Luci sulla Togliatti / Al capolinea del realismo

3 Dicembre 2021

C’è chi dice che in ogni autobus ci sia un microcosmo. In ogni persona, un mondo. Nelle biografie di ciascuno, anche “banali” e prosaiche, si riflettano traiettorie collettive, che la storia o finanche il mito, insomma, si trovino quasi più nelle pieghe del quotidiano che negli eventi esplosivi, nei fatti e negli “uomini eccezionali”. È, in fondo, la grande scommessa del realismo, non solo letterario. O meglio, di un certo “realismo osservazionale”, spesso condito da vaghezza flâneuristica, che cerca nella realtà più diretta il senso della propria narrazione, e talvolta anche un significato “morale” in ciò che si vede. Ma la realtà è qualcosa che sfugge a sé stessa, in diverse diramazioni. Come ricorda Walter Siti nel suo saggio sul realismo, “i dettagli conducono all’Assoluto, le trame conducono al Mito”.

 

Anche nei pressi del Teatro-Biblioteca Quarticciolo, che sorge nell’omonima borgata romana (una delle dodici borgate “storiche”, progettata da Roberto Nicolini e uno degli “epicentri” della resistenza contro il nazifascismo nonché luogo di ambientazione de Il gobbo di Carlo Lizzani in cui si narra appunto delle gesta del partigiano locale Giuseppe Albano), le strade sembrano sfuggire a sé stesse. Superati i palazzi dalle tinte calde e i relativi cortili, che fungono quasi da corti interne, la quadratura urbanistica si sfalda e si disgrega. Procedendo più a est, gli stradoni si intersecano con l’ampia e allungata area verde del parco di Tor Tre Teste. Andando a sud, invece, un viale “brullo di case e di locali” segna l’inizio del quartiere Alessandrino, periferia che – in maniera meno magnificente e in qualche modo più ‘intima’ del centro cittadino – accoglie numerose rovine imperiali, non da ultimo il famoso acquedotto. Dall’altro lato, invece, l’estesa arteria di via Togliatti che collega le zone settentrionali di Ponte Mammolo e Rebibbia con i quartieri meridionali del Quadraro e Cinecittà, formando praticamente un’area a sé stante. 

 

Un’area in cui, però, pare svolgersi ben poca vita che non sia quella transitoria delle auto di passaggio e dei tram, delle persone in attesa alle fermate, e della ‘vita ai margini’ di tanti lavoratori e tante lavoratrici del sesso che si affollano, calata la sera, soprattutto dall’acquedotto alessandrino al grande mattatoio all’ingrosso (poco più in là del Quarticciolo) recentemente adibito anche a drive-in per tamponi Covid. Da lì in avanti, il viale si biforca e si dirama in sopraelevate che marcano un confine e un cambio d’atmosfera, raccordi metropolitani che non esprimono altro che la propria funzione urbanistica. Sono zone narrate nel documentario Sacro Gra di Gianfranco Rosi che, nel mostrare scene di vita reale in prossimità della grande delimitazione autostradale romana, racconta anche del camper adibito a chiosco-bar sulla Togliatti, dove si riuniscono clienti e prostitute, esercenti e avventori occasionali, persone trans. Sono zone che si intersecano anche con l’omicidio Varani, al centro della ricostruzione dell’ultimo libro di Nicola Lagioia, La città dei vivi, che si è infatti consumato nel vicino Collatino, fra vie notturne poco servite e complessi residenziali. 

 

 

“Per favore, partiamo?”. Udiamo queste parole, con forte inflessione straniera, mentre siamo seduti all’interno di un vero e proprio autobus di linea, parcheggiato su via Ostuni. Lo spettacolo Medea per strada di Teatro dei Borgia, che chiude la rassegna organizzata da Teatro-Biblioteca Quarticciolo “Luci sulla Togliatti”, decide infatti di portare il teatro se non per strada, quanto meno su uno dei ‘luoghi simbolo’ della vita quotidiano-metropolitana: quello dei mezzi di trasporto affollati di persone, di storie (così come di silenzi), di vicende a volta al limite dell’iperrealismo. “Per favore, partiamo?”, urla in maniera sempre più insistente l’attrice Elena Cotugno, battendo ora con la mano sul gabbiotto del guidatore. Ma le porte sono ancora aperte, a segnalare una voluta ricerca di indistinguibilità fra messa in scena e ‘mondo di fuori’, fra finzione e realtà. 

 

Medea per strada è infatti uno spettacolo che cerca di porre la teatralità ‘in sordina’: non solo attraverso l’espediente dell’autobus, dunque dell’utilizzo di uno spazio più prosaico del palco per la messa in scena, ma anche attraverso una recitazione che si svolge in prossimità dello spettatore senza però scadere negli stilemi del teatro partecipato. Cotugno ‘sta’ col pubblico e si rivolge a noi, talvolta interagendo, ma mantenendo sempre una presenza che occupi il centro dell’attenzione e da cui si dipani la narrazione. Certo l’effetto di realismo è parecchio marcato: sembra davvero di trovarsi in una situazione tipo che abbiamo sperimentato quasi tutti all’interno di ambienti pubblici come i mezzi di trasporto. Un’improvvisa rottura della routine, uno scoppio di esuberanza, la necessità, forse, di alleviare una sensazione di solitudine e anonimato: qualcuno inizia a parlare a voce alta, lascia cadere ogni inibizione sociale ed esprime i propri pensieri, racconta la propria storia. 

 

Allo stesso tempo, questo genere di realismo sottende una lunga e calcolata preparazione: Medea per strada – nome generico della performance di Teatro dei Borgia che, a seconda della città in cui viene messo in scena, prende il nome della principale via o zona di prostituzione del posto – parte infatti da un’approfondita ricerca sociale e antropologica. Gianpiero Borgia (regista), Fabrizio Sinisi (drammaturgo) e la stessa Elena Cotugno (che co-firma la drammaturgia) hanno collaborato con numerose associazioni, unità di strada, realtà attive nel contrasto della tratta e nel sostegno alle persone che lavorano nel mondo della prostituzione, cercando di comprenderne meglio caratteristiche e problematiche, osservandone abitudini e atteggiamenti che fondano la loro identità non solo nella concretezza reale ma anche negli stereotipi che attraversano l’immaginario collettivo. Si tratta – secondo le parole dello stesso regista – di un mondo in cui sembra che “il fenomeno cambi, restando sempre fedeli agli stessi rituali: abbordaggio, contrattazione, consumo della prestazione. Ci sono roulotte, ombrelloni, furgoni, fuochi, luoghi di avvicinamento, di sfruttamento e schiavitù”.

 

È teatro civile? Forse lo è nelle sue premesse, nella tensione etica che sorregge appunto la curiosità e il lavorio di ricerca del materiale di partenza. Ma, al momento della messa in scena, questa fusione fra necessità di elaborazione drammaturgia e impegno sociale (quando non politico) si stempera in un’urgenza espressiva che trova il suo senso quasi esclusivamente dentro il rito teatrale, in una linearità narrativa che ha già in sé un potenziale insegnamento morale. Da questo punto di vista, ancora, l’espediente della messa in scena su di un autobus (in alcune versioni si tratta di un furgone) serve dunque da disinnesco dell’enfasi, da rottura di una frontalità scenica che potrebbe molto facilmente scivolare in discorso verticale, in un ‘effetto-sermone’ dagli accenti pietistici.

 

Invece, nell’iniziare a parlare, la protagonista pare quasi sollevarci da un imbarazzo: non sappiamo tanto bene che fare sui nostri sedili, in una situazione al tempo stesso così usuale e riconoscibile, se rapportata al nostro quotidiano, eppure carica di una sottile inquietudine, quando trasposta a teatro. L’attrice ci incuriosisce, grazie alla sua esuberanza fisica e gestuale, ci ammalia, stabilendo un contatto empatico con battute autoironiche e la condivisione dei ricordi, ci sembra insomma una passeggera come noi. Tant’è che, a un certo punto, le porte finalmente si chiudono, il motore della vettura si riscalda e ci si mette in moto. Parte dunque anche il racconto biografico della protagonista: l’infanzia in un piccolo villaggio della Romania sotto la dittatura di Ceaușescu, l’emigrazione verso l’Italia, la conoscenza e la relazione amorosa con una persona con cui avrà due figli ma dalla quale sarà poi tradita, l’ingresso nel mondo del ‘mercato’ sessuale. Tutto è al contempo esplicito e alluso, la gravità delle emozioni mascherata sotto una costante simpatia ed estroversione come a dire “in fondo è un gioco, seppur doloroso”. 

 

L’autobus ogni tanto si arresta per delle fermate, poi continua la corsa, poi ancora parcheggia in un grande piazzale vuoto come si trattasse di un capolinea: l’attrice mette delle canzoni dal cellulare, esce per strada e balla, racconta alcuni dettagli del suo lavoro di prostituta. Al centro della narrazione c’è il desiderio, spezzato, di auto-realizzazione ma anche, più sottilmente, una dialettica fra la necessità di integrazione sociale e la sua impossibilità concreta: Elena Cotugno invita uno degli spettatori a intonare l’inno italiano, dopo aver cantato il suo. Finge una ricerca di dialogo, ma traccia il solco della distanza. Al rimettersi in marcia dell’autobus, che riprende a percorrere vialoni anonimi nel buio soffuso di una sera novembrina, si verifica anche uno slittamento del registro, dei toni dello spettacolo.

 

Se la complicità iniziale ci aveva in qualche modo rassicurato, la narrazione si addentra ora in toni più foschi, improvvisamente poco intellegibili. L’epilogo, infatti, è tragico anche nel senso tecnico del termine: la protagonista scova la compagna del suo passato amore, la uccide e appena dopo uccide con una netta coltellata anche i propri figli, come la Medea di Euripide. “Che dovevo fare?”, ci dice levandosi di colpo la parrucca a rimarcare ancora di più il ‘muro’ che si è frapposto fra noi e lei. “Che dovevo fare, scusate?”, scendendo dall’autobus e uscendo di scena, illuminando retrospettivamente di una luce sinistra tutto ciò che fin qui avevamo condiviso. Le trame conducono al mito, appunto. E l’esposizione, sentita e schietta, di una parabola biografica (forse, di un destino?) conduce infine all’incomunicabilità, non al rispecchiamento (che pur era stato promesso, implicitamente, all’inizio).

 

Non è certo questione di ‘culture’, o di discrepanze umane e personali. Forse nemmeno di ‘condizioni materiali’, che pur contano. Sembra esserci una frattura più profonda. Al termine della sua rilettura del mito di Medea, la controversa scrittrice tedesca Christa Wolf fa dire alla protagonista della tragedia euripidea (che, peraltro, nel libro viene ‘riscattata’ dall’infamia dell’infanticidio attraverso una rilettura filologica della vicenda, in cui appunto non si macchia dell’orrendo delitto): “È pensabile un mondo, un tempo, in cui io possa stare bene? Qui non c’è nessuno a cui lo possa chiedere. E questa è la risposta”. È pensabile un mondo in cui – al di là delle retoriche, pur sincere, e delle contrapposizioni ideologiche sul tema – la voce di chi lavora all’interno del “mercato sessuale” possa essere ascoltata, senza mediazioni, senza il moralismo che pur aleggia all’interno di ogni dibattito sul tema e di certe posture? È qui che ogni realismo urta col proprio limite, con le proprie premesse che non sono date ma che costituiscono invece le conclusioni, politiche, di un certo modo di concepire il mondo. È qui che ogni autobus arriva al suo vero capolinea. 

 

 

Attorno a simili domande e questioni ruota anche l’altra proposta della rassegna di Teatro-Biblioteca Quarticciolo, Togliatti mon amour della compagnia Fortezza Est, con Carlotta Piraino. L’attenzione, però, si sposta sulla figura ‘speculare’ a quella descritta da Medea, ovvero sulla figura – ancora più misteriosa e insondabile – del ‘cliente’, controparte quasi esclusivamente maschile nelle dinamiche del sesso a pagamento ma che certo non è possibile incasellare in alcun ‘profilo tipico’, sebbene si tenda a farlo. Scrive infatti Giulia Garofalo Geymonat nel suo Vendere e comprare sesso (Il Mulino): 

 

Sappiamo che i clienti sono di tutte le età e che appartengono a ogni classe sociale o situazione di coppia. Questo smentisce le vecchie idee secondo cui la prostituzione è per gli uomini di una volta, o per gli ignoranti, o per quelli che non hanno più chance, o per i soli. Sono invece ben rappresentati fra i clienti, i giovani, quelli che hanno studiato all’università e coloro che hanno amanti e partner non a pagamento – anzi: gli studi sono unanimi nel dire che gli uomini sposati o in relazioni stabili comprano sesso leggermente più degli altri. Detto questo, ci sono uomini che acquistano sesso solo in alcune fasi della vita, per esempio quando non hanno relazioni, da molto giovani oppure da molto anziani.  

 

C’è però, forse, una sorta di condizione che funge da minimo comune denominatore, e che lo spettacolo di Fortezza Est pone intelligentemente al centro della drammaturgia: come recita il sottotitolo, Togliatti mon amour è infatti “un percorso nell’anonimato”. Oltre a Carlotta Piraino, in scena c’è “il Furgonaro”, cliente reale e frequentatore delle lavoratrici sessuali che la compagnia è riuscita a incontrare e coinvolgere contattandolo tramite un blog da lui gestito, in cui racconta ed espone pareri riguardanti proprio il mondo della prostituzione di strada romana. Sul palco, non si mostra mai se non di spalle, oppure incappucciato e sempre con la voce che viene alterata attraverso il microfono: è in incognito, non può o non vuole rivelare il suo volto e la sua identità. Eppure, verrebbe da dire a questo punto, l’identità del Furgonaro – l’identità di ogni cliente che si muove nel mondo della prostituzione – non consiste precisamente nell’anonimato, nella ricercata volontà di ‘non avere volto’ e di non assumere un aspetto preciso? 

 

 

Sappiamo che, al di là delle semplificazioni, ciò che spesso si cerca nei rapporti di sesso a pagamento è in realtà qualcosa di altro dal sesso, uno slittamento da quelle dinamiche che vengono percepite come ‘socialmente normali’ (o normate?) in cui il godimento e il piacere derivano non solo dall’atto in sé ma anche, se non soprattutto, dall’esplicitazione delle gerarchie e delle relazioni di potere. Un “ingenuo rituale di casta”, come lo definiva Dino Buzzati nel romanzo Un amore, ambientato in tutt’altro contesto storico ma forse ancora attuale per quanto riguarda le complicate meccaniche del desiderio sottese al mondo della prostituzione… La scelta di non mostrare la reale identità del Furgonaro in Togliatti mon amour diviene dunque funzionale a rivelarne un suo aspetto non meno reale e anzi più ‘vero’, e cioè che la serialità con cui frequenta il “mercato del sesso” è tutt’uno con la sua esigenza di costruzione del sé, con la messa a punto di un ‘personaggio’ che non da ultimo si esprime in maniera fittizio-diaristica anche attraverso un blog. 

 

Teatro agito in scena e “teatro della vita sociale” si toccano in un racconto di reciproca conoscenza e reciproche incomprensioni fra il cliente e l’attrice di Fortezza Est: un’indagine psicologica a doppia direzione in cui, se da una parte si assiste al superamento di alcuni stereotipi e pregiudizi, dall’altra c’è la presa di consapevolezza che al di sotto della ritualità e della sicurezza di certe abitudini si agitano sempre dubbi, incertezze e irrisolti nodi esistenziali. Al termine della performance, il Furgonaro si rivolge al pubblico e chiede alla regia di restituirgli la sua voce reale, strappando un catartico applauso. Siamo già oltre la scena, ai bordi di una ‘verità teatrale’ che si nasconde sotto ogni maschera anonima.                                    

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