Nan Goldin: non andrà a finire bene

12 Novembre 2025

Esiste una Goldin dopo la Ballad of Sexual Dependency, una Goldin che continua a interrogare la memoria, il dolore e la bellezza fragile dell’esistenza. This Will Not End Well è la mostra all’HangarBicocca di Milano, dove la proiezione che l’ha resa celebre convive con i lavori successivi. Se la Ballad era un diario collettivo, un racconto di vita e di sopravvivenza, gli altri si muovono dentro lo stesso spazio emotivo, ma con la consapevolezza di chi continua a guardare indietro per dare un senso alla perdita.

Memory Lost (2019–2021) affronta il tema della dipendenza e dell’astinenza, Sirens (2019–2020) documenta l’estasi e l’euforia delle droghe, Fire Leap (2010–2022) mostra i figli degli amici, Sisters, Saints, Sibyls (2004–2022) è un’installazione dedicata alla sorella maggiore, Barbara Holly Goldin, ricoverata in un istituto psichiatrico da adolescente e suicidatasi a diciotto anni, The Other Side (1992–2021) rende omaggio alle amiche e agli amici transgender, il filmato You Never Did Anything Wrong (2024) è incentrato sull’eclissi solare, che secondo un antico mito è causata da animali che rubano il sole, ed infine Stendhal Syndrome (2024) mette in relazione alcuni capolavori del Rinascimento con i ritratti delle persone che ha frequentato.

Eppure, The Ballad of Sexual Dependency (1981-2022) resta il nucleo originario da cui tutto continua a generarsi. La comunità, l’amore, la perdita, l’autodistruzione e la sopravvivenza sono già inscritti in quella narrazione intima e disperata, le opere successive non fanno che riprenderne la melodia, come variazioni di uno stesso tema. La dimensione performativa dell’opera è fondamentale, l’accompagnamento musicale e la successione cinematografica delle diapositive creano un ritmo serrato, un’esperienza immersiva che ha molta più energia della staticità di una mostra. Nel momento della proiezione, l’artista non espone semplicemente la sua vita, la rivive, e chi guarda è coinvolto nello stesso movimento.

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Nan Goldin, Brian and Nan in Kimono, 1983© Nan Goldin Courtesy Gagosian.

Il flash è una luce che brucia l’istante e rende visibile ciò che normalmente resterebbe nel buio, i corpi, le ferite, le stanze troppo piccole, le tracce della notte. È una luce senza giudizio, che non costruisce una scena ma la ostenta nella sua verità nuda e improvvisa, congela il tempo, ne restituisce la crudezza e la violenza. La luce naturale, invece, nei suoi rari momenti di apparizione, ha qualcosa di malinconico. È la luce della fine di una festa, del mattino dopo, del risveglio incerto. Se il flash appartiene alla vita vissuta, all’eccesso, alla carne, al desiderio, la luce naturale è quella della memoria, del ritorno, del tempo che passa e lascia i suoi segni. Due luci che convivono come due stati dell’essere, la presenza, la necessità di dire ora e la consapevolezza che quell’“ora” è già diventato passato.

È impossibile tracciare un confine tra vita e artificio, la vita è rappresentazione, e la rappresentazione è vita, tutti recitano e contemporaneamente vivono. L’artificio è un modo di esistere, di dichiararsi, di sopravvivere.  Il travestimento e il trucco rivelano l’autenticità di chi costruisce la propria immagine per non dissolversi, mentre la fotografia è una confessione che non mira alla verità assoluta, ma alla verità sentita, quella che passa attraverso il corpo, l’emozione, la luce.

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Nan Goldin, Vivienne in the green dress, New York City, 1980 © Nan Goldin, Courtesy Gagosian.

“I’ll be your mirror / reflect what you are / in case you don’t know”, brano di Lou Reed della colonna sonora, è il manifesto segreto della Ballad, una dichiarazione d’amore, l’idea che la fotografia restituisca l’immagine dell’altro come possibilità di sopravvivenza. Ogni volto che Goldin ritrae, riflette il suo, e viceversa; nell’attimo della visione entrambi sfiorano l’immortalità, non sottratti al tempo, ma intensamente vivi dentro di esso. Quando fotografo non scelgo le persone che voglio ritrarre; i miei scatti scaturiscono dalla mia vita. Nascono dalle relazioni, non dall’osservazione. L’artista dona visibilità, e quindi dignità, a chi normalmente è escluso dal racconto dominante, un gesto politico e poetico che sposta i margini al centro. Le persone che popolano la sua opera sono drag queen, tossicodipendenti, individui segnati dalla malattia o dalla precarietà, non c’è la femminilità “classica” o la virilità “tradizionale”, emerge un’androginia che rifiuta le categorie imposte e rende visibile la fluidità e il magnetismo dei desideri.

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Nan Goldin, The Hug, New York City, 1980© Nan Goldin Courtesy Gagosian.
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Nan GoldinFrench Chris on the convertible, New York City, 1979, © Nan Goldin, Courtesy Gagosian.

Le strutture dell’allestimento, rivestite di velluto nero e di altri colori scuri, ci attirano in un microcosmo dove il confine tra osservatore e soggetto si assottiglia. Sono camere oscure, luoghi di trasformazione e rivelazione, dove il buio amplifica la luce delle proiezioni, creando un ambiente in cui tempo e spazio si comprimono e si intensificano. Per la Goldin la camera, come la camera oscura, è un luogo di immersione e di contatto, in cui il racconto collettivo diventa diario personale.

Nan, ci sei? Stai dormendo? Mi senti? Dimmi che cosa succede, è il messaggio di un amico registrato dalla segreteria telefonica.

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Nan Goldin, Picnic on the Esplanade, Boston, 1973© Nan Goldin Courtesy Gagosian.

La tecnica, pur conosciuta e padroneggiata, ignora la compostezza formale e il rigore geometrico per cogliere l’urgenza degli eventi. Mentre scorrono le diapositive, si sente il colpo dell’immagine che arriva, che attraversa la sala, che colpisce letteralmente lo spettatore. In quel momento la retorica dello shot e dello shoot, del “colpo” e dello “scatto”, si realizza pienamente: ogni fotografia è insieme ferita e sparo.

È un’esperienza che investe chi guarda. Rivedere la Ballad significa confrontarsi con un doppio movimento, la vitalità bruciante del momento e la sua inevitabile caducità. La “sprezzatura” dei corpi e dei gesti, quella libertà dal conformismo, dal pudore, dal decoro, è un atto disperato, è mostrarsi senza filtri, sapendo che la vita corre in fretta. La giovinezza non è semplicemente un’età, ma un momento in cui è possibile non pensare alla fine, un’eternità breve, la convinzione, anche solo per un istante, che il tempo si arresti nella vertigine del presente. I’ll be your mirror si muta in Perfect Day (titolo di uno degli album più famosi ancora di Lou Reed) un momento di grazia destinato a svanire.

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Nan Goldin, Heart-shaped bruise, New York City, 1980© Nan Goldin Courtesy Gagosian.

Ogni progetto successivo alla Ballad è un modo di ritrovare il movimento, il suono, la densità emotiva di quei momenti. Negli anni Ottanta, le sue immagini erano dichiarazioni di appartenenza; oggi, invece, sono le reliquie di una verità perduta: l’urgenza di fondere arte e vita grazie alla fotocamera.

A differenza di Robert Mapplethorpe, dove il corpo e il desiderio sono sempre mediati da una distanza estetica, Goldin elimina ogni filtro. Le stanze sporche, le pareti coperte di spruzzi di sangue, le vite che passano senza ordine né misura, mostrano la realtà nella sua forma impietosa. Lo spettatore non può “guardare da fuori”, è costretto a confrontarsi con la morte, presenza quotidiana, vicina, inevitabile. Il polso squarciato, collocato quasi a metà della proiezione, suggerisce che lo scatto imperfetto, che coglie il momento perfetto, è divenuto segno di un’estetica riconoscibile, il solo capace di catturare l’istante che, mentre accade, è già destinato a dissolversi.

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Nan Goldin, Ivy on the way to Newbury St., Boston Garden, Boston, 1973 © Nan Goldin, Courtesy Gagosian.

This Will Not End Well suona come una profezia: non c’è alcuna promessa di salvezza o possibilità di catarsi, ma la lucida accettazione dell’inevitabile. Il titolo diventa così la chiave di lettura retroattiva dell’intera opera, ogni serie, dalla Ballad a The Other Side a Memory Lost, appare come un tentativo di opporsi al crollo pur sapendo che il crollo è già avvenuto. Per questo, This Will Not End Well non è solo un titolo, ma un epitaffio disperato, una dichiarazione sulla fragilità della visione e della vita.

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Nan Goldin, Amanda at the sauna, Hotel Savoy, Berlin, 1993 © Nan Goldin, Courtesy Gagosian.

Vi invito a scoprire la mia opera, invece di filmarla o fotografarla. Confido nel vostro rispetto per me e per le persone ritratte nelle immagini, e che non condividerete foto o video di questa mostra su internet, inclusi i social media. Goldin ci sta dicendo che la fotografia serve a ricordare che tutto svanisce. Il divieto di fotografare non è un gesto autoritario, ma un’estensione poetica del titolo. This Will Not End Well è un’esperienza che si dissolve nel momento stesso in cui la viviamo, una perdita programmata, una consapevolezza radicale della fine.

Nan Goldin
This Will Not End Well
11 ottobre 2025 - 15 febbraio 2026
Mostra organizzata dal Moderna Museet, Stoccolma, in collaborazione con Pirelli HangarBicocca, Milano, Stedelijk Museum Amsterdam, Neue Nationalgalerie, Berlino, e Grand Palais Rmn, Parigi.

La mostra in Pirelli HangarBicocca è curata da Roberta Tenconi con Lucia Aspesi.

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Nan Goldin, Young Love, 2024© Nan Goldin, Courtesy Gagosian.

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Alessandra Sarchi | La bellezza e lo strazio: Nan Goldin di Laura Poitras
Silvia mazzucchelli | The Ballad of Sexual Dependency
Veronica Vituzzi | La ricerca del corpo di Nan Goldin

In copertina, Nan Goldin, Self-portrait with eyes turned inward, Boston, 1989, © Nan Goldin, Courtesy Gagosian.

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