5 per mille

Quei ‘sovversivi’ degli anni Settanta

26 Giugno 2025

Cosa significa sovversivo e cosa e chi è davvero sovversivo? Certo è un concetto scivoloso, contraddittorio, soprattutto pericoloso. Ma anche chiarissimo.

Libertà, diritti dell’uomo (in tutte le declinazioni possibili), autonomia, autogoverno, anticapitalismo, uguaglianza, emancipazione e liberazione, pensiero critico, responsabilità verso la Terra e gli altri, solidarietà, immaginazione, utopia, resistenza anche passiva (e quindi non solo quella che celebriamo ogni 25 aprile), empatia, solidarietà, sciopero, lotta di classe, persino democrazia sono concetti e principi considerati spesso e sempre più sovversivi – per tacere di rivoluzione. Sovversivi ovviamente per chi associa a sovversione la distruzione dell’ordine dato, o una minaccia ai propri interessi e privilegi, al proprio potere – come Trump che manda i marines a combattere quelli che considera i sovversivi criminali di Los Angeles che protestano contro le disumane deportazioni in massa dei migranti e quindi contro le sue politiche autocratiche e fasciste. Ma sovversive anche per quei molti che preferiscono fuggire dalla libertà (e rimandiamo a Erich Fromm) e dalla fatica di pensare con la propria testa (e rimandiamo a Kant) e cercano/invocano qualcuno (oggi un populista/sovranista, un neo-fascista/tecno-fascista o un tecnocrate o una app o l’intelligenza artificiale o un coach o un influencer) che pensi e decida e agisca per loro, tanto basta pagare, perché la minorità (come la rassegnazione) è comoda e non crea problemi.

Ma sovversivo ha – etimologicamente – anche un senso positivo di alterare/rimuovere qualcosa di sbagliato, ovvero: sovvertire illibertà, ingiustizia, eteronomia, sfruttamento, ecocidio dovrebbe essere un principio e un imperativo umano e politico di indubitabile e universale potenza etica e morale. E quindi – in questo senso appunto positivo e trasformativo – sovversivo è stato certamente Socrate; sovversivi sono stati Gandhi e Martin Luther King e prima di loro Marx, e poi la Scuola di Francoforte – arrivando (elenco molto parziale) a Greta Thunberg e agli scienziati del clima che ci allarmano sulla devastazione ambientale che il sistema tecno-capitalista e tutti noi con esso stiamo producendo e che ci chiedono quindi di cambiare radicalmente il modello economico. E sovversivo è anche chi si oppone all’aumento delle spese militari e al complesso militare-industriale o chi rivendica il diritto-dovere di criticare il genocidio israeliano a Gaza senza per questo dover essere accusato ipso facto di antisemitismo. E sovversivo è stato ovviamente il Sessantotto e la sua idea sovversivissima di mettere l’immaginazione al potere.

Sono sovversivismi positivi in modi e con obiettivi diversi, ma tutti sempre ponendo al primo posto l’uomo e la sua libertà, il pensiero critico, la giustizia e la responsabilità sociale e ambientale, tutti ponendosi cioè contro ma sempre in nome di altro e di diverso e di possibilmente migliore (cioè per); magari anche di utopistico, ma senza almeno un po’ di utopia/utopismo si resta ingabbiati nella rassegnazione o nella minorità kantiana, che è infatti ciò che chiedono e producono tutti i poteri, costituiti o meno che siano, ieri soprattutto politici, poi sempre più economici e tecnici.

E anche “gli anni Settanta sono stati un decennio sovversivo. I politici e i loro generali, i capi della polizia e gli agenti dei servizi segreti, i giornalisti e gli intellettuali conservatori vedevano sovversivi dappertutto. I sovversivi sfidavano l’autorità, assediavano l’ordine costituito, minavano uno stile di vita che si era consolidato nel tempo. Questa mentalità era così ampia da poter designare come sovversivi i contadini indigenti e le organizzazioni di liberazione gay, i lavoratori industriali autorganizzati e gli attivisti antinucleari, le femministe rivoluzionarie e i militanti della liberazione nera”. Ogni movimento così definito dal potere (e dal senso comune che il potere sapeva costruire per la propria conservazione e riproducibilità) doveva quindi “essere estirpato e distrutto dalle forze dell’ordine”, secondo un progetto seguito e perseguito “con tanto zelo quanta brutalità”. Inizia così I Settanta sovversivi di Michael Hardt, appena pubblicato da DeriveApprodi (pag. 315, € 22,00) – Hardt che insegna alla Duke University e che in Italia è conosciuto soprattutto per i libri scritti con Antonio Negri, come Impero e Moltitudine.

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Fotografia di Alberto Bravo.

E la repressione poliziesca e militare (e ricordiamo le stragi di stato e dei fascisti in Italia, a partire dal 1969 con la bomba di piazza Fontana a Milano), “raggiunse livelli estremi e assunse un’ampia varietà di forme, includendo l’uso – anche letale – della forza, accompagnato da campagne di disinformazione, dalla sorveglianza e dall’infiltrazione, dell’incarcerazione extra legale, dagli omicidi mirati fino alle sparizioni di massa e alle torture”. E se oggi sovversivo è usato in senso quasi esclusivamente negativo, coloro che allora, continua Hardt, “erano impegnati nei movimenti progressisti e rivoluzionari erano di fatto (e si sentivano) sovversivi. Invece di lavorare all’interno del sistema volevano minare l’autorità costituita, trasformando le strutture fondamentali della società. Non si accontentavano di riforme sociali e politiche o di un’attenuazione parziale delle sofferenze e dello sfruttamento se tutto ciò significava lasciare intatte le fondamenta dell’ordine stabilito. […] Sovversione e liberazione vanno quindi di pari passo e solo assieme rendono possibile un altro mondo, un mondo migliore”. E dunque, se “molti libri sono stati scritti (e molti altri devono essere ancora scritti) sui regimi di dominazione emersi negli anni Settanta – le brutali dittature militari in America Latina, Turchia e Corea del Sud, la nascita del neoliberalismo con l’attacco ai sindacati e lo smantellamento delle strutture di welfare, l’autorità oppressiva dei socialismi di Stato e molto altro ancora – questo libro parla dell’altra faccia della medaglia”. E quindi Hardt seleziona e narra, riportandole in vita, le storie di molti di quei movimenti rivoluzionari e progressisti, storie oggi dimenticate, ma che invece rappresentano “un primo essai per affrontare la nostra congiuntura” odierna.

Certo, prima c’era stato il Sessantotto ma le narrazioni dominanti – scrive Hardt – si fermano lì, mentre “l’intensa attività politica emersa negli anni Settanta rimane invisibile. Non c’è niente da vedere. Andate via”), come se dopo, appunto nei Settanta, non fosse successo nulla. La prima sfida è quindi quella di togliere il paraocchi e vedere” ciò che accadde in quel decennio – smontando le retoriche che distinguono tra i buoni Sessanta [con le lotte per la pace, la giustizia, la libertà e l’uguaglianza; “con le marce dei neri a Selma che, con il vestito della domenica mantengono il loro portamento solenne e il loro impegno alla non-violenza anche sotto i brutali attacchi della polizia”; “con i manifestanti di Praga che si scontrano con i carri armati sovietici” – “tutte istantanee di un album fotografico collettivo”] e i cattivi Settanta, decennio in cui tutto sarebbe andato storto (dalle divisioni nella sinistra alle sue molte sconfitte, alla violenza politica degli anni di piombo). E invece l’attenzione alla lotta armata non deve far dimenticare “altri movimenti politici, spesso assai più significativi che non hanno fatto ricorso alle armi”. Ed è quanto si propone Hardt nel suo saggio (“che rimarrà per sempre incompleto e quindi invita a fare aggiunte, correzioni e critiche”) – perché “i Settanta hanno inventato le prime forme di pratiche e strategie che sono sbocciate e divenute centrali poi nei movimenti del XXI secolo”; e anche se molti movimenti di quegli anni erano in realtà più avanti di quelli di oggi” è altrettanto vero che “la storia del nostro presente inizia lì”.

Nel suo saggio Hardt mette l’accento su alcuni concetti che avrebbero caratterizzato comunque la diversità di quei movimenti progressisti e rivoluzionari: l’autonomia, come quella ad esempio degli operai che assunsero “il controllo delle proprie lotte, dichiarando la loro autonomia non solo dai padroni delle fabbriche ma anche dalle imposizioni dei sindacati dominanti”, o quella degli accampamenti contro le grandi opere infrastrutturali, aeroporti o centrali nucleari o basi militari che fossero. Poi la molteplicità delle lotte e dei movimenti, in particolare femministi ma non solo, con il riconoscimento sempre più diffuso “che la centralità operaia nella lotta rivoluzionaria era giunta al termine”, che quindi nessuno dovesse esercitare direzione ed egemonia sugli altri.

E poi democrazia, che si fa, scrive Hardt, democrazia rivoluzionaria opponendosi “al governo autoritario e al controllo capitalista”, allo stesso tempo rifiutando anche “le strutture consolidate dei regimi democratici liberali” che sempre più si evidenziavano come finzioni di democrazia. Una democrazia, detto in termini sintetici, che “privilegia la partecipazione ai processi decisionali politici rispetto alla mera rappresentanza”. E infine, liberazione, “concetto che però unisce tutti gli altri e funge da concetto guida per comprendere quel decennio”. E liberazione “non significa solo emancipazione, cioè liberare le persone dalle loro catene per farle partecipare alla società esistente, ma richiede anche una trasformazione radicale di quella società, rovesciando le sue strutture di dominio e creando nuove istituzioni che favoriscano la libertà. Ma anche questo tuttavia non basta, perché devono cambiare anche i soggetti, cioè le persone, avviando un processo di trasformazione soggettiva collettiva”, impedendo che questa trasformazione soggettiva collettiva sia invece solo quella prodotta e realizzata, per profitto, dal capitale.

E dunque, Hardt ci narra dell’11 settembre del 1973 in Cile, quello del golpe fascista-neoliberista-statunitense che mise fine all’esperimento socialista di Allende (divenendo modello per la successiva estensione/imposizione del neoliberalismo al resto del mondo); del golpe (atipico) per la democrazia in Portogallo (1974) e della rivoluzione dei garofani; delle forme di potere popolare che allora fiorirono in giro per il mondo, riproponendo la distinzione tra potere dal basso o potere dall’alto, ma anche ponendo la questione dei nuovi beni comuni oltre la vecchia dicotomia tra proprietà privata o proprietà pubblica. E ci narra dei movimenti di liberazione dell’omosessualità; delle rivoluzioni in Nicaragua e in Iran; e della rivolta di Kwangju nella Corea del Sud del 1980 e dell’accampamento antinucleare di Wyhl in Germania occidentale nel 1975, con uno dei primi tentativi di democratizzare la scienza e la tecnica (e rimandandoci alla val di Susa No Tav di oggi). E poi le lotte femministe. E i Tupamaros. E Lotta continua e l’Autonomia in Italia. E l’autogestione nella fabbrica di orologi Lip di Besançon in Francia (che ci rimanda alla Gkn di Campi Bisenzio). E molto altro ancora, che lasciamo alla curiosità sovversiva dei lettori.

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Fotografia di Luis Orlando “Chico” Lagos Vásquez.

Importante è però ricordare e sottolineare, ancora con Hardt, che i Settanta sono stati anche e soprattutto il decennio di avvio dell’egemonia del neoliberalismo, segnando appunto “l’inizio del nostro tempo”. Quando le élite imprenditoriali e politiche statunitensi e poi dell’intero occidente – anche e soprattutto per rispondere alle sfide dei sovversivi rivoluzionari e progressisti e vincere loro come élite, come poi è avvenuto, la lotta di classe – “trasformarono l’economia, sostituirono le fabbriche con la finanza e i servizi, incominciarono l’esodo del lavoro manifatturiero verso altre parti del mondo” e quindi avviarono – aggiungiamo e integriamo – quella nuova fase della rivoluzione industriale chiamata poi digitale che ha permesso la riproduzione accresciuta del profitto attraverso quella forma di fabbrica chiamata piattaforma digitale e che permette di centralizzare ancora di più il comando di fabbrica e l’organizzazione e la disciplina eterodiretta del lavoro, nascondendo il tutto sotto una apparenza di orizzontalità, di autonomia e di creatività – impossibili perché l’essenza della tecnica è ripetizione, standardizzazione, integrazione, automatismi anche comportamentali.

Tutto secondo il piano del 1975 di Samuel Huntington nel Rapporto per la Commissione Trilaterale, Rapporto che metteva in guardia le élite di allora dal rischio di una perdita di autorità, che doveva essere recuperata riducendo i processi di democratizzazione in atto nella società e nelle imprese così come i processi di mediazione sociale e politica, visti come “meccanismi pericolosi che potevano minare le strutture costituite di governo”, cioè il potere delle élite/oligarchie del capitale; e oggi siamo arrivati alle democrature, ai populismi, ai neo-fascismi, al Decreto Sicurezza, ai dispositivi tecnologici e alla loro produzione di ulteriore dis-intermediazione sociale e politica e di ulteriore de-democratizzazione.

Certo, il conflitto non è morto. Ma il problema, conclude Hardt, “non è allora l’unità (o la separazione), ma l’articolazione” dei movimenti e delle lotte – e alcuni movimenti la stanno già sperimentando. Ma questo obiettivo, lo ammette, “richiede un lavoro politico” e “uno sforzo strategico per creare solidarietà e una forma di lotta comune senza priorità”. Possibile, ma non facile, se il mondo – concludiamo a nostra volta – sembra sempre più governato dall’intelligenza artificiale e dalle sue oligarchie, che sono la nuova forma del vecchio potere anti-sovversivo (sovversivo nel senso positivo visto sopra, ovviamente…).

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