Robert Mapplethorpe, vertiginoso e classico
Robert Mapplethorpe approda nuovamente a Venezia, ma il suo lato più oscuro, quello che inquieta e affascina, resta sommerso, trattenuto sotto il pelo dell’acqua. Come un riflesso sfuggente, la sua ricerca più radicale, quella che indaga il rapporto tra desiderio e morte, viene appena sfiorata, lasciando emergere una versione più levigata e accettabile, ma inevitabilmente meno vertiginosa. Uno degli obiettivi di questa mostra, oltre al rendere omaggio al grande maestro statunitense, è quello di liberarlo dal cliché che relega la sua pratica a una fotografia provocatoria. Robert Mapplethorpe è molto di più e molto altro, scrive il curatore Denis Curti. Della duplice tensione che attraversa le sue immagini, si coglie solo l’eleganza composta della forma; l’altra, più incandescente, legata all’eros e all’urgenza dell’amore omofilo, resta in ombra. Eppure, è in quella frizione, nella sublimazione dell’eccesso, che si gioca la forza del suo sguardo.
La mostra si apre con alcuni collages giovanili e una moltitudine di fotografie, da un lato Patti Smith, dall’altro la culturista Lisa Lyon, due presenze femminili cruciali nella vita di Mapplethorpe, soprattutto Patti, compagna di esordi, sorella elettiva, complice silenziosa e febbrile. Le due donne non incarnano l’archetipo materno, non sono custodi né madri, bensì presenze prossime, specchi estetici, fedeli a un’intimità che precede ogni classificazione. Nel momento in cui il fotografo ne mascolinizza i tratti o, meglio, li neutralizza, la loro identità si incrina, diventa instabile. Restano riconoscibili come donne, ma il genere smette di essere il centro semantico del ritratto. Eppure, il loro posizionamento iniziale sorprende, come l’abbondanza di immagini, una presenza così insistente che finisce per indebolire il perturbante che incarnano. Sono soggetti che destabilizzano, ma la loro potenza non si esprime nel numero, bensì nell’ambiguità, nella genealogia artistica che il fotografo non rappresenta, ma abita.

Curiosamente, la mostra non insiste sugli autoritratti di Mapplethorpe, il vero asse portante sembra essere piuttosto la costruzione del neutro, come zona di frontiera in cui il genere si fa instabile. Ma è proprio nel momento in cui questa ambiguità viene esaltata, che qualcosa si incrina. La spinta a rendere visibile il neutro, a celebrarne la forza estetica e politica, sembra paradossalmente produrre il suo depotenziamento. Ciò che dovrebbe inquietare e sovvertire, finisce per essere addomesticato dalla reiterazione e dall’eccesso visivo.
I quattordici autoritratti di Mapplethorpe vengono incastonati tra due sezioni, da un lato Patti Smith e Lisa Lyon, dall’altro la lunghissima sequenza di ritratti di personaggi celebri. Tra questi sono esposti alcuni autoscatti ormai iconici, quello con le corna da satiro, in cui il corpo si fa simbolo pagano e desiderante, quello in cui si traveste da Rrose Sélavy, evocando il gioco dadaista dell’identità fluida, poi ancora il teddy boy, il dandy, e l’autoritratto realizzato nel 1975, in cui il busto e il volto scivolano verso il margine destro, lasciando che ad attraversare la scena sia il solo braccio disteso verso sinistra, fino quasi a toccare il bordo opposto dell’immagine. La mano, aperta, vorrebbe trattenere qualcosa, ma rinuncia alla presa, il sorriso, appena accennato, è seduttivo ma si sottrae, una forma di autorappresentazione che rinuncia al possesso dell’immagine, esaltando il suo slittamento.

Sono fotografie potenti, ma parlano una lingua diversa rispetto a quella che attraversa il nucleo più radicale del suo lavoro. Non ci sono le polaroid scabrose degli esordi, autoritratti sporchi, immediati, carnali e, soprattutto, mancano i corpi degli altri, quelli amati, desiderati, sfiorati con l’obiettivo, fra cui Charles e Jim (1974), Mark Stevens (Mr. 10 ½), 1976, Patrice (1977), Helmut (1978), John (1978), Lou, NYC (1978), Brian Ridley and Lyle Heeter (1979), Larry (1979), Dominick and Elliot (1979), Marty and Hank (1982).
Il percorso, aperto dai collages, si chiude con il processo inverso, una serie di fotografie in cui il corpo non viene assemblato ma frammentato; braccia, schiene e toraci sono frutto di una progressiva riduzione, si passa dall’eros all’estetica, dal linguaggio alla sua grammatica muta. È in questa parabola che si consuma una contraddizione profonda perché, se il corpo, per Mapplethorpe, è sempre spazio di complessità, un frammento non inquieta, non sovverte, non interpella, resta sospeso, come un oggetto da contemplare più che da comprendere.

La mostra propone dunque una versione temperata di Mapplethorpe, non solo attento alle forme del classico, ma egli stesso reso classico, ricondotto entro un ordine armonico, proporzionato, composto, quasi prevedibile. Mapplethorpe viene così incasellato entro i margini del ritratto d’autore, in compagnia di Irving Penn e Richard Avedon, eppure il suo sguardo è duplice, cerca la perfezione sapendo che è destinata a sfiorire, esalta la forma nel suo massimo splendore, quando la caducità inizia a intaccarla. Il fiore si offre nella sua fragile opulenza, il corpo nella sua tensione estrema, il gesto nella sua più pura compiutezza. Ogni fiore, ogni corpo, ogni gesto sono un’offerta, un’ostensione in bilico tra estasi e dissoluzione.
Il suo sguardo è quello di un sacerdote e di un danzatore, di chi conosce il potere della bellezza ma sa che, come in ogni festa dionisiaca, dopo l’estasi arriva la caduta. È proprio nella tensione tra il sublime e l’abisso, tra l’apollineo della forma e il dionisiaco del disfacimento, che Mapplethorpe trova il suo punto di equilibrio. La fotografia diventa un rito per celebrare o scongiurare la morte, un teatro in cui l’eros e la dissolvenza della carne si intrecciano. Ogni immagine è un trompe-l’œil tra l’essere e il non essere, tra il desiderio di fermare il tempo e la consapevolezza dell’inesorabile dissolvimento. È un’offerta e, insieme, un esorcismo, un memento mori travestito da eternità.

Mapplethorpe stringe un patto di sangue con la fotografia, ogni immagine nasce da una relazione, da un’intesa profonda, da un coinvolgimento che non ammette neutralità. Come aveva fatto Nan Goldin con la Ballad, la fotografia è il linguaggio della contemporaneità, quella degli anni Settanta e Ottanta, in cui il mondo gay comincia a reclamare visibilità. Non osserva i suoi modelli come un demiurgo, ma li guarda da dentro, li ha conosciuti, toccati, amati. Le persone da me fotografate cercavano nelle loro azioni un orgasmo e per me questo era giustificabile. Non era violenza per la violenza, dove una persona si approfitta di un’altra. Si agiva insieme per avere un reciproco orgasmo, anche se non sembra facile crederlo con le fotografie. Conoscevo tutte queste persone. (…) Erano miei amici.
Quel patto di sangue è allora anche una forma di schiavitù, alla propria verità, alla bellezza che brucia, alla necessità di dire io ci sono stato. Non esiste distanza tra l’autore e ciò che ritrae, ogni corpo esposto è anche il suo, ogni fotografia è un’estensione di sé, un amplesso finale con ciò che ama, con ciò che lo consuma. E quel patto ha un inizio e una fine nei suoi autoritratti più radicali. Quello del 1978, in cui si mostra di spalle mentre guarda in macchina e si infila un frustino nell’ano, e quello del 1988, a dieci anni di distanza, in cui il volto consunto dall’Aids affiora da uno sfondo nero, mentre afferra un bastone coronato da un teschio. Sono le estremità di un’unica relazione, quella tra Mapplethorpe e la sua verità. Una relazione senza maschere, fatta di dominio, abbandono e infine di resa; l’ano e la mano trattengono i due estremi, da una parte eros dall’altra thanatos. La mano che un tempo si chiudeva intorno al piacere ora si chiude intorno al destino. E tra i due estremi, l’arte è l’unico filo che cuce tutto insieme. Il patto di sangue non era solo con i corpi degli altri, ma anche con il proprio, che non si può salvare, ma si può mostrare fino in fondo.

Nel momento in cui una parte delle sue fotografie non viene esposta, si consuma un atto di castrazione simbolica, ed è proprio questo gesto, apparentemente censorio, che ne rivela il potere. Per chi conosce l’autore, l’immagine si ricompone per contrasto, in un gioco di evocazioni tanto eloquente quanto mutilato, per chi invece ignora l’opera, restano soltanto la sottrazione e il vuoto. Così, l’immagine rimossa diventa specchio bifronte, dispositivo che distingue tra chi sa e chi resta al di qua della soglia del senso. Forse sarà nella prossima mostra a Milano che incontreremo davvero Mapplethorpe. Non l’autore riconciliato con il canone, ma quello irrisolto, febbrile, che fa del corpo, e soprattutto del proprio corpo, un campo di battaglia e di rivelazione. Forse vedremo il volto crudo e necessario di un artista che ha fatto della fotografia lo strumento per una dissezione viscerale del sé.
Robert Mapplethorpe. Le forme del classico, a cura di Denis Curti, Le stanze della fotografia, Venezia sino al 6/1/2026.
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In copertina, Self Portrait, 1975 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission.
