5 per mille

Drieu La Rochelle fascista anomalo

20 Maggio 2025

“Ho il sospetto che l’idea stessa di verità oggettiva stia scomparendo dal mondo. Ed è una prospettiva che mi spaventa più delle bombe” – scriveva George Orwell nel 1942. E oggi siamo forse messi peggio di allora. Perché se la cancellazione della verità oggettiva è stato un processo pedagogico e ideologico tipico dei totalitarismi politici del ‘900, sembra esserlo (è) ancora di più oggi tra neo/post/tecno-fascismi, populismi, sovranismi, trumpismi/narcisismi patologici, immersi come siamo in una brodaglia dove vero e falso – ma lo stesso processo avviene nella digitalizzazione del mondo e nell’intelligenza artificiale, tra naturale e artificiale, reale e virtuale – sono diventati indistinguibili. Mentre diventa vera (qualcosa di non casuale in un mondo che deve essere dominato dalle macchine), solo l’esattezza avalutativa di un calcolo matematico/algoritmico.

E dunque, c’è chi crede che la terra sia piatta. Chi nega la verità oggettiva del cambiamento climatico. C’è chi crede che l’intelligenza artificiale sia davvero intelligente. E c’era chi credeva che la rete fosse libera e democratica e orizzontale invece che verticale/verticistica e aziendalistica, come ci dice invece la verità oggettiva. E c’è chi crede alla propaganda del complesso militare-industriale per cui si vis pacem, para bellum. E chi crede nella necessità di avere un uomo/donna forte al comando. E molto altro ancora. Ma perché è così complicato il nostro rapporto con la verità e perché veniamo così facilmente catturati da fake-news/post-verità/propaganda politica e oggi tecnologica? E perché pochissimi invece cercano la verità (e cercare – va ricordato – è tutto diverso dal proclamare/accettare una verità assoluta, soprattutto se virale) e ancora meno esercitano un doveroso pensiero critico? Dov’è, oggi, Socrate?

E c’era anche chi, come Pierre Drieu La Rochelle credeva a un socialismo fascista, mettendo cioè insieme l’apparente impossibile – ma non era il solo a sostenerlo; e d’altra parte Mussolini era stato socialista… e le sinistre europee hanno accolto negli ultimi quarant’anni il neoliberismo come verità ideologica, mentre secondo la verità (oggettiva) è una forma di fascismo economicistico. E vale ricordare anche che nel film di Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma il Duca afferma che “noi fascisti siamo i soli veri anarchici, naturalmente una volta che ci siamo impadroniti dello Stato. Infatti, la sola vera anarchia, è quella del potere” – peccato che, come per il capitalismo o la tecnologia o la guerra mondiale a pezzi – non sia anarchia ma archia del potere, anzi, del Potere, richiamando ancora Pasolini, corsaro. Vero e falso, verità e menzogna, ancora tutto e il contrario di tutto?

E dunque, Drieu La Rochelle e il suo libro Socialismo fascista. La risposta fascista alla crisi dell’Europa (Fuori scena, pag. 185, € 16,50 – che inaugura una nuova Collana dedicata al pensiero di destra), introdotto e ben attualizzato da David Bidussa alla nuova ma vecchia risposta fascista all’ultima crisi europea, tra sovranismi, populismi, derive autoritarie-securitarie, repressione del dissenso. Libro che leggiamo contrapponendolo a Fascismo e democrazia di George Orwell (sempre Fuori scena, ma un’altra Collana, pag. 91, € 12,00), con una bella Postfazione di Roberta De Monticelli.

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Libro che esprime un pensiero confuso, ideologico quello di Drieu La Rochelle (1893-1945, scrittore, poeta, saggista; deluso per la decadenza della Francia e dell’Europa post prima guerra mondiale; reazionario/fascista; fiero di essere un intellettuale di minoranza; antiamericano al punto di auspicare una vittoria dell’Urss per evitare l’americanizzazione dell’Europa; e che, accusato di collaborazionismo, si suicidò alla fine della guerra); libro lucidissimo (che raccoglie suoi scritti e interventi tra il 1940 e il 1945) quello di Orwell (1903-1950, scrittore, antifascista/antitotalitario, una vita sempre in difesa della libertà e della verità, autore dei due capolavori La fattoria degli animali e 1984).

Scriveva Drieu La Rochelle, ammettendo il suo oscillare tra gli opposti: “Uno dei rimproveri più costanti che ho dovuto sopportare è stato quello di non sapere cosa volessi, di avere le idee confuse, di cambiare continuamente posizione. […] Sono nato di destra e la mia educazione mi ha trasmesso il senso dell’autorità e l’orgoglio indistruttibile della patria. Ma ho dovuto poi spostarmi a sinistra, dove non ho trovato che il senso profondo del disordine sociale, mantenuto da un liberalismo decadente, da un capitalismo senza più virtù. […] Ma nello stare a sinistra, rimpiangevo la destra. […] E però, se fossi tornato a destra avrei sofferto ancora una volta per l’inesplicabile silenzio sulla questione sociale che persiste nelle nostre borghesie e che può essere estirpato solo con la forza. […] Ma finalmente, intorno al 1930, ho iniziato a vedere sorgere tra Roma e Berlino una forza tenace, l’unica in grado di conciliare contraddizioni apparentemente irriducibili”.

Ed ecco quindi, per Drieu, la necessità di un “partito che, essendo sociale, sappia anche essere nazionale e che, essendo nazionale, sappia anche essere sociale. Che non deve predicare la concordia, deve imporla”, costringendo “elementi di destra e di sinistra a fondersi al suo interno”, realizzandosi così un sistema gerarchico, corporativo e identitario, un “socialismo fascista, un socialismo riformista”, dove “il nazionalismo è un pretesto, ma anche una semplice tappa nell’evoluzione socialista del fascismo”, superando la distinzione ottocentesca tra destra e sinistra (superamento invocato ancora oggi). E “attraverso il fascismo, sia a Berlino che a Roma si sta risvegliando il socialismo non marxista”. Perché mentre “disprezzo il capitalismo ormai sfinito, che sopravvive grazie alla corruzione della democrazia e nello stesso tempo disprezzo il socialismo proletario che da più di un secolo dà prova di essere solo un mito, io mi riconosco e mi dichiaro socialista”. E ancora: “Il fascismo non deriva dalla dittatura, è la dittatura che deriva dal fascismo. E non è affatto sicuro che il fascismo voglia davvero la guerra, forse si accontenterebbe dello sport e delle parate, delle esercitazioni e della danza. […] Il fascismo aveva bisogno dello spirito guerriero per fare la sua rivoluzione e ne ha bisogno per continuarla. E forse questo gli basta. […] Prendere il militarismo fascista alla lettera è forse come fare di una goccia un oceano”. E poi, “È comico sentire i capitalisti parlare di libertà. Quale libertà rappresenta oggi il capitalismo? […] solo rottami”.

E si potrebbe continuare con le citazioni, ma crediamo possano bastare. Veniamo invece a David Bidussa che porta Drieu a oggi e che si domanda “perché il lessico di Drieu si presenti ancora come una risorsa, coltivato – meglio ‘custodito’ – da alcune figure che hanno nostalgia” per le sue scelte. Ma se la nostalgia “non è da escludersi”, essa è anche “la conseguenza di altri fattori”. E c’è “prima di tutto la postura solitaria e non arrendevole” di Drieu; poi la sua critica “alla Francia (ma il riferimento è trasferibile a qualsiasi contesto nazionale democratico) come nazione” che “avrebbe mancato la sua missione di civilizzazione”, tesi che trova oggi echi a destra ma anche in certe parti della sinistra; poi, anche oggi, il frequente “passaggio da sinistra a destra” di certe figure intellettuali anche radicali critiche di una sinistra giudicata irriformabile o traditrice dei suoi valori; e quindi la ricerca di un’Europa diversa e sovranista. E così – conclude Bidussa – “acquista nuovo spazio l’aspirazione di scrivere la storia ‘con il sangue e con l’inchiostro’, come Drieu invocava nel 1927 nel suo Il giovane europeo”.

E chiudiamo il libro di Drieu e apriamo quello di Orwell. Libro le cui parole-chiave, ma in senso opposto a Drieu, sono democrazia (ricordando che “uno dei passatempi più facili al mondo è demistificare la democrazia”), fascismo, manipolazione, potere e verità. E socialismo. E totalitarismo. E vincere contro il nazismo, scriveva nel 1941, sarà possibile per gli inglesi “solo se sapremo trasformare da cima a fondo il nostro sistema sociale ed economico. […] Perché se restiamo una plutocrazia – l’immagine spacciata da Goebbels non è del tutto falsa – verremo sconfitti. […] Detto in modo brutale, si tratta di scegliere tra il socialismo e la disfatta. Di progredire, o perire”. E invece, a prescindere dai programmi, continuava Orwell, “negli ultimi dieci anni è stato difficile credere che i suoi leader prevedessero o persino desiderassero vedere cambiamenti davvero radicali nel corso della loro vita. Di conseguenza, la già scarsa spinta rivoluzionaria esistente nella sinistra si è dispersa in vicoli ciechi” (e sembra oggi). Eppure, immaginava comunque che quando sorgerà “un vero movimento socialista – e le sue basi esistono già nelle conversazioni in atto in un milione di pub e di rifugi antiaerei – esso sarà al contempo rivoluzionario e democratico. Punterà a cambiamenti radicali […]. Saprà che la democrazia inglese non è del tutto un inganno, non è mera sovrastruttura”. Certo, “la democrazia borghese non è abbastanza, però è molto meglio del fascismo e muoverle contro equivale a tirarsi la zappa sui piedi”.

Ma che non sia abbastanza lo evidenzia di fatto lo stesso Orwell in un articolo del 1945, criticando l’arresto di cinque persone che vendevano giornali di sinistra radicale e anarchici all’ingresso di Hyde Park, accusate di intralcio alla circolazioneguarda caso una delle accuse rivolte anche oggi a sindacalisti o ecologisti, in Italia e non solo. Certo, scriveva Orwell, “la polizia inglese non si può paragonare alle gendarmerie continentali o alla Gestapo, però non credo sia diffamazione affermare che, in passato – ma la situazione sembra sia rimasta invariata, almeno in certi momenti, con i governi laburisti – sia stata ostile alle attività della sinistra, dimostrando una tendenza a schierarsi con coloro che considera i paladini della proprietà privata […] o con le camicie nere”. Mentre il fatto che gran parte della stampa “sia nelle mani di pochi funziona in modo analogo a una censura di Stato” (e ricordiamo in parentesi che l’Italia è oggi scesa al 49° posto per la libertà di stampa, secondo il World Press Freedom Index 2025). Di più: vi è “un declino del desiderio di libertà intellettuale e l’idea che sia rischioso lasciare libera espressione a certe idee sta crescendo”.

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Ancora sul tema della verità con il libro che riprende uno scritto del 1942 dedicato alla guerra civile di Spagna (a cui Orwell partecipò, combattendo contro il fascista Franco, nelle fila del Poum, Partito operaio di ispirazione trotzkista, insieme sfuggendo all’eccidio staliniano degli antistalinisti), scritto dove richiama al dovere di non prestare fede alla propaganda, cioè alle menzogne, perché la “verità essenziale di quella guerra è piuttosto chiara: la borghesia spagnola vide [in Franco] la sua occasione per annientare il movimento dei lavoratori e la colse, con l’aiuto dei nazisti e delle forze reazionarie di tutto il mondo. Dubito si potrà mai dimostrare più di questo”. Da qui l’amara riflessione che abbiamo usato come incipit, a cui aggiungeva: “la peculiarità del nostro tempo è la rinuncia all’idea che sia possibile scrivere una storia obiettiva”. Come oggi.

Orwell, dunque. Che “sembra un discendente di Erodoto”, scrive Roberta De Monticelli ed “è più filosofo – cioè più socratico – della maggior parte dei filosofi nostri contemporanei, con un’anima francescana e uno spirito critico sulfureo, ignaro di orizzonti celesti, una sorta di viandante cherubico intriso di humor britannico”. E giustamente De Monticelli ci porta, dopo i testi raccolti nel volume – tra cui anche uno su La guerra dei mondi di Orson Welles come esempio di credulità popolare e di indistinzione tra realtà e finzione – alla Fattoria degli animali (“novella satirico swiftiana che inscena l’involuzione di una società dell’eguaglianza verso una società totalitaria, attraverso l’accettazione collettiva più o meno impotente, più o meno corriva, di una manipolazione graduale e sistematica della verità da parte di pochi”); e a 1984 (“dove lo studio della decostruzione dell’identità personale attraverso la rinuncia alla distinzione fra il vero e il falso raggiunge livelli di profondità – e di attualità – da mozzare il fiato”). Attualità di Orwell, appunto.

E la guerra, ancora De Monticelli, “è la grande nemica della verità anche nello spazio pubblico delle democrazie”, per cui la verità c’è “ora sì e ora no, secondo convenienza. È la bomba logica del doppio standard, per cui se invadi, uccidi e deporti sei un criminale di guerra – nel caso tu sia, poniamo, l’autocrate russo; ma se per caso sei il premier israeliano, stai solo difendendo il diritto di Israele a esistere”. E quando il potere e la sua logica di potere illimitato e la sua propaganda ci entrano dentro (appunto come in 1984) e ciascuno di noi diventa come loro (cioè come vuole il potere) allora ciascuno rinuncia (De Monticelli) “all’esercizio della vista, della memoria, della logica” – e quindi non vede ciò che accade a Gaza, così come (aggiungiamo) non vede più il riscaldamento climatico. E mentre pensiamo al totalitarismo – se lo pensiamo – come a cosa del passato, non vediamo (“siamo ciechi rispetto al presente”) che esso è realtà anche di oggi.

Ovvero – e chiudiamo tornando all’inizio – potremmo applicare la distopia di 1984 anche agli algoritmi, alla i.a. come nuove macchine del falso-vero, noi portati a confondere l’esatto della matematica con il vero in sé; cioè a credere vero ciò che calcola un algoritmo o che produce l’intelligenza artificiale. E dobbiamo crederlo vero anche se è solo la replica dell’esistente e magari è un falso ed è propaganda (quando non crea essa stessa un falso) – servito per addestrarla.

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