Dall'Urss a Israele all'Inghilterra vita e pensiero / L'avventurosa vita di Bauman

11 Gennaio 2017

Uno dei più radicali, e popolari, critici del mondo contemporaneo: così verrà ricordato il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman. Era un uomo minuto e gentile, piuttosto buffo per quesi due sbuffi di sottili e spettinati capelli bianchi che si gonfiavano sopra le sue orecchie, e lo facevano assomigliare a un folletto. Quando lo conobbi a Parigi agli inizi degli anni Ottanta, assieme all’amata moglie Janina (autrice di due notevoli libri di memorie: Inverno nel mattino e Un sogno di appartenenza, entrambi pubblicati da il Mulino, che introdussero una profonda trasformazione nel modo di intendere la condizione dell’ebreo da parte di Bauman), egli era noto in Italia soltanto per un grosso libro intitolato Lineamenti di una sociologia marxista (Editori Riuniti 1971) e per il lungo saggio Cultura come prassi (il Mulino 1976). Mi parve assai amareggiato dall’esilio, felice di poter parlare nella sua lingua madre e assai fermo nelle sue convinzioni: un marxismo critico, fortemente influenzato dal pensiero di Gramsci, visto con diffidenza, in Europa, sia dalla sinistra che dalla destra. Aveva abitato prima in Israele (dove insegnò all’Università di Haifa e Tel Aviv) e poi, dopo un breve soggiorno in Australia, si era stabilito in Gran Bretagna (dove, dal 1971, tenne la cattedra di Sociologia all’Università di Leeds, fino alla pensione, nel 1990). Aveva un passato a dir poco avventuroso, con alcune ombre sulle quali, comprensibilmente, preferì glissare. 

 

Bauman era nato a Poznań nel 1925 da una povera famiglia ebraica che, allo scoppio della guerra, fuggì in Unione Sovietica, dove il giovane Bauman si iscrisse all’organizzazione dei giovani comunisti (Komsomol). Nel 1944 partì militare nella Quarta Divisione di Fanteria dell’Esercito Polacco che combatteva nelle file dell’Armata Rossa e che contribuì alla liberazione della Polonia. Tornato in patria, con la divisa sovietica e la tessera del partito comunista, Bauman rimase per diversi anni un militare, fece parte del Controspionaggio e poi degli apparati di Sicurezza, in un’epoca terribile come quella di un’iniziale, cruenta, guerra civile (che può tentare di immaginare chi ha visto il film di Andrzej Wajda, Cenere e diamanti) e poi del terrore staliniano: “Combattendo con l’esercito, tornai in un paese devastato da una guerra che aveva aggravato la povertà e l’arretratezza prebelliche. Sollevarlo dalla miseria e da un sottosviluppo secolare era un compito entisiasmante”. Ma nel 1953 Bauman venne espulso dall’esercito, in seguito a un’epurazione antisemita degli ufficiali.

 

 

Già da alcuni anni, per “motivi di lavoro” aveva iniziato a studiare Sociologia (che in Polonia ha avuto grandi tradizioni: basti pensare a Florian Znaniecki, che a Chicago fu tra gli animatori della famosa Scuola di sociologia e pubblicò, negli anni Venti, un fondamentale studio sui contadini polacchi emigrati, stampato nel 1968 in Italia dalle Edizioni Comunità, e a Stanisław Ossowski, del quale Einaudi, nel 1966, pubblicò Struttura di classe e coscienza sociale), così, già nel 1954, dopo aver conseguito un master in scienze sociali all’Università di Varsavia, divenne docente di scienze sociali (poi, nel 1960, sotto la guida del sociologo Julian Hochfeld ottenne l’abilitazione con uno studio sulla classe operaia britannica). Dal 1964 al 1968, tenne la cattedra di Sociologia, allevando una generazione di giovani intellettuali assai critici verso i fallimenti del “socialismo reale”. Il 25 marzo 1968, nell’ambito di una vergognosa campagna antisemita, fu espulso dall’Università, con l’accusa di essere uno dei sobillatori delle proteste studentesche, e costretto ad abbandonare la Polonia.

 

Bauman ha fatto parte di un gruppo di intellettuali polacchi, formatisi nel dopoguerra e legati inizialmente all’ideologia comunista, e poi sempre più critici verso il potere, che furono costretti quasi tutti a emigrare all’estero nel 1968: basta ricordare i filosofi e storici delle idee Leszek Kołakowski, Bronisław Baczko, Krzystof Pomian, o lo storico del teatro Jan Kott, o l’economista Włodzimierz Brus. Tutti grandi scrittori e maestri prima ancora che eccellenti studiosi. La qualità della loro scrittura saggistica è infatti parte importante del successo delle loro teorie. Basta leggersi, come esempio, questo brano di Bauman (tratto da L'arte della vita, Laterza 2009): 

 

“La nostra vita è un'opera d'arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l'arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l'impossibile. E possiamo solo sperare – senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe – di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all'altezza della sfida. L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all'incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità autentica, adeguata e totale sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso”.

 

Bauman divenne noto al grande pubblico per aver definito, usando una formula assai suggestiva, la realtà nella quale viviamo come “liquida”. Nel volume Modernità liquida (Laterza, 2002), Bauman spiega la postmodernità usando le metafore di liquido e solido. L’incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. Egli lega tra loro concetti come consumismo e creazione di rifiuti “umani”, globalizzazione e “industria della paura”, smantellamento delle sicurezze e vita “liquida” sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del “gruppo” per non sentirsi esclusa. Nel mondo odierno, secondo Bauman, l’esclusione sociale non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Il “povero”, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, accettato nel ruolo di consumatore. Bauman denuncia efficacemente l’alienazione moderna, la mercificazione delle esistenze e l’omologazione planetaria: “Abbandonate ogni speranza di totalità, futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità liquida”. La metafora della liquidità, da lui coniata, racconta l’epoca attuale: individualizzata, privatizzata, incerta, flessibile, vulnerabile, nella quale a una libertà senza precedenti fanno da contraltare una gioia ambigua e un desiderio impossibile da saziare. 

 

Questa formula ha finito inevitabilmente col voler spiegare troppo cose, incasellando un mondo sempre più complicato e variegato, perfettamente del resto descritto in altri suoi libri, entro la gabbia di un’immagine che, tra l’altro, non chiarisce bene che cosa, al contrario, fosse (se mai è esistita) una “società solida”. 

I suoi libri più profondi sono quelli dove ha indagato il tema dell’identità, a partire proprio dall’esperienza dell’ebraicità. Il suo capolavoro, dal quale bisognerebbe ricominciare a leggerlo e riconsiderarlo, è Modernità e ambivalenza (Bollati Boringhieri, 2010). Ágnes Heller scrisse che questo è “un libro affascinante e di grande originalità, che racconta la storia di uomini e donne moderni intrappolati nell’ambivalenza”. Le sofferenze degli uomini, le loro umiliazioni sono al centro della sua riflessione. Nella Modernità gli uomini hanno avuto come obiettivo ricondurre alla ragione il caos del mondo, con tutto ciò che implica un’operazione così ambiziosa: ordinare, classificare, calcolare, sottoporre a controllo, dissipare le zone d’ombra, identificare l’indistinto, bandire l’ambiguo. Questa è l’idea-architrave che per quasi trecento anni ha ispirato i pensieri e le azioni di molta gente. Essa conteneva un progetto di costruzione sociale e una promessa di felicità. Le costruzioni sociali hanno lasciato dietro di sé macerie e la felicità non è stata realizzata. Bauman fa i conti con il fallimento di un’epoca (e anche delle sue illusioni giovanili).

 

Noi esseri finiti ci condanniamo alla perenne inadeguatezza se ammettiamo soltanto l’alternativa rigida tra l’ordine e l’informe, tra le entità (cose, persone, collettività, situazioni, categorie della mente) che il linguaggio riesce a nominare in modo trasparente e l’imprevedibile, l’indecidibile, l’indeterminato, l’incontrollabile, di cui avvertiamo la presenza minacciosa. In una simile inadeguatezza, e nell’autoinganno di un’identità certa, finì intrappolata, ad esempio, gran parte dell’intellighenzia ebraica di lingua tedesca, quando tra Otto e Novecento tentò diverse strategie di assimilazione alle élite dominanti. Ma, sostiene Bauman, l’ambivalenza, combattuta e ostracizzata, si è presa le sue rivincite, fino a imporsi quale segno distintivo dei nostri tempi. La postmodernità sembra potersi riconciliare con quanto di precario e di imperfetto, in una parola, di contingente, appartiene all’esistenza: sembra essere disposta ad accogliere l’ambivalenza come destino condiviso. 

Per orientarsi nella ricca bibliografia di Bauman, uno strumento indispensabile è il libro del sociologo culturale americano Keith Tester, The social Thought of Zygmunt Bauman (Macmillan 2004; trad it. Il pensiero di Zygmunt Bauman, Edizioni Erickson, Trento 2005, con l’introduzione di Marco Magatti). Ma vale la pena qui segnalate almeno alcuni titoli tra i più importanti, come Il disagio della postmodernità (Bruno Mondadori, 2002), La decadenza degli intellettuali (Bollati Boringhieri, 1992) e Il teatro dell’immortalità (il Mulino 1995). Più discutibile è Modernità e olocausto (il Mulino 1992), seppur di grande interesse soprattutto per le considerazioni contenute nel capitolo “La sollecitazione della cooperazione delle vittime”: dopo tante analisi e riflessioni sulla Modernità e la Postmodernità, funziona poco tentare di spiegare un fatto enorme e terribilmente complesso come lo sterminio degli ebrei come una delle conseguenze della modernità, che fa a pezzi i valori.

 

Il tono di Bauman, col passare degli anni divenne più quello di un filosofo che di uno studioso di Sociologia. La sua preoccupazione per il destimo dell’umanità e per il pericolo di nuove barbarie era sincera. Trasformò il suo impegno e le sue illusioni giovanili, passate attraverso cocenti delusioni, in uno slancio etico, quasi visionario, che piaceva molto alle varie correnti nelle quali si articola il cosiddetto “movimento no global”. Negli ultimi anni, e la cosa gli piaceva, era diventato una sorta “Socrate della postmodernità”: critico acuto delle contraddizoni del nostro mondo e tenace suggeritore di un percorso etico di salvezza. Faceva tenerezza (e un po’ anche ammirazione) vedere questo anziano signore infiammarsi di passione per tutto ciò che non confermava e contrastava la realtà presente. Nei suoi ultimi libri e interventi si può trovare un grande sforzo di definizione filosofica della morale e di proposta di un’etica che contrasti la decadenza. Ciò che andrà compreso meglio è proprio l’indirizzo che questo suo pensiero etico (a partire dal libro Le sfide dell’etica, Feltrinelli 1993) aveva preso e come si era evoluto, andando quasi a lambire certi indirizzi religiosi (da ultimo, singolarmente, coincidenti con le posizioni di Papa Francesco). L’Amore e la Bellezza sono le categorie che sostengono la sua visone salvifica di una nuova morale pubblica. L’Amore che è “accettazione incondizionata della diversità dell’altro e del suo diritto alla propria diversità”. L’amore che consiste nell’abbracciare l’Altro come valore in sé. Come aveva scritto sua moglie Janina, e lui spesso citava, “la più difficile delle lotte è quella per rimanere umani in condizioni di disumanità”.

 

Una versione più breve è stata pubblicata su Il Sole 24 Ore.

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