È il momento del superconscio
"Guardi, è venuto un mondo che c'è dei malanni!", in questa disastrata delizia linguistica raccolta al volo dalla conversazione tra due signori molto anziani che passeggiavano nel centro storico genovese, mi pare ben dipinto il nostro momento. Nel loro amaro sospiro ansioso c’è l’avere paura odierno, una condizione dominante che ci impedisce di guardare oltre le inquiete colline del presente. Chiedersi che senso abbia più la vita appare una domanda legittima. Vorrà dire qualcosa se il mondo scientifico si interroga sempre più insistentemente sul tema del “ricodificare”, “ridefinire”, “rivedere i paradigmi”. Scienziati duri e umanisti non fanno che denunciare lo smottamento del reale così come lo abbiamo sinora inteso e ci provano a immaginare uno sviluppo futuro. Studiosi importanti come Jacques Attali e Eva Illouz, per fare solo due esempi tra i numerosi possibili, sono di recente intervenuti per dire che l’educazione va rifunzionalizzata e che le emozioni sono da rivedere (J. Attali, Barbarie o conoscenza. Storia e futuro dell’educazione, Fazi, 2025; E. Illouz, Modernità esplosiva. Il disagio della civiltà delle emozioni, Einaudi, 2025).
La domanda su dove stia il senso della vita è ormai un martellare insistente (come colonna sonora proporrei il lancinante interrogarsi di Steve Reich), un bisogno evidentemente “essenziale” su cui si concentra il filosofo francese Pascal Chabot in Un senso della vita. Indagine filosofica sull’essenziale (Treccani, 2025). È uno studio quanto mai opportuno che, vorrei sottolinearlo subito, a leggerlo porta degli oggettivi benefici in termini di chiarificazioni e “benessere” intellettuale.
Va chiarito, scrive l’autore, che “Il senso c’è, con un’evidenza che non richiede prove o verifiche. I gesti si susseguono, le azioni e le parole si mescolano, la vita procede con sicurezza. In questo, le abitudini e le ripetizioni contano molto. Formano la trama dell’esistenza sulla quale si ricamano nuovi motivi, in un clima di fiducia che permette una certa serenità. […] Il senso è quindi un fluido che circola in tutti gli aspetti dell’esistenza e nutre i circuiti in cui si evolvono i viventi” (p.42-43).

E tuttavia, dice Chabot, (di cui mi sono già occupato a proposito della nozione di Tempo), “In una società tecnologica e al contempo tormentata dai sensi di colpa per il suo rapporto con l’ecologia, una società libera e multiculturale, i paradossi abbondano. Regna l’indeterminatezza, anche una certa angoscia, acuita dalle guerre e dalle minacce alla democrazia. Ne deriva una domanda di senso, un interrogarsi sull’essenziale, che genera un nuovo paradigma di cui occorre delineare i contorni” (p. 17).
Il fatto è che oggi stiamo affrontando un nuovo salto antropologico: dopo Copernico (la terra non è al centro dell’universo), Darwin (veniamo dalle scimmie), Freud (non governiamo la nostra personalità), ora, scrive Chabot, è il momento del superconscio: “Il superconscio si espande e si organizza. In analogia con il ça [qua] che è stato adottato nelle traduzioni francesi per designare l’Es dell’inconscio, possiamo dire che il superconscio è il là. Se il qua domina, sogna e fantastica, il là sa la tal cosa, possiede le tali informazioni, opera. Tutta la conoscenza è nel là. Tutti i testi che ho scritto sul mio computer, la cronologia delle mie ricerche su Google, delle mie interazioni con ChatGPT, tutte le mie geolocalizzazioni, il numero di passi che faccio ogni giorno, le immagini delle persone che ho fotografato, i miei movimenti bancari, tutto ciò è là... Dove? Là, senza che io ne sappia molto di più” (p.58).
Siamo dunque davanti a una vera “apocalisse cognitiva” (definizione mutuata da Gérald Bronner, Apocalypse cognitive, PUF, 2021) che induce nuove patologie provocate dal collegamento con il superconscio, sono i nuovi conflitti tra la coscienza e il superconscio digitale che Chabot chiama “digitosi” (p. 64). Ma in questi territori il senso c’è, ed è “la circolazione ininterrotta tra questi tre poli: sensazione, significato e orientamento. C’è un senso quando ciò che si sente (sensazione) può essere interpretato e compreso (significato), nonché integrato in un divenire (orientamento). Analogamente, c’è un senso quando la direzione presa è comprensibile e percepita. O ancora, quando il messaggio emesso può accordarsi a un divenire e generare delle sensazioni. Ecco cosa vuol dire “avere senso”: circolare tra questi tre poli” (p. 41).
Il fulcro dell’analisi sta nell’individuare le inedite modalità in cui il senso si muove: dovremo seguire, dice Chabot, tutta la dinamica in cui l’energia fondamentale del senso ci sospinge, circola tra sensazioni, significati e orientamenti, e può anche bloccarsi o alterarsi. Vivere significa far circolare il senso. L’importante “non è lavorare per il superconscio, ma operare in coscienza” (p. 141).

C’è stato un mondo nel quale, dall’oasi individuale alle vaste socialità, le grandi narrazioni “permisero di invocare un Senso unitario” (p.149); ma oggi Dio, Nazione, Progresso, Rivoluzione, Dovere, Popolo, Abbondanza non bastano più. Se è vero che (con Camus) l’umano è “l’essere della distanza, della separazione, perché vive doppiamente: fisicamente, attraverso le sensazioni, e intellettualmente, attraverso le sue rappresentazioni e i suoi significati, che possono confutare le prime” (p. 79), allora non il ma un senso della vita ci interessa. Beati gli artisti e il loro “universale singolare”: letteratura, pittura, musica partono da una singolarità per arrivare all’universalità (Chabot cita lo scrittore portoghese Michel Torga per cui l’”universale è il locale meno i muri”). Gli artisti costruiscono collettività infrangendo i confini della percezione.
Noi siamo costretti a muoverci dentro l’”apocalisse digitale” contemporanea, nel reale ispido del superconscio: “è questa – scrive l’autore – la tragedia contemporanea [che] sta progressivamente smembrando la società in frazioni. Trasformando il comune in comunitario [corsivi miei], provoca quelle che potremmo definire digitosi da polarizzazione. Il senso comune è diventato un arcipelago. Le uniche cose veramente comuni sono i dispositivi, le applicazioni e i protocolli che permettono di collegarsi al superconscio” (p.170). Comune è nel mondo, comunitario “aderisce” al mondo.
Che dire, “c’è dei malanni” che si aggiungono al lato “schifoso” (Chabot) della vita che abbiamo, creando una grande dissonanza. Accanto a smisurate potenzialità di benessere, mai conosciute nella storia dell’uomo, dobbiamo fare i conti con una altrettanto potente forza del male di vivere: le sofferenze per il clima impazzito, le nuove schiavitù, la predazione economica alleata al potere e il conseguente pericolo per le democrazie.
Non credo (sia detto grossolanamente) possano bastare le “guerre locali” contro il digitale (cfr. qui l’articolo di Paolo Landi su T. Bonini, E. Trerè, Algoritmi per resistere. La lotta quotidiana contro il potere delle piattaforme, Mondadori, 2025), le forze in campo sono troppo sproporzionate e il superconscio appare infinito. Dovremo crescere e lavorare sodo per riorientare l’area individuale, l’area di senso individuale, recuperando il lato corporeo della socialità. Individui concreti alla ricerca di individui concreti con i quali edificare veri costrutti relazionali fatti di dinamiche che abbiano al centro il nostro lato cosciente. Questa Indagine filosofica sull’essenziale di Chabot ci aiuta a mettere a fuoco questo, e, in fondo, non c’è molto altro da aggiungere se non l’ultima radiosa riflessione sulla natura del senso con cui si chiude il libro:
“Inventandosi e raccontandosi continuamente, il senso circola come un’energia. In questo non è diverso dall’amore, che permea anch’esso persone, oggetti e paesaggi. E sono le stesse dinamiche, in definitiva, che presiedono ai desideri primari del senso, dell’amore, dell’ammirazione o della musica: modi di essere al mondo che scelgono le vie dell’intensità e che ai dettami del senso unico e alla nostalgia struggente del senso perduto preferiscono l’avventura del senso aperto. Ama e fa’ quel che vuoi, dicevano i latini. Ama et fac quod vis.”
