5 per mille

Contro gli anziani

27 Giugno 2025

“Le vite più belle sono, secondo me, quelle che si conformano al modello comune e umano, con ordine, ma senza eccezionalità e senza stravaganza”, diceva Michel de Montaigne verso la fine del ‘500 nell’ultimo dei suoi Saggi, e aggiungeva: “Ora la vecchiaia ha un certo bisogno di esser trattata con più delicatezza”. Ebbene, siamo ancora lì, sì perché ancora oggi, cinque secoli dopo, la vecchiaia ha forse ancora più bisogno di esser trattata con più delicatezza: uno dei temi cruciali dell’invecchiare moderno è infatti l’Ageismo, l’atteggiamento discriminatorio verso i vecchi che permea la nostra società in modo più o meno evidente, ma sostanziale. Nel sempiterno braccio di ferro tra Platone (il vecchio è una risorsa) e Aristotele (il vecchio non serve più a nulla) al momento sembra prevalere il secondo. Idee e associazioni sono immediate: chiunque al solo accenno al tema coglie al volo il nodo, istintivamente, per il semplice fatto che ciascuno di noi, da nipote o da nonna/o, ha un contatto ravvicinato con la realtà dirompente dell’invecchiare; sotto forma di cambiamento personale dovuto all’età o di carico assistenziale verso qualcuno che ci vive vicino, ma della vecchiaia ci occupiamo, ci piaccia o no.

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Perché l’Ageismo? Se ne è occupato lo psichiatra Marco Trabucchi, direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia, in Ageismo. Il pregiudizio invisibile che discrimina gli anziani (Il Margine, 2025, pp.189). L’approccio al tema è inizialmente di tipo sanitario, i malanni dell’invecchiamento sono al centro dell’attenzione, ma la dimensione culturale appare immediatamente dirimente: quante delle patologie conclamate che colpiscono i vecchi sono effettivamente provenienti dalla fisiologia indebolita e quante invece sono il frutto di un “rifiuto” sociale che le persone anziane subiscono in quanto non più adeguate alla modalità di vita del nostro tempo?

Il termine “Ageism” è stato introdotto nel 1969 dallo psichiatra statunitense Robert Butler, ma qui da noi è comparso negli anni Novanta, e solo da poco tempo ha cominciato a circolare nel linguaggio comune. È evidente che negli anni più recenti il problema dell’atteggiamento ostile nei confronti dei vecchi è cresciuto. Fino a cinquant’anni fa era Platone che opponeva più forza al braccio di Aristotele. Marco Trabucchi nel suo libro individua tre principali forme di ageismo: a seconda di come si presenta abbiamo “l’ageismo istituzionale”, quando è l’istituzione che lo perpetua nel tempo; l’”ageismo interpersonale”, che riguarda le variegate interazioni sociali; e l’”ageismo internalizzato”, quando è l’individuo che percepisce gli altri, e anche se stesso, come oggetto di disapprovazione (p.15). Ma c’è anche un atteggiamento ageistico implicito, che si propaga in ogni direzione, dando luogo alle più diverse forme di aggressività, più o meno tenui. È il giocatore azzoppato a dare fastidio perché non può più stare proficuamente in squadra, e va tolto di mezzo, sostituito. Lui la (sua) partita l’ha già persa. Questa è probabilmente la vera risposta alla domanda “Perché l’Ageismo?”. Nell’”inferno individualistico” del neoliberismo (…il solito amaro ritornello) quando i singoli non “funzionano” più vanno messi da parte, con le buone o con le cattive (attraverso le istituzioni o attraverso la malvagità sociale).

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La sanità innanzitutto, sistema necessario ma non più sufficiente a “digerire” la massa patologica. Ma anche l’educazione generale invalsa: la famiglia ageista che fatica a tollerare, la città respingente con le sue logistiche incongrue e le sue dinamiche tutte “performanti” che producono dolorose oppressioni verso chi è vecchio e sostanzialmente solo. Uno scenario di desolazione a cui, dice con forza l’autore, bisogna opporsi. Solo pensare alla salute, sentiero cruciale di preparazione a una “buona morte”, scrive Trabucchi, richiede ripensamenti profondi, c’è bisogno di “una medicina che sappia riconoscere l’individualità, rispondendo al bisogno di ognuno con l’umiltà di chi conosce il difficile compito di adattare la rigidità di strumenti tecnici alla variabilità delle condizioni di vita” e prosegue: “riconoscere l’individualità storica è un atto profondamente contrario all’ageismo, perché riconosce il valore in continua edificazione della persona, valore che si accresce con il trascorrere degli anni” (pp.145-146). Qui c’è lo snodo epocale: la vecchiaia va definitivamente sussunta nella contemporaneità. E l’antiageismo dovrebbe dunque diventare la nuova prospettiva per cui lavorare globalmente, ma non solo per ragioni eticamente fondamentali (Edgar Morin, a centotre anni, dice che “Una società non può progredire in libertà se non progredisce in solidarietà”, p. 31).

C’è un futuro molto prossimo che si sta preparando con parametri “quantitativi” completamente nuovi con i quali si dovrà fare i conti. Un futuro nel quale si può immaginare che l’istanza platonica possa riprendere vigore. La massa quantitativa dei vecchi sta stabilendo dei nuovi rapporti funzionali con gli altri fattori della società. Giusto per dare un’idea: solo in Italia (dati ISTAT, gennaio 2025) oggi, i nonni di 80 anni sono più dei bambini sotto i 10. Venticinque anni fa per ogni nonno ottantenne c’erano 2,5 bambini. Cinquant’anni fa per ogni nonno ottantenne c’erano 9 bambini. Ageismo contro longevità? Quando “nonno” (termine che in Sud-Corea è usato, e recepito, come espressione di rispettosa cortesia verso l’anziano…) dominerà la scena non sarà più possibile un’organizzazione sociale discriminatoria.   

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In Homo Deus: breve storia del futuro (Bompiani, 2018) il filosofo e storico Yuval Noah Harari parla della morte come un destino non più inevitabile perché la scienza lo affronta come una malattia: “Nel ventunesimo secolo gli umanisti affermano che la morte non è una necessità metafisica, ma un fallimento tecnico. […] Da un punto di vista ingegneristico, la morte è semplicemente un malfunzionamento del corpo” (p.55). Dunque la longevità, presa con tutte le cautele realistiche possibili, diventa certamente un’istanza della ricerca umana che di fronte al globale (sottolineiamolo) restringimento demografico sta diventando una vera dimensione oggettiva. Come si diceva una volta, la cornice “fenomenologica” è mutata.

Qualunque analisi della realtà contemporanea della vecchiaia non può ormai più prescindere dal monitoraggio globale del fenomeno che molti istituti di ricerca, ma anche organi di informazione, conducono sistematicamente. Un esempio di particolare lucidità (e utilità) è La longevità felice. La nuova scienza per invecchiare bene, (BUR Rizzoli, 2025), un volume della collana “Parole chiave” che la rivista Internazionale propone dal 2023, una sorta di summa statistica sul fenomeno dell’invecchiamento nel mondo, nel quale la massa dei dati, assolutamente considerevole, fa percepire il fenomeno come una vera nuova ontologia. Vaccini, Eternità, Welfare, Ricerca, Zone blu, Statistica, Sessualità, Memoria, Ageismo, Relazioni sono i temi che dieci studiosi internazionali, introdotti da Elisabetta Tola, analizzano da una prospettiva planetaria utilizzando i dati dei più attrezzati istituti di ricerca del mondo. Leggerlo mette nelle condizioni di avere un concreto aggiornamento sui fenomeni. E permette anche di percepire quanto “avanzata” sia la situazione italiana, quella di un paese che, è noto da tempo, insieme al Giappone, è riconosciuto come un territorio di indagine straordinario. Non basta: si veda l’indagine, di Simone Bendazzo ne L’Inkiesta del 9 aprile scorso, su ciò che sta accadendo tra l’infinito ricercare economicamente sostenuto da americani ricchissimi: Il culto della longevità, e altre ossessioni della Silicon Valley. E chissà, forse non è vietato pure pensare male, al pericolo del formarsi di una nuova “aristocrazia” planetaria in fieri.

Prego notare che fino ad ora non ho parlato di IA, dimensione non certo trascurabile per parlare di nuove dinamiche onnicomprensive.

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A questo punto appare particolarmente efficace la chiusura di Marco Trabucchi che si affida allo studioso Roberto Pili, coordinatore del progetto della comunità ogliastrina (una delle nove “zone blu” di centenari del mondo): “Gli impulsi a perseguire valori positivi generano una positiva auto percezione, rafforzando la volontà di continuare a fare il bene. L’esistenza votata al bene e alla cura degli altri e di se stessi dà senso a una vita di scopo e fortifica la volontà di vivere. Questo racconta la vita dei nostri longevi.” Ecco, conclude Trabucchi, si potrebbe commentare che “le comunità ageiste, che tolgono agli anziani il senso della loro vita, sono comunità assassine!” (pp.180-181). Questo è l’oltre dell’ageismo! Perché “È difficile diventare vecchi senza un motivo” come ha detto Bob Dylan (Forever young, 1974).

Ma mi pare giusto ritornare al “grande vecchio” Montaigne (che se ne è andato a 59 anni!): “Ora la vecchiaia ha un certo bisogno di esser trattata con più delicatezza. Raccomandiamola a quel dio, protettore della salute e della saggezza, ma gaia e socievole”. E poi citava le Odi di Orazio a proposito di “quel dio”, Apollo: “Ch’io possa godere dei beni che ho ed essere in buona salute e sano di mente, ecco ciò che ti chiedo di accordarmi, o figlio di Latona, e che la mia vecchiaia sia onorata e ch’io possa ancora toccare la lira” (tr. it. di Fausta Garavini, Adelphi, 2002, Libro Terzo, saggio n. 13 Dell’esperienza, p.1497).

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P.S.: Permettetemi di intervenire su una piccolissima questione, molto a margine rispetto ai temi giganteschi sopra toccati: c’è ancora chi si pone il problema se sia giusto dire “vecchio” o “anziano”, se sia più educato l’uno o l’altro termine. Lo faccio dire al mio Tomà:

“Anziano lo intendo più come un termine tecnico, penso alla ‘pensione di anzianità’ per la quale l’anzianità non è l’età anagrafica... , è un termine buono per il demografo, un termine sanitario, che riguarda l’assistenza sociale, il sostegno ai malati... Vecchio mi pare più autorevole... Ma è soprattutto una questione di garbo che chi usa il termine deve avere!” (Come Tomà. Diario di viaggio nell’età d’argento, Zona, 2005, p.13).

In tempi di oltre-ageismo, mi pareva opportuno.

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