Cartolina da Dawei, Birmania

30 Gennaio 2016

Dawei, Myanmar/ Birmania alla frontiera con la Thailandia. La Rough Guide è esplicita: non c’è niente da vedere. Serve solo come posto di passaggio per cercare di raggiungere le spiagge incontaminate a due ore e più da qui, tra strade difficili e villaggi sperduti. Sono rimasto bloccato qui. Noel Coward, il grande autore di commedie e commedie musicali l’aveva detto in rima – aveva vissuto a Rangoon.

Mad dogs and Englishmen go out in the midday sun.
The toughest Burmese bandit can never understand it.
In Rangoon the heat of noon is just what the natives shun,
They put their Scotch or Rye down, and lie down.

 

Solo i cani pazzi e gli Inglesi escono al sole di mezzogiorno

I più duri banditi birmani on riescono a capire.

A Rangoon nella calura di mezzodì i nativi fanno siesta

Mettono via Schotch and Rye e si distendono.

 

Così anch’io ho imparato ad andare in giro la mattina fin quando il sole non diventa impietoso. Ci ho messo un po’ a capire, mi ostinavo a esplorare, a fare il miglior uso del mio tempo, ma poi un tremendo mal di testa mi travolgeva. A Dawei stamane sono andato in giro a vedere il “niente” descritto così bene dalla Guida. Quel niente fatto di gente che vive normalmente la propria vita “come se fosse eterna”. Che fa colazione con una mihonga, una zuppa di pesce piccante insaporita con un “garum” di pesce fermentato, che sta all’ombra di ristoranti in legno dipinto in blu, gente che legge i giornali in libreria, un gruppo sfoglia “Eleven” la cronaca del calcio, l’altro i fogli più politici con la Signora Aung San Suu Kyi, che sta trattando con i militari e i gruppi armati per una transizione indolore. In piedi sfogliano “abusivamente” come in ogni edicola che si rispetti. Accanto piccole fanciulle – qui son tutte minute e non si capisce mai se sono bambine o già donne fatte – mettono insieme gli ottavi e i sedicesimi degli stessi giornali. Il niente è fatto di monaci in porpora che vanno in giro con una grande ciotola di lacca a chiedere riso e altro, in fila, alcuni si schermano con ombrelli porpora come le vesti. Qui chiunque passa almeno due periodi della vita a fare il monaco, come se fosse un servizio civile: si impara a dipendere dagli altri e si impara la via del dhamma, la giusta via del buddhismo theravada e del sangha, la comunità dei credenti. I monasteri sono nel cuore della città e nel cuore della foresta a ricordare che esiste una via dell’illuminazione e che essa passa per un allontanamento, anche provvisorio, dal mondo. Le monache vanno anch’esse in fila, in rosa, con ombrelli rosa e il capo coperto da una sciarpa marrone. In questo paese il monachesimo ha un peso notevole, corteggiato per decenni dalla giunta militare che poi ha perso qualunque credibilità quando nel 2003 ha massacrato i monaci che manifestavano per un passaggio alla democrazia. Ovviamente i monaci sono anche altro: nella zona Arekan hanno cacciato da Sittwe 140mila musulmani, colpevoli di essere dei “parvenus”, cioè di non appartenere storicamente all’etnia Rakhine. Ma la storia è molto complessa. I Rakhine hanno subito angherie dai Birmani che li hanno assoggettati un anno prima di essere sconfitti dagli inglesi (parliamo di un secolo e mezzo fa). Gli inglesi li hanno colonizzati importando dall’India una enorme fetta di popolazione indiana musulmana. Oggi in tutta la Birmania c’è un forte risentimento anti-indiano ma anche una profonda antipatia per ogni tipo di nuova colonizzazione. Oggi sono i cinesi a essere odiati per la loro rapacità e i giapponesi che qui a Dawei insieme a una holding italo-thailandese vogliono costruire il porto più grande di tutta l’Asia, una centrale a carbone e un posto che diventi la spazzatura della Thailandia. Il progetto è stato bloccato per ora, ma l’idea di costruire qui una alternativa a Singapore è ancora nell’aria e intorno a Dawei nuove strade per la Thailandia sono in costruzione.

 

Nel frattempo il “niente” di questa cittadina va avanti. Grandi case in legno a due piani, con una veranda balaustrata che gira tutt’intorno al primo piano. Siamo ai tropici, queste sono case d’ombra, schermate da avvolgibili in bamboo, aperte con graticci alla strada e al piano terra riparano esercizi di vario tipo: sarti con le loro singer, erboristi che misurano con la bilancia il misto di erbe, boccette, bottiglie di unguenti ed infusi, olii misteriosi coperti da scritte in questa lingua dai caratteri tondi che dicono sia nata per tracciare segni sui fogli di palma senza scalfirne la fibra. Poi c’è il grande mezzogiorno, la città si ferma, perfino le ombre densissime del mercato del pesce e delle noci di areca con cui si fabbrica il “pan” da masticare avvolto in foglie e tinto di calce – dà un “lampo al cervello”, l’alito di mastice astringente, colora i denti e la saliva di un rosso scuro.

 

Passano le ore tropicali, la mala-ora (c’è un racconto magnifico di Garcia Marquez sulla mala ora e sui suoi effetti tropicali, tutto il tropico si somiglia in questo dovuto arrestarsi del mondo).

 

Alle 4 si può tentare di mettere il capo fuor dall’ombra e bisogna sbrigarsi perché già alle cinque e mezzo la notte invece di calare lentamente si precipita d’un botto. Adesso siamo a Gennaio questa è la stagione più mite, l’inverno. C’è un’escursione termica di almeno venti gradi tra il mezzogiorno e la notte. Ma è proprio dopo il calar del sole, quando le ombre avvolgono tutto che avviene il regalo migliore. Sono le case a offrire lo spettacolo della potenza dell’abitare. Si passa timidamente accanto a quella grande casa verde con veranda. Una donna vestita di un lungo longy verde chiama qualcuno dalla finestra. Si accosta un motorino e qualcuno sale in fretta. Al piano terra di un’altra grande casa , circondato dalle foto di tuti i diplomati di casa un uomo con un longy avvolto intorno ai fianchi sta disteso tra le ombre riparate dal legno di teak. Il passante intuisce, intravede, a volte ci sono chaise-longues in legno, a volte un lungo ripiano in legno dove giocano mamma e figli, a volte c’è il bagliore di una tv, questa è la potenza dell’abitare in oriente, questo stare distesi, accovacciati, seduti, genuflessi, sospesi sui calcagni, il pavimento come vero riferimento immediato. Chi passa sente di rubare un’intimità che è offerta e allo stesso tempo segreta, l’apertura tropicale delle case richiede discrezione ma è allo stesso tempo invitante. Credo di non avere mai provato più piacere di quanto ho scoperto questa potenza d’abitare che si propaga la sera nel mondo. La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole… Ma qui quello che mi incanta è la dimensione civile, urbana, il fare città del calare delle ombre, la frescura, il vento sottile che fischia nell’incannucciato e che dà sollievo e piacere alle stuoie, il senso delle vesti tirate tra le gambe, il gusto del pasto e della birra, lo stare tra i propri. E l’ho visto a Modica, a Noto, l’ho visto a Nha Thran, in Vietnam, l’ho vissuto a Seilatar in Indonesia, l’ho sentito sulla pelle in ogni borgo dove l’eternità si posa e diventa un qui. È la potenza di chi sta, è il mondo che se ne frega di essere altrove (per quello servono i telefonini e qui a Dawei sono arrivati da poco, da quando non è più proibito avere un telefono – la giunta militare non solo ha affamato il paese, ma voleva che nessuno si spostasse). Quello che mi incanta è che questo stare c’entra poco con il cambiamento del mondo, benvenuto, difficile e intrigante, è solamente un riproporsi universale di una potenza dello stare al mondo, della serena disposizione di fare del tempo un luogo.

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