Joseph Ponthus: in fabbrica con la penna e con il martello

18 Maggio 2023

Esordio di Joseph Ponthus (pseudonimo di Baptiste Cornet, 1978-2021), questo libro destinato a rimanere, per la sua tragica e prematura scomparsa, e salvo ritrovamenti postumi, l’unico dell’autore, può essere definito come una meteorite luminosa nel cielo della letteratura francese dell’estremo contemporaneo. Insieme saggio narrativo e poema in prosa, scritto in versi liberi, il testo possiede una forza verbale rara, vicina a quella del poetry slam, che gli ha permesso di aggiudicarsi diversi premi, tra cui il grand prix RTL-Lire, e di essere quasi subito tradotto in italiano, pubblicato da Bompiani con il titolo Alla linea

Questa «linea», appunto, diventa l’emblema di un’unione possibile tra la figura dello scrittore e quella dell’operaio, perché si torna a capo come ci si rimette all’opera. Metafora della ripetitività del lavoro, ritmo lirico che fiorisce sulla desolante distruzione del linguaggio, la linea è la catena di montaggio, ribattezzata così dal newspeak che vige nella fabbrica dell’XXI secolo. “Scrivo come lavoro / Alla catena / Alla linea e sulla linea a capo”. In Alla linea, sottotitolato quindi Fogli di fabbrica, Joseph Ponthus racconta il suo quotidiano in una fabbrica di gamberi, poi di bastoncini di pesce e di tofu, e infine in un mattatoio. Ma al contrario di altri dispositivi letterari a cui ci aveva abituato la letteratura francese che, pur trattando il tema del lavoro (si può citare in tal senso Florence Aubenas con Le Quai de Ouistreham oppure Elisabeth Filhol con La Centrale) ne faceva un’esperienza limitata nel tempo o comunque indiretta, vissuta da un giornalista o da un intellettuale, Ponthus offre un punto di vista di totale adesione all’esperienza («Non ci andavo a fare un reportage/Men che meno per preparare la rivoluzione/No/La fabbrica è per i soldi»). Letteratura operaia, quindi, che tuttavia adotta costantemente un discorso parodico su sé stessa o su quello che avrebbe potuto essere («non è Zola ma potrebbe sembrarlo»). Certo, c’è anche tutto questo, e non va mica nascosto che si lavora per ore con le mani dentro l’acqua ghiacciata, ma è l’ironia di un’espressione popolare a tradurla: chi chiede di versare acqua calda nelle cassette dei gamberi per maggior comfort non «sembra aver scoperto il liquido che vorrebbe sul suo pesce». E bisogna qui aprire una parentesi, troppo breve, per sottolineare il lavoro straordinario della traduttrice, Ileana Zagaglia, che in ogni momento riesce a trovare una soluzione per restituire la voce di Ponthus al lettore italiano. Ma tornando alla denuncia sociale, cioè al discorso sulle condizioni di lavoro in fabbrica, bisogna dire che si rovescia come un guanto nel ritratto della globalizzazione e della società del consumo che ne sta alla base. Il lettore viene così messo di fronte alle sue responsabilità: è lui, in quanto consumatore, ad essere l’invisibile perno della fabbrica in cui non ha mai messo piede. E Ponthus gliela restituisce sotto forma di poesia, cioè di visione inedita e folgorante, quando evoca le terre lontane e esotiche, cioè i diversi paesi da dove provengono i gamberi che arrivano congelati e già sgusciati (da chi, chiede, e quale vita c’è dietro queste mani invisibili?), mentre lui ha per compito di organizzarli in una composizione quasi floreale, una poetica «corona di gamberetti da aperitivo», destinata a addobbare la tavola di qualche intérieur borghese il tempo di un apericena. Altra linea quella che unisce le mani di esseri umani di tutto il pianeta: schiavi del terzo mondo, lavoratori della fabbrica bretone, consumatori occidentali, ignari di fare parte tutti di una stessa catena.

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Ma il genio di Ponthus è di inventare un nuovo linguaggio, per fare della fabbrica un altro luogo rispetto a quello consegnato dal romanzo sociale («Non la desolazione della fabbrica/ Ma la sua paradossale bellezza»), cioè un luogo di inaspettata nobiltà e di poesia. Anzi, solo esse possono salvare l’operaio costretto a ripetere gli stessi gesti durante le ore interminabili delle sue infinite giornate. Non solo perché Ponthus entra in quell’esperienza con il verso di Hugo «Domani all’alba nell’ora in cui biancheggia la campagna», battuta mezza incompresa dalla direttrice delle risorse umane quando ironizza sull’orario di lavoro più che mattutino, non solo perché ad accompagnare gli operai sono le canzoni popolari, che risuonano in mezzo alla fabbrica con la loro invincibile forza o gioia, al limite del naïf con le parole per esempio Y’a d’la joie, bonjour bonjour les hirondelles di Charles Trenet, per coprire i rumori insopportabili della fabbrica — canticchiare è una forma di resistenza sul luogo di lavoro che l’operaio conosce da sempre, basta pensare al Chant des ouvriers di Pierre Dupont, alle canzoni delle mondine o delle tabacchine salentine. Quest’uso disgiuntivo della cultura pop e allegra in un luogo di lavoro perlopiù schiacciante esprime tutta la necessità antropologica del linguaggio, e ridà a queste canzoni una forma di freschezza e di necessità: «tous les cris les S.O.S» di Balavoine non suoneranno mai più démodés o ridicoli, frutto di una cultura occidentale venduta all’entertainment, ma espressione reale, densa di un’esperienza concreta e universale, grido di dolore e di disperazione che sale dai corpi dei damnés de la terre, dei forçats de la faim.

Si capisce che Ponthus è tra quelli che preferiscono sempre l’ironia agghiacciante e il gioco letterario a uno pseudo-reportage sociologico e miserabilista. Ma oltre l’humour, sarà la creatività letteraria a rendere vivace il mondo della fabbrica, perché da poeta applica una torsione lirica a tutto quello che a prima vista appare prosaico e senza salvezza possibile. Ponthus crede nel potere della letteratura, non come mera rappresentazione e nemmeno trasformazione del reale, bensì come una forza che attraversa la vita e permette di viverla. In questo, la memoria gioca un ruolo straordinario, perché provare a ricordarsi l’ultimo verso di una poesia imparata a scuola o a casa può occupare la mente per ore, fungendo da svago mentre le mani lavorano. Ponthus ci offre la visione di una memoria che salva, che combatte l’alienazione del soggetto, che permette di restare compatto di fronte all’impatto della fabbrica, la quale non è solo fisicamente devastante — alcuni versi dicono chiaramente la durezza del lavoro — ma anche psicologicamente distruttiva. Salvare l’anima quindi, tenendo la letteratura in pugno come uno scudo. Infatti, una punta di risentimento verso una letteratura de chambre, che cattura lo spazio del discorso sull’esperienza e sulla memoria, si legge in questa battuta sfrontata all’autore della Recherche: «Cher Marcel, ho trovato quel che tu cercavi. Vieni in fabbrica. Te lo mostrerò io, il tempo perduto». Non si può che pensare alle parole del padre di Ernaux che le diceva, in modo un po’ sgrammaticato «la littérature, c’est pas du réel», perché tra dire e fare, quando si parla di certe esperienze, certo che c’è in mezzo il mare.

E sarà proprio la compenetrazione delle due sfere, letteratura e reale, a trasformare l’esperienza dell’operaio in una gesta, forse non giubilatoria, ma comunque all’opposto del naturalismo. Come raccontò Ponthus in numerose interviste, quando doveva tagliare code di mucche con un immenso coltello per otto ore al giorno, era l’immagine di Athos, il moschettiere di Dumas che veniva a aiutarlo per compiere il tremendo lavoro. Se deve essere alienante l’esperienza di una fabbrica, tanto vale che ci proietti nella dimensione senza tempo e nobile del guerriero consegnata dal mito e dalla letteratura. Ed è questa la forza di Ponthus, provare a creare uno spazio dove non c’è più distinzione tra chi lavora e chi scrive sui lavoratori, dove crolla il divario tra il reale e chi ne scrive, dove non si cerca più di afferrare a stento con la penna un reale che continua la sua vita con il martello. 

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