Ucraina: due libri oltre la geopolitica

27 Maggio 2025

“Che cosa possiamo fare?”, chiede una giovane donna polacca dal pubblico. Mykola Riabchuk, politologo e intellettuale ucraino, stava tenendo una lezione sui fatti del Maidan a Vienna il 19 febbraio 2014, a rivolta ancora pienamente in corso. Alla domanda si limita a rispondere: “Semplicemente ricordate che c’è un paese chiamato Ucraina”. Dal febbraio 2022, quando assistemmo sgomenti alle immagini di carri armati russi che avanzavano a pochi chilometri da Kiev, quel nome “Ucraina” ce lo siamo sentiti ripetere quotidianamente da giornali e televisioni. Il nome del paese, di certo, lo ricordiamo, eppure l’impressione è che noi europei continuiamo a misurarne più la distanza che la prossimità.

L’etimologia stessa della parola “Ucraina” ci viene in aiuto nell’individuarne le ragioni. In linea con la storia del paese che nomina, si tratta infatti di un’etimologia incerta, divenuta spesso oggetto di contestazione. Le interpretazioni più accreditate sono almeno due: la prima riconduce il termine alla lingua slava, dove indicherebbe in origine una generica “terra di confine”. Questa toponimia ci rivela qualcosa di ancora molto attuale: è il significato che il termine acquisisce agli occhi di chi, quella terra, la guarda dall’esterno e la vede inesorabilmente ai margini del proprio mondo. Vale per l’Europa così come per la Russia e per gli Stati Uniti. L’Ucraina in questa nuovo gioco sbilenco tra superpotenze, o presunte tali, è solo terra di confine: all’interno di questa espressione è il secondo termine – “confine” – a pesare, perché l’oggetto del contendere è il suo mantenimento o il suo spostarsi parecchi kilometri più a ovest.

Eppure, dicevo, vi è anche una seconda interpretazione dell’etimologia di questo nome, solitamente privilegiata dalla sensibilità nazionale. “Ucraina” infatti può significare anche “marca” o “regione (che appartiene a qualcuno)”. L’Ucraina, dunque, non è solo terra (né tantomeno – verrebbe da aggiungere – terre rare); è la marca di qualcuno: il popolo ucraino. Di quest’ultimo, della sua voce plurale e plurilingue e della sua complessa eterogeneità, ce ne si è dimenticati spesso, preferendo puntare i riflettori sulle sue schiere di amici e nemici o al massimo su chi lo governa. Eppure quello ucraino, così assente dal dibattito pubblico nostrano, non è certo “un popolo che manca” o ancora “da fare”. È un popolo vivo e questa “vita” riemerge come di contraccolpo in due libri resi per la prima volta disponibili in traduzione italiana negli ultimissimi mesi: Non c’è posto per l’amore, qui di Yaroslav Trofimov (La nave di Teseo, 2025, traduzione di Stefano Travagli) e La notte ucraina. Storie da una rivoluzione di Marci Shore (Castelvecchi, 2025, traduzione e prefazione di Olivia Guaraldo, postfazione di Giacomo Mormino).

L’accostamento, da parte di chi scrive, di due testi così diversi, anzitutto nel loro genere di appartenenza (il romanzo storico nel primo caso, la saggistica nel secondo), trova una prima immediata giustificazione nelle parole con cui Shore conclude la sua introduzione al testo: “Lo scopo dello scrivere di Storia è simile a quello dello scrivere letterario: permettere al lettore di fare un incontro con l’alterità, un salto immaginativo in un altro tempo e in un altro luogo, la possibilità di comprendere l’Altro”. Chi scrive, dopo aver letto (per puro caso) quasi in sincronia questi due libri, conferma l’intuizione di Shore: abbiamo la possibilità di capire qualcosa in più di quello che sta accadendo in questo momento storico a 3000 km a nord est dell’Italia quando incontriamo le storie intime di chi a quella terra appartiene.

Non c’è posto per l’amore, qui, il cui titolo originale recita No Country for Love, è un romanzo storico, che trascina i lettori e le lettrici dall’Ucraina alla Russia e ritorno tra il 1930 e la metà degli anni ’50, seguendo le vicende della protagonista, Debora Rosenbaum. Figura, quest’ultima, che esce magistralmente dalla penna di Trofimov perché non veste mai i panni rassicuranti dell’eroina né tanto meno quelli della vittima. È prima di tutto una ragazza diciassettenne, nativa della città rurale di Uman, che nel 1930 si trasferisce a Kharkiv, la capitale della nuova Repubblica socialista sovietica. È per Debora un nuovo inizio che coincide anche con un mondo nuovo. L’eccitazione per la modernità urbana e per i sogni che sembrano a portata di mano (l’amore, l’iscrizione all’università) si trasforma repentinamente in inquietudine per la sovietizzazione che incombe sul paese intero. La carestia indotta dallo Stato devasta le campagne, l’università diviene luogo di propaganda, la polizia segreta intensifica la sua caccia al nemico interno. Lo scoppio della Seconda Guerra mondiale non fa che peggiorare le cose.

La storia di Debora è la storia di una donna che si aggrappa alla vita e che per salvarsi è costretta a scappare (da Kharkiv a Kiev, poi Stalingrado e Derbent per sopravvivere agli ultimi anni della Guerra e infine il ritorno a Kiev). Il prezzo da pagare è quello di lasciare indietro molte persone: l’amica Olena che soffre la fame nelle campagne, Larysa – che la polizia segreta la costringe a denunciare, il fratello che parte per la guerra e non vi farà ritorno, il marito che viene spedito dalla polizia sovietica nei campi di lavoro, il padre che verrà brutalmente ucciso dalle SS nel 1941 a Babyn Yar (luogo di una delle più grandi fucilazioni di massa di ebrei nell’Europa occupata dai tedeschi). Il dopo guerra non lascia né spazio né tempo per fare i conti con i propri traumi: Debora, che nel frattempo ha assunto un cognome russo, continua in tempo di pace quel che ha imparato in tempo di guerra. Mentire, dissimulare, e anche tradire pur di proteggere sé e chi ama. Così, la storia di questa anti-eroina piena di umana vulnerabilità, si conclude nel 1954 con una domanda che esce dalle sue labbra senza retorica: “Davvero siamo sopravvissuti?”.

Quella di Debora è una storia intima che offre una fenomenologia del totalitarismo e della guerra come esperienze vissute. Il suo pregio sta nel non offrire appigli per facili giudizi, storici o morali. La complessità di una vita non si lascia infatti ridurre a semplici categorizzazioni. Ed è proprio su questo punto che si innesta, a mio avviso, un fertile dialogo con il testo di Marci Shore, La notte Ucraina, dedicato alla Rivoluzione dell’Euromaidan cominciata a Kiev nel 2013 e all’inizio della guerra in Donbass nel 2014. Il sottotitolo del testo – An Intimate History of Revolution, reso in italiano con Storie da una rivoluzione – ne rivela subito l’intento: ricostruire quegli eventi, infaustamente sorgivi dell’odierna guerra con la Russia, a partire dalle storie di chi li ha vissuti. Così Shore riesce nell’intento di narrare la Storia attraverso le storie, esaltandone anziché semplificandone la complessità.

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I protagonisti del Maidan – le cui voci sono contraddistinte da uno spiccato plurilinguismo (in Ucraina si parla regolarmente ucraino, russo, polacco, occasionalmente tedesco) – raccontano a Shore le storie della loro rivoluzione, ossia di qualcosa a cui sentono di appartenere. Tra questi, incontriamo Misha, studente ventunenne che ci racconta di come nel Maidan si fossero sviluppati un senso di responsabilità e una capacità di autoorganizzazione collettive impressionanti (“Il Maidan era così pulito che potevi mangiare sull’asfalto”), di come certe notti facesse così freddo che gli si congelavano le labbra e non riusciva più a parlare, di come si è ritrovato quasi per caso a difendere il Maidan durante il massacro dei cecchini e di come in una notte di febbraio la sua ragazza di allora gli avesse telefonato per dirgli addio, convinta che sarebbe morto insieme a tutti gli altri. Allo stesso modo, incontriamo Valerii e Elena, due attivisti di Dnipropetrovsk, per i quali desiderare un’Ucraina europea non è altro che una scelta di civiltà: una condivisione di valori democratici che sarebbe impossibile perseguire in un’Ucraina sovietica (il termine “valori” riappare nelle riflessioni di molti dei protagonisti, come se “Europa” – scrive acutamente Shore – continuasse a significare qualcosa che empiricamente non c’è ma che gli ucraini vorrebbero far essere). Incontriamo il quarantaduenne Ihor, per cui il Maidan rappresenta la terza rivoluzione, dopo il crollo dell’Unione Sovietica del 1991 e la cosiddetta rivoluzione arancione del 2004 nata per denunciare i brogli elettorali (da cui Ihor si vergogna di essere tornato a casa senza rendersi conto che la loro protesta sarebbe stata tradita). E ancora Oleh, che fa lo storico di professione ma riceve un ordine di leva per andare a combattere in Donbass, senza aver la più pallida idea di come si spara un colpo.

Il testo di Shore, pur regalando una visione intima della recente storia ucraina, non fa sconti: mette in luce anche l’escalation della violenza del Maidan, la partecipazione di gruppi di estrema destra come Svoboda, l’eterogenea composizione ideologica di piazza Maidan tra simboli democratici, nazionalisti e neonazisti, che – osservano brillantemente alcuni dei protagonisti – non è altro che lo specchio dell’Europa (da cui, forse proprio per questo, molti europei hanno voltato la faccia con orrore). Eppure Shore insiste sulla necessità di sfuggire alle grandi narrazioni che hanno fatto del Maidan ora il simbolo puro di una liberazione, ora un evento storico pilotato e progettato fin dall’inizio da fazioni contrapposte, dagli Stati Uniti o da chissà quali altri interessati in gioco. Shore, al contrario, ci restituisce un’immagine tutt’altro che nitida ma proprio per questo più interessante di quella piazza Maidan che nel 2013 si affaccia alla storia come l’inizio di qualcosa di nuovo: una rivoluzione che cambia radicalmente le vite di chi vi prende parte. Una rivoluzione “intima” perché la polifonia di voci che la racconta mostra come la rivoluzione non abbia il proprio culmine nella vittoria o nella sconfitta finale, bensì in quel sentimento di solidarietà e felicità pubblica che si concreta nell’essere disposti a morire per la libertà dell’altro che mi sta accanto.

Questa altro non è che l’irruzione della Politica, ossia di una capacità di agire di concerto, per usare un’espressione di Hannah Arendt che, come mette bene in luce Olivia Guaraldo nella sua introduzione (“Il testamento della rivoluzione: leggere Hannah Arendt a Kiev”) qui ben si presta alla comprensione dell’evento Maidan. Di quest’ultimo non si tratta, afferma Jurko – uno dei protagonisti del libro, di decidere se sia “giusto o sbagliato – non è questo il punto. È semplicemente una fenomenologia, che va compresa, perché altrimenti non capiremo nulla della rivoluzione. Niente”. I libri di Trofimov e Shore convergono su questo punto: comprendere la storia degli ultimi cent’anni di Ucraina significa anche saper rinunciare alle grandi narrazioni da esperti di geopolitica e guardare alle forme di vita di chi quella terra di confine la abita e sente di appartenergli.

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