Storia e critica della ragione onirica / Sogni di spiriti immondi

19 Dicembre 2021

Un libro che si proponga di indagare “storia e critica della ragione onirica” nel tentativo di scrutare il terreno incerto che connota il vasto regno del sonno non può essere che audace. Garelli indaga con attenzione scrupolosa il pensiero dei filosofi su questo tema e il lettore si ritrova a imparare come i confini fra veglia e sonno siano tutt’altro che definiti, non solo nella contraddittoria contemporaneità ma anche nei tempi di Cartesio, Rousseau e Kant in cui la modernità è nata e si è consolidata. Il libro si struttura in nove sezioni: Dall’onirocritica alla critica della ragione onirica; Un mondo incerto; I sogni di Monsieur Descartes; La derealizzazione; Reality shows; Songes et Lumières; Metafisica e Schwarmerei; Il sogno di una cosa in sé; La notte del mondo. Nella introduzione, dal titolo Penso dunque sogno, l’autore prende subito la parola così: «Questo libro parla di sogni. Falsi», nel senso che rappresentano immagini delle cose e non perché siano falsi in quanto sogni: al contrario sono una “verità percepita” che struttura l’identità dell’uomo, fra realismo e visione, sulla scia delle parole di Proust: «...la nostra vita, distratta dinanzi a cose di cui ignoriamo l’importanza per noi, attenta a quelle che forse non ne hanno, succube di esseri senza nessun rapporto reale con noi, piena di oblii, di lacune, di ansietà vane, la nostra vita simile a un sogno» (SSI, XXIII). Aggiunge l’autore (SSI, XX): «...il sogno, come le diverse forme del delirio e della follia, è un modo di travestire ciò che è letteralmente ab-norme». Si potrebbe dire: l’abnormità è immunizzata dalla maschera del sogno.

 

Garelli evoca la Commedia ricordando l’ipotesi, formulata da alcuni studiosi, che l’intero viaggio dantesco sia compreso nello spazio di un sogno. Inoltre Dante, nella Vita nuova, ha descritto la nascita del suo amore per Beatrice attraverso sogni e visioni. Shakespeare, nel monologo di Prospero alla fine della Tempesta, scrive: «Questi nostri attori, come già vi ho detto, erano tutti degli spiriti e si sono dissolti in aria sottile... Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno» (SSI, p. 66). Nel trattatello giovanile Olympica Descartes racconta tre sogni diversi. Dopo essersi addormenttao “pieno di entusiasmo”, convinto di avere trovato i fondamenti della scienza, si trova a camminare con difficoltà, piegato dal vento; cerca invano una chiesa per pregare; si intrattiene con uno sconosciuto; poi, spaventato dal rumore penetrante di un tuono, vede scintille di fuoco sparse nella stanza e ne prova terrore. Ma, come sottolinea Garelli, Descartes «sa, mentre sogna, di trovarsi in un sogno». Da tutti questi esempi si evidenzia come il regno onirico non sia solo una fantasia notturna avulsa dal reale ma un territorio perturbante che influenza lo stato di veglia, sollecitato dai fantasmi onirici a nuove scoperte interiori.

 

La vita è sogno di Calderon de la Barca, il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, sono opere dove la libertà onirica non si disgiunge dalla lucida analisi dei diversi “sensi” possibili attribuiti all’incomprensibile sogno. “Non capire” il mondo onirico è l’inizio di un’avventura che sviluppa una rete complessa di ipotesi e di pensieri verso un “altrove” non soltanto poetico o evocativo. Ma esiste un pensiero del sogno? Garelli interroga, a questo proposito, la filosofia classica, da Pascal a Hegel, e trova non una risposta ma molteplici riflessioni contrastanti. Come scrive Pascal: «Non posso concepire l’uomo senza pensiero. Sarebbe una pietra o un bruto… L’uomo non è che una canna, la più debole della natura ma una canna pensante» (SSI, p. 148). E nello stesso tempo esiste l’intervallo del sogno, l’abbandono provvisorio della ragione, la creazione di un teatro capovolto dove tutto ciò che avviene non sembra appartenerci.  

 

Per Michel Foucault il mondo del sogno non è un giardino interiore nel quale elaborare fantasie ma un mondo nuovo dove il sognatore riconosce il movimento della sua esistenza, della sua stessa libertà. Ogni sogno è una responsabilità dell’anima, un’insorgenza acuta, un’incursione nell’immaginario. Ma la pluralità dell’universo onirico mette al riparo dall’univocità dell’interpretazione, e crea un mondo a sé, fitto di ombre e costellato di luci. Lo stesso sogno, in individui diversi e con diverse esperienze, assume sempre prospettive altre. La “funzione di vita” del sogno è quella di esistere, sia che lo si ricordi durante la veglia oppure no. Qualcosa accade, non in quanto dettato da voci divine ma come fenomeno composto da immagini (incomprensibili, secondo la logica della vita diurna) della storia di una vita. Esistono dei sogni, delle immagini che ci portano altrove, anche rispetto alla storia antropologica del sognatore. Foucault trasforma la riduttiva esplicazione del mistero onirico nella necessità di una prospettiva più ampia, sospesa fra ascensione e caduta dell’individuo, dove la multiforme varietà dell’indagine non esclude né le categorie freudiane né il simbolismo junghiano.

 

 

Il sogno, secondo antiche tradizioni, è la soglia che consente l’accesso dell’uomo al mondo infero. Ma quando questa soglia viene varcata, come nell’universo psicotico, allora il sogno, invece di veicolare rappresentazioni inconsce, diventa paradossale desiderio di realtà. Il sogno reale distoglie da uno stato di delirio che, se vissuto in stato di veglia per ventiquattr’ore al giorno, diventa un incubo senza risveglio. La prospettiva onirica è un dedalo di interpretazioni: non esiste un sogno in sé, da decifrare tramite una formula, ma il sogno di quel particolare sognatore, la libera espressione del suo essere. Foucault sintetizza così il proprio pensiero sulla verità filosofica in rapporto al sogno e alla follia: «È stato necessario parlare della follia solo in rapporto all’“altra forma” che permette agli uomini di non essere folli, e non è stato possibile descrivere quest’altra forma, per parte sua, se non nella primitiva vivacità che la impegna in un dibattito infinito con la follia. Era quindi necessario un linguaggio senza sostegno» (SE, pp. 121-122).

 

Ed è impossibile non ricordare, quando si parla di “linguaggio senza sostegno”, Antonin Artaud, mentre con sarcasmo, in un suo scritto minore, critica lo spirito analitico: «Quando nasce lo spirito analitico, l’uomo si immagina penetrare la Natura e dissezionare i suoi segreti, esattamente come un chirurgo disseca un muscolo o separa gli organi dal corpo; mentre, nello stesso momento, esattamente come il chirurgo smette di essere in ascolto del corpo, l’uomo perde il suo contatto con la Natura. Si potrà dire quel che si vorrà contro la conoscenza istintiva, è tuttavia essa che ha reso possibili tutte le grandi invenzioni umane. È l’immaginazione senza limiti dell’uomo che ha da sempre nutrito le civilizzazioni» (MR, pp. 49-50). Diagnosticato come schizofrenico, Artaud spiega agli esseri sani le strutture della conoscenza e parla dell’immaginazione in quanto nutrimento della civiltà.

 

Lo stretto rapporto fra sogno ed esistenza non cessa mai di esistere, perché l’uomo, addormentato o desto, continua a sognare, a tessere l’ordine del suo discorso, fra sonno onirico e veglia analitica. In questo senso è eccezionale un passo di Hegel sul processo di generazione delle immagini in quella che lui chiama la “notte della conservazione”, cioè quel fondo dell’anima in cui si depositano esperienze e sentimenti, costituendo la struttura ontologica dello spirito dell’individuo: «L’uomo è questa notte, questo puro nulla, che tutto racchiude nella sua semplicità – una ricchezza senza fine di innumerevoli rappresentazioni e immagini, delle quali nessuna gli sta di fronte o che non sono in quanto presenti. Ciò che qui esiste è la notte, l’interno della natura – un puro Sé; in fantasmagoriche rappresentazioni tutt’intorno è notte, improvvisamente balza qui fuori una testa insanguinata, là un’altra figura bianca, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Questa notte si vede quando si fissa negli occhi un uomo – si penetra in una notte, che diviene spaventosa; qui a ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo» (SSI, p. 379). La suggestione della scrittura e la sua tonalità emotiva evocano qui il concetto di angoscia di Kierkegaard e di Heidegger.

 

Garelli commenta: «Più che al sogno, peraltro, la “notte della conservazione” fa pensare alle cosiddette immagini ipnagogiche: ovvero a quelle rappresentazioni intense e vivide che si presentano a volte nella fase iniziale dell’addormentamento mentre si prende sonno. Alla coscienza desta, e dunque alla filosofia, spetta sempre (ma solo dopo) il compito di mettere ordine in questo caos di immagini non ancora ricondotte all’universalità del logos» (SSI, p. 379). Il periodo della veglia è, allora, custode e ordinatore dei fenomeni onirici. E le immagini oniriche non assomigliano forse alle illusioni “leopardiane”, che è impossibile ridurre al silenzio? «Il combattere le illusioni in genere è il più certo segno d’imperfettissimo e insufficientissimo sapere, e di notabile illusione» (Zibaldone, 1715, TO, p. 477).

 

È davvero difficile riassumere, in una breve nota di lettura, la polivalenza di questo libro, che fluttua fra le storie oniriche come una insonne trascrizione di sogni antichi e moderni e di pensieri sul sogno. L’autore non ci conduce a nessuna soluzione precisa se non a considerare questo tema: nei discorsi filosofici e letterari dell’epoca moderna il sogno può essere pensato come un artificio della ragione che prenda le distanze dall’altro da sé, mostrando quell’alterità contrapposta a questa solidità di pensiero? E dove sta il vero senso del discorso? Nell’essere costretti ad ammettere che il mondo del sogno ha leggi altrettanto solide di quello della veglia ma ha bisogno dello stato di veglia per formare la sua esistenza? La narrazione freudiana del sogno non è il sogno ma la sua narrazione diurna. Il costante interscambio fra veglia e sonno è, dopo questo libro, ancora più aperto, ricco di ipotesi, dubbi, citazioni, intuizioni, considerazioni, mai suffragate da verità storiche assolute.

 

Come scrive Heinrich von Kleist il 22 marzo del 1801 a Wilhelmine von Zenge: «Se gli uomini avessero davanti agli occhi due vetri verdi, dovrebbero concludere che gli oggetti osservati attraverso questi vetri sono verdi, e non potrebbero mai stabilire se l’occhio mostri loro le cose così come realmente sono o non attribuisca ad esse qualche proprietà che appartiene non alle cose, bensì all’occhio. Lo stesso vale per l’intelletto. Noi non possiamo decidere se quanto chiamiamo verità sia realmente verità o soltanto apparenza» (SSI, p. 329). Il Phantast (il “visionario” esemplificato dal filosofo mistico Emanuel Swedenborg) non è solo lo psicotico che proietta fuori di sé le sue percezioni allucinatorie ma l’“uomo onesto” (la definizione è di Kant) che racconta la sua personale, irripetibile verità. L’abisso spalancato dalla facoltà immaginativa (Einbildunsgkraft) può anche spaventare per la sua irriducibilità al reale conosciuto ma resta necessaria “funzione dell’anima”, suo imprescindibile fundus.

 

Libri consultati

 

Antonin Artaud, Messaggi rivoluzionari, Edizioni Ortica, 2019 (MR).

Ludwig Binswanger, Sogno ed esistenza, Milano, Guanda, 1993 (SE).

Gianluca Garelli, Sogni di spiriti immondi. Storia e critica della ragione onirica, Einaudi, 2021 (SSI).

Giacomo Leopardi, Tutte le opere, Sansoni, 1983 (TO).

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