le prime vittime della fine del sogno economico. Mentre questo accade, gli adulti americani ignari – quelli cresciuti nell’euforia del boom economico – continuano a credere che qualunque scelta sia possibile a qualunque età. Ne è una testimonianza il costante aumento dei divorzi, anche oltre i settant’anni».

 

Ph. Kirk Weddle

 

Baby boomers contro quella che sarà chiamata, anche sulla scorta del romanzo di Douglas Coupland, Generazione X. Uscita dalla cura da cavallo del neoliberismo reaganiano. depressa, impaurita, sfiduciata. Con vite falciate dalla droga, dall’alcol, dall’Aids. Dipendente da psicofarmaci e da videogame. In cerca di una vita con qualche sprazzo di autenticità, fuori magari dai media, dal mondo di carta della televisione e della finanza allegra (gli ottanta erano stati anche gli anni degli yuppies). Un po’ punk, un po’ hippie: un po’, semplicemente, disperata.  

 

 

Anche Cobain – che in certi alberghi si firmava Simon Ritchie, il vero nome di Sid Vicious, l’emblema del punk, l’altro scoppiato, morto (suicidatosi?) di overdose – era figlio di genitori separatisi quando aveva sette anni. E tale divisione soffrì fortemente: “Odio mia madre, odio mio padre, mio padre odia mia madre, mia madre odia mio padre, è semplice: vogliono che io sia triste”. Continuamente in crisi di depressione, tra tranquillanti e eroina, subì come un ulteriore peso, quasi uno scacco, il successo planetario che trasformò la piccola garage band di Aberdeen in un fenomeno mediatico globale. La storia dei Nirvana racconta di concerti violenti, di voli d’angelo sul pubblico, di strumenti spaccati, di assalti di fan, di tour interrotti… L’esaltazione e lo smarrimento.

 

 

La mostra documenta tutto questo: la forza punk rock dei concerti, con mani di spettatori che abbrancano la gamba del jeans strappato di Kurt, con la sua chitarra in posa slanciata verso l’alto, in torsione quasi costruttivista, di sbieco; le batterie frantumate, l’impatto, la conquista. Sono gli scatti di Peterson, collocati nei sotterranei dello spazio espositivo e, come al solito, nella sala principale, tra copertine di dischi e riproduzioni a parete, in grande, di alcune immagini. Si vedono sempre nell’ambiente tra piano terra e ammezzato le foto del backstage di Nevermind  di Kirk Weddle, con i Nirvana galleggianti nella piscina, ripresi sott’acqua per cercare varianti all’immagine del neonato nudo che apparve in copertina, suscitando scandalo perché nudo (e con il pene circonciso).

 

Ph. Kevin Mazur

 

Si va poi nel negozio della galleria (che è anche rivendita di vinili e cd di tendenza), e si entra ancora nei concerti, ma anche (soprattutto nell’ultimo spazio, quello dei libri e del vestiario) nella famiglia Cobain, con Courtney Love e la piccola Frances Bean. Le foto con la figlia mostrano un Cobain apparentemente rappacificato; il quadretto intimo si fa perfino idilliaco, con la malinconia e la ricerca di dolcezza (arrabbiata) del grunge. Sotto cova il fuoco.

 

Ph. Charles Peterson

 

La mostra (e il catalogo, con il saggio sulla band di Vittoria Mainoldi e quello sulla fotografia di moda ai tempi del grunge di Beatrice Piantanida, e altri materiali) racconta varie connessioni. Quelle con l’ampia scena musicale dello stato di Washington, con gruppi come i Mudhoney, i Soundgarden, i Pearl Jam e varie band femminili. Quelle con l’impegno e con il rifiuto. Quelle con etichette indipendenti come la Sub Pop e poi il passaggio alle majors. Quelle con un modo di vestirsi originale che metteva insieme stracci e resti, riciclando, che diventerà mainstream invadendo il mondo di anfibi, maglioncioni larghi, camicie a scacchi, buchi e tagli nelle gambe dei pantaloni.

 

Ph. Charles Peterson

 

Si entra anche nei pensieri di Cobain, con alcune pagine dei suoi diari, parole più o meno in libertà ingrandite sulle pareti, come il passaggio in cui si spiega la scelta del nome: Nirvana. Con quello stile suo, così ellittico, che rende ambigui, difficili da interpretare i versi di canzoni che parlano di dolore, solitudine, rabbia e, prima ancora, di vita cronica in una insopportabile provincia. Non mancano sui bianchi muri, grazie alla collaborazione della Cineteca di Bologna, alcuni fotogrammi da film di Gus Van Sant. Il regista ha provato a rendere lo smarrimento di quella generazione, di quei tempi, di quella parte d’America, soprattutto con Belli e dannati (My Own Private Idaho). E campeggiano un manifesto e poche foto dell’esibizione dei Nirvana nel novembre del 1991 al Kryptonight (ah, i nomi anni novanta!) di Baricella, vicino a Bologna, un concerto mitico, ancora tramandato da chi si accalcò a parteciparvi.

 

Ph. Charles Peterson

 

Ha scritto Johnny Rotten, front man del più clamoroso gruppo punk inglese: “I Nirvana influenzati dai Sex Pistols? È certamente impossibile”. La battuta, fulminante, sarcasticamente paradossale, ne lascia intendere e ne nega la possibilità. Un ossimoro. Lasciò vergato Cobain, prima di spararsi, riprendendo una frase di una canzone di Neil Young: “It’s better to burn out than to fade away”, è meglio bruciare che spegnersi lentamente. Rotten + Young: è la formula Cobain? Rabbia e melanconia. Inguaribili.

 

@minimoterrestre

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