Un osceno tran tran

27 Dicembre 2011

Auden: “Ciò che realmente invidio è che tu stai ancora lavorando”.

Britten: “Tu non lavori?”

Auden: “Ogni giorno, ma non faccio nulla. Ho il vizio dell’arte; scrivo poesie di una gradevole domesticità, tentando di catturare le poche carbonizzate emozioni che vagano nel mio passaggio stralunato. In ogni caso, scrivere è apparentemente terapeutico”.

 

The Habit of Art (Il vizio dell’arte) è una delle commedie recenti di Alan Bennett: è andata in scena al National Theatre di Londra nel 2009 con Alex Jennings nei panni di Britten e Richard Griffiths in quelli Auden. All’ultimo Prix Italia si è vista una produzione televisiva di Channel Four, diretta da Adam Low, in cui Bennett e il regista teatrale Nicholas Hytner raccontano il making of di questa pièce, che è teatro nel teatro, la messinscena di una messinscena. Quei due, Britten e Auden, omosessuali e artisti, si incontrarono negli anni Trenta. La loro amicizia profonda durò un decennio, e poi si perse dopo il 1939, quando Auden andò in America con un giovane scrittore omosessuale, Christopher Isherwood. Là collaborerà con un altro musicista, Igor Stravinskij. All’inizio degli anni Settanta Auden torna in Inghilterra. Sono i suoi ultimi anni, perché morirà nel 1973, a Vienna. Scrive le sue ultime incantevoli poesie, Thank You, Fog (Grazie, nebbia), che Alessandro Gallenzi ha appena tradotto per Adelphi. Alan Bennett immagina nella sua pièce che Auden e Britten si ritrovino a Oxford nel 1972. Sono due ultrasessantenni, due artisti ironicamente vecchi nel loro consumato senso della vita. Auden cinico e spregiudicato reclutatore di bei ragazzi a pagamento, Britten tormentato appassionato amatore pedofilo di giovinetti efebici.

 

Auden nella sua ultima raccolta poetica giostra magistralmente la sua poetica: metri diversi, forme diverse, poemetti, epigrammi, satire, sincere annotazioni su un Tempo che infine reca una sua grazia a chi si aspetta di morire: un nebbione denso, totale, immoto e pervasivo blocca per qualche giorno il Wiltshire inglese durante le vacanze di Natale del 1972, mentre il poeta è ospite degli amici Jimmy e Tania Stern: “Nessun sole d’estate potrà mai dissolvere le tenebre totali diffuse dai Giornali, che vomitano in prosa trasandata fatti violenti e sordidi che non riusciamo, sciocchi, ad impedire: la terra è un brutto posto (our earth’s a sorry spot), eppure, per quest’attimo speciale, così tranquillo ma così festoso, ti rendo Grazie: Grazie, Grazie, Nebbia”.

 

Auden danza leggero con il Tempo: “Narciso era un vecchietto soggiogato dal tempo (Narcissus is an oldie, tamed by time, released at last from lust for other bodies), finalmente libero dalla brama di altri corpi, razionale e appagato”, è un Don Chisciotte pronto a sfidare gli Incantatori, mentre la Morte, molto calma, aspetta le sue vittime nell’era del progresso, perché in qualche modo, sempre, morire si deve. I Cinque Sensi come novelli Swift scherzano sullo sfacelo vero dei corpi che ti hanno attratto nel loro letto con “qualche mistura di catrame e sputo creata da abili fattucchiere per mantenere in forma le persone”, mentre Cupido per disintossicarsi si dà alla macrobiotica e, “bored by peace and quiet”, non pensa che a far baccano, perché oggi vi tocca stare “al passo, al passo, al passo, finché non siate morti”.

 

Alan Bennett torna infine a noi sempre con Adelphi, e Smut. Two Unseemly Stories che Mariagrazia Gini traduce in Due storie sporche. Altri sessantenni conducono la loro egemonia in squallide, normalissime dinamiche famigliari, con sorprendenti ironiche poco ortodosse variabili erotiche. L’occhio di Bennett è implacabile, non crudele, la sua scrittura narrativa brillante e svelta. In un ospedale sfigato o in camere affittate a studenti sfigati, in obbrobriosi matrimoni di opportunità borghese, si fa strada l’astuzia femminile, che sopporta e scansa ingombranti uomini supponenti e insopportabili, e saggi ammutoliti. Quel che si vede non è quel che è, perché “In definitiva, c’è un mare di segreti. Ciò nonostante ognuno, se non proprio felice, almeno non è infelice. E tira avanti”. Anche se tutto questo è un poco “smut”, un poco osceno.

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