Prendere il volo

23 Ottobre 2015

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« I have the field in sight! »

L’aereo tesse fili telegrafici.

PHILIPPE SOUPAULT, Dimanche

 

Sull’aereo, il personale di bordo si prepara a svegliare i passeggeri che dormono nelle cuccette, sono le due del mattino e secondo il piano di volo in tre quarti d’ora l’F-BAZN si poserà sulla pista di Santa Maria per uno scalo di rifornimento. Salvo qualche perturbazione, è un volo tranquillo, senza difficoltà. Roger Pierre trasmette all’aeroporto l’ora di atterraggio prevista: 2.45. Pochi minuti dopo, la torre di controllo portoghese conferma l’autorizzazione alla discesa. Ai comandi, Jean de La Noüe spinge la cloche e stabilizza l’aereo a duemilasettecento metri sul livello del mare. È solo la terza volta che il pilota atterra alle Azzorre, d’abitudine sceglie la rotta nord e lo scalo irlandese dove l’equipaggio si riversa nel duty free, tanto che Shannon è soprannominato l’aeroporto del whisky.

 

Santa Maria è una delle nove isole delle Azzorre, spuntoni di roccia vulcanica dispersi in mezzo al l’oceano. Il suo aeroporto ha un’aria di provincia, la pista sembra il ponte di volo di una portaerei. Spazzato dai venti, l’arcipelago è sempre stato uno scalo, sia marittimo sia aereo. L’ultimo passo prima del gran salto. Si parte da lì e lì si ritorna.

 

A trenta minuti dall’arrivo, la radio dell’F-BAZN segnala alla torre di controllo un ritardo di dieci minuti sull’orario indicato e chiede l’autorizzazione a procedere nella discesa a millecinquecento metri d’altitudine. L’autorizzazione è concessa e viene precisato il meteo a terra, cielo sereno e visibilità perfetta. Nella cabina Jean de La Noüe e i suoi due copiloti fanno le ultime manovre, concentrati e fiduciosi, oltre che rassicurati dalle condizioni atmosferiche sull’isola. Alle 2.50 l’F-BAZN conferma l’orario di arrivo definitivo, fra cinque minuti toccheranno terra a Santa Maria. Dopo avere ricevuto l’ultima autorizzazione di routine, l’aereo è in avvicinamento a mille metri d’altitudine. Si trasmettono al Constellation le informazioni sull’atterraggio, la velocità e la direzione del vento, insieme al numero della pista. « Roger » risponde il pilota. L’alfabeto radio, così come gli esoterici enunciati della meteorologia marina, sono pieni di fascino: Dogger, Fisher, ettopascal, temperature in calo a sud ovest, Viking, scala di Beaufort, barriera frangiflutto, anticiclone delle Azzorre, i più famosi. Si risponde in linguaggio cifrato: Alpha, Bravo, Charlie, Delta, Echo, Foxtrot, Golf, Hotel, India, Juliett, Kilo, Lima, Mike, November, Oscar, Papa, Québec, Romeo, Sierra, Tango, Uniform, Victor, Whiskey, X-ray, Yankee, Zulu. La tecnica e il suo linguaggio, formule assestate a colpi di bacchetta magica. Fuori contesto, la differenza tra la tecnologia avanzata e la magia è impercettibile; si tratta pur sempre di far stare in levitazione degli aerei di parecchie tonnellate.

 

I passeggeri hanno allacciato le cinture di sicurezza, Marcel Cerdan scherza con Jo Longman mentre Paul Genser tiene gli occhi incollati al finestrino. Ginette Neveu stringe contro di sé la custodia dei suoi due violini, uno Stradivari e un Guadagnini – una settimana prima ne possedeva soltanto uno. Sullo strapuntino, la cintura allacciata, il personale di bordo si prepara all’atterraggio.

 

Terra in vista, ore 2.51, Jean de La Noüe annuncia: « I have the field in sight! » Ma il terreno, avvicinandosi, si rivela immerso in una nebbia fitta, le luci penetrano a stento nella densa cortina, l’equipaggio è sorpreso della pioggia e della cappa grigiastra che avvolge la carlinga. Non avevano annunciato una visibilità perfetta a terra? I tre piloti sono increduli. Senz’altro, un errore di traduzione che non è stato rettificato. Nella cabina, Roger Pierre e Jean Salvatori verificano le coordinate ricevute dai trasmettitori a terra. Al di sopra dei monitor, su un cartello metallico avvitato a una parete plastificata si legge la scritta: USCITA DI SICUREZZA. In lontananza, i fari affievoliti dalle nuvole indicano la pista d’atterraggio. Il carrello e i flap si strappano dal ventre dell’F-BAZN e l’apparecchio precipita sul l’aeroporto di Santa Maria.

 

Alle due cinquantun minuti e due secondi un ultimo messaggio della torre di controllo al Constellation rimane senza risposta.

 

 

 

6

L’Età del Nylon

Sotto il vestito, mutandine, reggiseno,

e per civetteria un sottogonna di nylon.

ELSA TRIOLET, L’Âge de Nylon

 

Un infinito concorso di cause determina il risultato più improbabile. Quarantotto persone, altrettanti fattori d’incertezza riuniti per una serie di motivi innumerevoli: il destino è sempre una questione di punti di vista. Un aereo modello dove quarantotto frammenti di storie formano un mondo. Un insieme mobile e affrettato che, nella semplice descrizione dei suoi componenti, va oltre le norme degli studi statistici. Una rassegna di uomini, di donne. Gruppo comune e allo stesso tempo campione sociologico, come ha scritto Charlotte Delbo in Donne ad Auschwitz – duecentotrenta donne, duecentotrenta schede con stato civile, fatti, date e luoghi incolonnati, che per la sola forza del loro concatenamento e della loro successione si svincolano da ogni obbligo formale. Delle vite, minuscole e immense, delle matriosche. Sei anni prima, Amélie Ringler avrebbe potuto essere una di quelle donne. Avrebbe potuto infilarsi in tasca volantini della Resistenza, essere fatta prigioniera, essere ammassata con le altre donne a Romainville, poi il convoglio, il campo. Amélie avrebbe avuto ventun anni. Mulhouse non era più Mulhouse ma Mülhausen, territorio annesso al Terzo Reich. Aveva diciotto anni quando Hitler e la sua corte avevano sfilato in parata per le strade della città. Partita dal passo della Schlucht, la sfilata a braccio teso della Wehrmacht aveva raggiunto il centro storico. Qualche giorno dopo, tutti i nomi delle strade erano stati germanizzati. Rue du Sauvage, via del Selvaggio, era stata ribattezzata Adolf-Hitler-Strasse, interpretazione perfetta, che durò quanto l’ilarità generale. Il nome venne tradotto letteralmente e la via si chiamò Wildemannstrasse. Aveva ventidue anni il 21 novembre 1944, quando al mattino, sbalordita, vide entrare in città la Sesta compagnia dei fucilieri senegalesi e le truppe francesi al comando del generale de Lattre de Tassigny. Dopo due giorni di battaglia, il 23 novembre, la Settima compagnia dei fucilieri marocchini, sostenuta dai carri armati, si impadronì della caserma Lefèbvre, ultimo ripiegamento tedesco.

 

A bordo del Constellation Amélie corre verso un destino in cui non avrebbe mai potuto sperare, una fortuna inaudita, incredibile nel senso più proprio del termine, e infatti alcune settimane prima l’aveva accolta con in credulità. Operaia bobinatrice in una fabbrica tessile di Mulhouse, Amélie è la maggiore di dieci figli. Amélie è anche il nome della miniera di potassio dove suo padre lavora. A nord di Mulhouse si estendono i pozzi degli ereditieri protestanti: Eugène, Alex, Joseph-Else, Fernand, Théodore, Max, Rodolphe. La sua famiglia abita nel villaggio operaio costruito vicino ai siti minerari dalla Società industriale di Mulhouse. Ogni mattina, i suoi fratelli vanno alle miniere di potassio, mentre Amélie e le sorelle lavorano nella filatura Dollfus-Mieg et Compagnie, che produce il filo DMC, marchio visibile nelle vetrine delle mercerie. Le sorelle Ringler sono bobinatrici, operaie addette alla torcitura, da cui esce il filo da ricamo a più capi dal quale si può separare quello di cotone. Bobine, rocchetti, matasse, coni cardati e pettinati diventeranno gomitoli e finiranno nella cruna di un ago. Intorno alla culla di Amélie non c’erano fate nascoste, pronte a condannare la bambina a pungersi il dito con un fuso. Nella sua incredibile storia c’è una madrina che veglia sul suo destino, e una lettera che nel ventisettesimo anno della sua vita si fa tramite di una rivelazione. Negli anni Trenta la madrina era fuggita dall’Alsazia per andare negli Stati Uniti, si diceva che fosse diventata ricca, nessuno immaginava fino a che punto. Dopo avere lavorato come operaia a Detroit, era stata nominata direttrice di un’importante fabbrica di calze di nylon. Nubile, senza figli, aveva sacrificato tutto alla carriera, poi, raggranellata una notevole somma di denaro, aveva scritto alla figlioccia di raggiungerla. Così, una sera di settembre, la famiglia si trova riunita a leggere la lettera della zia dimenticata. La missiva non lascia dubbi: Amélie è la sua unica erede. Alla lettera è allegato un vaglia di duecentomila franchi per coprire le spese di viaggio.

 

È successo talmente in fretta che Amélie, il 27 ottobre, a Orly, non riesce ancora a capacitarsene. Aspetta di sentir ripetere la notizia dalla viva voce della madrina, la considera una rivelazione in sospeso. È il suo primo viaggio e lo farà a sedicimila piedi di altezza sopra un oceano che non ha mai visto. La vigilia, approfitta delle ore libere per curiosare nei negozi. Acquista un vestito verde, un foulard e un paio di calze di nylon Schiaparelli. Amélie ha lunghi capelli castani legati in una coda e coperti da un cappello di paglia nero da cui esce una frangetta. Occhi verdi a mandorla. Al collo ha un medaglione egiziano d’argento, un amuleto Ankh, simbolo di vita eterna. Sull’F- BAZN è seduta accanto a un’altra ragazza, Françoise Brandière. Hanno all’incirca la stessa età, potrebbero essere sorelle, ma il giorno dopo Amélie raggiungerà Detroit prendendo un treno alla Grand Central Station, mentre Françoise, su un altro volo, andrà a Cuba.

 

Dieci anni più tardi, Elsa Triolet comincerà a scrivere la trilogia L’Âge de Nylon: Roses à crédit, Luna Park e L’Âme, ritratto di un’epoca che cerca se stessa aderendo tra alti e bassi all’evoluzione della mentalità, del gusto, dei sogni. Amélie avrebbe potuto essere una delle sue eroine, di certo la più bella. Da operaia del cotone a futura regina del nylon, da bobinatrice nella vecchia Europa a industriale nel Nuovo Mondo. Il passaggio dall’età della seta a quella del nylon, dal tessuto naturale al prodotto sintetico.

 

 

Estratto dal libro di Adrien Bosc, Prendere il volo, traduzione italiana di Laura Bosio, Guanda 2015, pp. 176, € 14.50

 

 

Adrien Bosc sarà in Italia per presentare Prendere il volo, tradotto da Laura Bosio per Guanda, in occasione del Festival de la Fiction Française organizzato dall’Ambasciata di Francia in Italia e dall’Institut Français. Il primo incontro in concomitanza con Bookcity 2015, sarà il 24 ottobre alle ore 14,00 presso l’Institut Français di Milano, in Corso Magenta 63. Relatore Marco Missiroli. Un successivo incontro è previsto presso la Libreria Laterza di Bari il 26 ottobre.

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