Dove l’Altro è 

16 Gennaio 2023

“Dove è finito?”, “Dove si trova ora?”, “Dove, in quale luogo, in quale parte dell’universo?”. L’interrogativo dei vivi di fronte ai propri morti è spontaneo nei bambini che cercano di afferrare quello che pare un segreto degli adulti: l’improvvisa e quasi magica scomparsa di una presenza familiare. L’esperienza del lutto mette di fronte a qualcosa di non figurabile: la fine che non lascia scampo interroga ogni possibilità dicibile di senso, davanti alla morte “ridiventiamo i nostri arcaici”, arranchiamo alla ricerca di una tradizione nella quale inscriverci. E dobbiamo ogni volta di nuovo inventare una possibilità di significato che trascenda la dimensione individuale. L’angoscia di morte incalza la fatica di vivere, ma un processo di individuazione non può avvenire senza avere attraversato la perdita. 

Le stelle, che percepiamo luminose anche quando si sono già spente nella galassia, fanno da immagine guida a La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia (Feltrinelli, 2022), l’ultimo testo di Massimo Recalcati (al tema aveva dedicato Incontrare l’assenza: il trauma della perdita e la sua soggettivazione, Asmepa, 2016).

“La nostra vita appare circondata da tutte le perdite che l’hanno segnata, dalle ferite che le separazioni le hanno impresso, dai fantasmi dei nostri morti”. Il trauma della perdita accompagna lo scorrere di ogni esistenza che incontra la malattia e la morte, si spezza alla fine di un amore, si delude per la caduta di un ideale, si smarrisce lontano dalla propria casa. “Ogni taglio ha topologicamente due bordi: la separazione non si limita a dividere il soggetto dall’oggetto perduto, ma lo divide altresì da una parte di se stesso. Precisamente quella parte che aveva aderito di più all’oggetto confondendosi con esso”.

Quando scompare una persona amata, il primo vuoto è l’assenza del suo corpo. Non c’è più, “è stato cancellato da ogni cartina geografica”. Non posso più frequentare “il paese del suo corpo”: nei “suoi” luoghi, che abbiamo condiviso, si avverte in modo più pungente l’assenza. Per questo, molto spesso, come le interminabili cause di successioni ereditarie indicano, la tentazione è un ostinato attaccarsi a quello che resta, oggetti e possedimenti, della persona defunta. Lo stato luttuoso così si eternizza. Prevale “un’adesione pervicace” all’oggetto perduto, un’ombra che si proietta sulla vita del soggetto che non riesce a fare “il lavoro del lutto”. La separazione psichica e simbolica è bloccata. 

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La luce delle stelle morte conforta chi sta attraversando la disperazione di una morte significativa, ma comunica a ogni lettore la possibilità di una disposizione esistenziale capace di elaborare e integrare il negativo – “lavoro dice infatti di un’opera di trasformazione, di generazione di valore, di riconfigurazione della forma del mondo. Se il lutto resta senza lavoro, non c’è possibilità che esso giunga al suo termine”. 

Recalcati riparte da Lutto e melanconia di Freud (scritto nel 1915, pubblicato nel 1917), un testo intrecciato alle considerazioni sulla guerra e sulla rimozione della morte nella civiltà moderna. Una ventina di paginette, illuminanti ancora oggi, sugli stati della mania e della melanconia caratteristici di una fase di lutto. Divenute metafore significative delle pulsazioni up and down della nostra civiltà (cfr. sempre di Massimo Recalcati, Le nuove melanconie recensito in doppiozero del 23 dicembre 2019). 

Una negazione del lutto, un’elaborazione veloce – in sintonia con l’invito oggi diffuso a “non perdere tempo”, a reagire in fretta al dolore – è quella mania che si capovolge in una melanconia permanente ben rappresentata da La bevitrice d’assenzio di Picasso che con lo sguardo nel vuoto non vede il bicchiere che ha davanti. Nell’angoscia melanconica la fissazione è rivolta a qualcosa che è perduto, che non esiste più. “Il rimpianto trascina con sé un sentimento nostalgico, il senso di colpa divora la memoria, l’idealizzazione del passato compromette la possibilità del futuro. Con un’aggiunta decisiva: il soggetto si percepisce come colpevole della perdita che lo tormenta”. Sono quei “se” che un po’ tutti conosciamo – “Se non fossi partito”, “Se non avessi fatto quello che ho fatto” –, un senso di colpa che nella stagnazione melanconica del lutto diventa una mortificante persecuzione. 

La scomparsa dell’altro, la sua uscita di scena dalla nostra quotidianità produce la sensazione di essere abbandonati, di non contare più: chi amiamo non ha più bisogno di noi. Se la reciprocità è saltata siamo morti entrambi, come scrive Valerio Magrelli, in Geologia di un padre. “Desiderio di rievocarlo: perché? Forse perché mi manco. È come se soffrissi per la mia morte. Infatti, ai suoi occhi, il morto sono io. Io l’ho perso, nella stessa maniera in cui lui ha perso me. È come se avessi perso, per un lutto riflesso, una parte di me. E dunque mi compiango, molto di più di quanto non compianga lui. Mi guardo attraverso i suoi occhi: ci siamo morti entrambi, reciprocamente. Con la sua morte, è stata la nostra coppia a scomparire. Ormai siamo spaiati, definitivamente. Perciò, parlando di lui, passo dalla sua parte, gli giro dietro, gli vedo le carte, mi vedo al di là del tavolo da gioco, e scopro che per il suo sguardo io non esisto più. Morendo, lui ha perso suo figlio. Un nodo talmente complesso da non capire più a quale dei due capi ora mi trovi.

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Si è dissolta la possibilità di essere attesi: “l’Altro non è più sulla porta”. Recalcati, che nel libro racconta numerosi flash clinici che illustrano il procedere della riflessione, non mette qui in relazione diretta l’attesa con il dispositivo analitico, eppure quell’attesa sulla soglia evoca la potenza rituale che assume l’incontro nella stanza d’analisi. Dove è la reciprocità dell’attesa a fondare la possibilità di sentirsi pensati e amati. Anche la fine di un’analisi può assumere la forma di un lutto perché richiede la capacità di elaborare l’idealizzazione, accettare la fragilità dell’Altro umano, riuscire a interiorizzare le figure di protezione (genitori, maestri, terapeuti), a simbolizzare quel rapporto inestricabile di separazione-attaccamento. 

Nell’interpretazione di Recalcati in Freud il lavoro del lutto ha un compimento definitivo, forse allo stesso modo dell’amore di transfert che, a un certo punto, dovrebbe dissolversi. “Non dovremmo invece pensare che una parte di questo intoppo, arresto, blocco della libido, una parte di questa resistenza inerziale al flusso della vita, permanga necessariamente in noi?”. Il carattere interminabile del lutto produce resti che possono colorare la nostalgia di rimpianto, ma possono trasformarla in nostalgia-gratitudine. Che non immobilizza il tempo e conserva i beni, come l’avaro di Molière, non cerca regressivamente rifugio nel passato dell’infanzia, ma come l’Angelo della storia di Walter Benjamin volge lo sguardo alle macerie del passato non per farne delle reliquie melanconiche, ma per riscattarle e redimerle. 

Un’immagine “progressiva” del lutto che porta a distinguere tra i tipi di memoria – una memoria archeologica dove il passato si è depositato, una memoria spettrale dove il passato, come nel trauma, non passa, e la memoria del futuro. “L’esperienza dell’analisi ci rivela che è la nostra parola – il racconto della nostra storia – che può trasformare il nostro passato”. L’analisi come “ricostruzione storica”, di cui parlava Lacan, che riunisce i frammenti, i residui, i ricordi sparsi. Nasce una forma nuova che permette l’emersione dell’eccedenza del dettaglio che trattiene qualcosa del passato ma è volto alla creatività del divenire: “la sua luce – come quella delle stelle morte – ancora mi raggiunge e mi illumina”. 

Nelle ultime pagine l’autore ricorda con gratitudine tre persone: un professore di filosofia, un cantautore, l’amata insegnante di lettere che nel passato gli hanno parlato, lo hanno visto, lo hanno riconosciuto, lo hanno esortato. Nella vita terrena non ci sono più, ma a volte improvvisamente, a volte inspiegabilmente, si presentificano attraverso un dettaglio. Massimo si commuove, la sua vita è indissolubilmente legata a loro, sente la loro voce. Unica. In risonanza con il titolo del libro di Derrida dedicato agli amici morti: Ogni volta unica, la fine del mondo.

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