Filosofia del graphic design

10 Luglio 2022

Fin dai tempi del ginnasio, ho amato le antologie. Allora si trattava di quelle letterarie, che mi offrivano la possibilità di saggiare i temi, lo stile, il ritmo e la musicalità della scrittura dei vari autori e di scegliere di quale di essi leggere poi integralmente i testi, a seconda di ciò che mi aveva maggiormente avvinta. Quando poi mi sono avviata alla carriera di insegnante di Storia dell'Arte ho coltivato il sogno di redigere un 'manuale' sui generis della disciplina, una sorta di antologia, appunto, nella quale ciascun artista, o tema preso in esame, venisse presentato con un testo scritto dal più insigne studioso che se ne fosse occupato.

E così, ad esempio, per la ritrattistica romana antica ci sarebbe stato sicuramente un brano di Ranuccio Bianchi Bandinelli; per la pittura dell'alto medioevo, uno di Pietro Toesca; per la Pittura italiana delle origini, uno di Ferdinando Bologna; per quella di Giotto e di Simone Martini, uno di Frederick Antal; per Arnolfo di Cambio, uno di Angiola Maria Romanini; per Piero della Francesca, uno di Eugenio Battisti o/e di Henry Focillon; per l'architettura di Michelangelo, uno di Rudolf Wittkower; per quella di Borromini, uno di Paolo Portoghesi; per il Caravaggio, uno di Roberto Longhi e così via.

Mi immaginavo, insomma, una sorta di antologia a tema, corredata delle immagini delle opere d'arte di cui trattava e delle biografie degli artisti. Ne avevo parlato anche con un collega e amico e si era cominciato a progettare, poi, purtroppo, travolti dal quotidiano, non se ne è fatto più nulla. Oggi mi rammarico di non aver portato a compimento quell'idea, che una analoga operazione editoriale, fatte salve le ovvie differenze e specificità disciplinari, mi ha richiamato alla mente.

Mi riferisco al volume recentemente pubblicato da Einaudi, intitolato Filosofia del graphic design, curato da Riccardo Falcinelli (pp. 390, € 26.00), che raccoglie antologicamente 40 brani, molti dei quali inediti nella nostra lingua, compresi fra il 1895 e il 1998, tutti afferenti al tema del graphic design. Si tratta della prima antologia in assoluto di testi in lingua italiana dedicati alla grafica, quando, invece, nel tempo molte sono state quelle apparse sul mercato americano e inglese "anche grazie alla presenza di corsi più strutturati di storia del design all'interno delle università."

Sebbene si tratti di "autori tanto dissimili: ciascun testo selezionato in questo libro" scrive Falcinelli "rivela, attraverso il discorso sulla grafica, una visione del mondo e un modo di sentire la vita. Non si tratta perciò di saggi tecnici o critici, ma di poetiche, proponimenti, previsioni, manifesti, dichiarazioni di intenti, proclami e pure, perché no, di chiamate alle armi."

 

A partire da William Morris, fino a Katherine McCoy, a Giovanni Anceschi e Giovanni Baule, passando per Filippo Tommaso Marinetti, László Moholy-Nagy, El Lissitzky, Erbert Bayer, Albe Steiner, Bruno Munari e molti altri, nella sua antologia, Falcinelli raccoglie pensieri di autori che stigmatizzano concetti e tracciano coordinate sintattiche entro le quali si va a collocare ciò che ormai universalmente chiamiamo graphic design. Che questa disciplina sia nata insieme alla scrittura, come sostengono alcuni, quale strumento di esatta messa a punto dei dati; oppure, come reputano invece altri, che essa abbia visto la luce contestualmente alla nascita della stampa, frutto della necessità di 'impaginare' i libri; o ancora, secondo un altro parere, che sia germinata in seno alla seconda rivoluzione industriale, allorché si è fatta strada tra i produttori l'esigenza di pubblicizzare le merci e di comunicare in modo chiaro con i loro fruitori, è inconfutabile che essa abbia assunto la denominazione di graphic design a far data dal 1922. Fu infatti William Addison Dwiggins a definirla per primo così, nel suo testo New Kind of Printing Calls for New Design, di cui l'antologia include un brano significativo.

Filippo Tommaso Marinetti, copertina di Zang Tumb, Tumb, Edizioni Futuriste di Poesia, Milano, 1914. A destra: El Lissitzky, su testo di Vladimir Majakovskij, Per la voce (Dlia golosa), quattro pagine interne e copertina, Berlino, 1923.
Filippo Tommaso Marinetti, copertina di Zang Tumb, Tumb, Edizioni Futuriste di Poesia, Milano, 1914. A destra: El Lissitzky, su testo di Vladimir Majakovskij, Per la voce (Dlia golosa), quattro pagine interne e copertina, Berlino, 1923.

 

Nel testo più antico presente nella raccolta, una nota per la fondazione della Kelmscott Press, la stamperia creata da William Morris nel 1890, il maestro delle Arts and Crafts scrive: "Il fondamento del mio impegno è stato produrre libri che sarebbero stati un piacere da guardare come esempi di stampa e disposizione dei caratteri."

Lì Morris ci svela come il suo impegno sia consistito non soltanto nello studiare un tipo di carattere che rendesse agevole e gradevole la lettura, ma anche, e soprattutto, nell'attribuire un ruolo fondamentale alla spaziatura tra le lettere e all'interlinea, nonché nel ribadire il compito dei margini: egli vi sottolinea, insomma, come è proprio di tutti i grandi artisti, la necessità di progettare il vuoto, per conferire rilievo e risalto al pieno. 

"Ora, perché i libri prodotti siano belli, la spaziatura e la posizione sono della più grande importanza: se sono considerati nel modo giusto renderanno un libro stampato in un carattere abbastanza comune almeno decente e piacevole da guardare, mentre trascurarli rovinerà l'effetto di un carattere disegnato nel migliore dei modi."

Persino il poeta Filippo Tommaso Marinetti, nel suo Parole in libertà fa incursioni nel campo del graphic design, quando detta queste regole:

"Il libro deve essere l'espressione futurista del nostro pensiero futurista. Non solo. La mia rivoluzione è diretta contro la cosiddetta armonia tipografica della pagina, che è contraria al flusso e riflusso, ai sobbalzi e agli scoppi dello stile che scorre nella pagina stessa. Noi useremo perciò in una medesima pagina, tre o quattro colori diversi di inchiostro, e anche 20 caratteri tipografici diversi, se occorra. Per esempio: corsivo per una serie di sensazioni simili o veloci, grassetto tondo per le onomatopee violente, ecc. Con questa rivoluzione tipografica e questa varietà multicolore di caratteri io mi propongo di raddoppiare la forza espressiva delle parole."

Si può dire che anche la professione del graphic designer sia nata contemporaneamente al termine che la definisce, anche se, soprattutto in Italia, le prime scuole per formare questi professionisti risalgono soltanto agli anni sessanta. Se è vero che il progettista grafico deve possedere una solida formazione intellettuale, la stessa non deve difettare neppure ai grafici tecnici che operano per realizzare i suoi progetti. Ed ecco intervenire nel merito Albe Steiner con il testo, inserito nell'antologia, di una lezione da lui tenuta alla Società Umanitaria di Milano nel 1968 (poi pubblicato nel suo fondamentale Il mestiere del grafico, Einaudi, 1978), in cui ribadisce la necessità della consapevolezza culturale tanto del progettista come, ed è una novità rivoluzionaria, del grafico compositore che opera in tipografia:

"La nostra preoccupazione è quella di formare all'Umanitaria dei lavoratori coscienti, autonomi, indipendenti, sicuri delle loro attività, del loro mestiere, del loro avvenire e che possano decidere in piena libertà quello che desiderano fare. Per fare questo noi riteniamo che si debba dare una solida preparazione tecnica. 

[...] Essere tecnicamente preparati significa che ognuno deve dominare nel modo più assoluto e totale la materia nella quale opera. [...]

Abbiamo deciso di chiamare questo corso, per grafici compositori. [...] Per grafico compositore bisogna intendere un individuo che sia in grado di disegnare, di far vedere e di concretare un'idea e di realizzarla con i mezzi tipici della tipografia. [...] L'intervento del grafico compositore non riguarda solamente il settore del libro oppure quello del manifesto di sole scritte, ma riguarda tutto il settore dell'imballaggio, della cartotecnica, del letterismo cinematografico o televisivo ecc. Tutti i settori dove esiste una lettera, un carattere stampato o che possa essere proiettato, là arriva il compositore, di modo che a un certo punto c'è una debolissima frontiera, appena un diaframma tra il grafico esecutore o progettista e il grafico compositore."

László Moholy-Nagy, tipofoto, Dinamica della grande città, pagine interne dal suo libro Pittura fotografia, film, Dessau, 1927
László Moholy-Nagy, tipofoto, Dinamica della grande città, pagine interne dal suo libro Pittura fotografia, film, Dessau, 1927

 

Come già Albe Steiner, molti di coloro che scrivono di grafica sono anche insegnanti che praticano la scrittura con finalità didattiche. "La manualistica occupa difatti uno spazio non secondario negli scaffali della grafica" ci ricorda Falcinelli "e nel novecento si è scritto molto per insegnare, per spiegare, per definire." 

Tra i grafici scrittori, uno tra i più insigni è sicuramente László Moholy-Nagy, il maestro dei maestri, che negli anni venti e trenta del novecento, ha insegnato e teorizzato dalla sua cattedra al Bauhaus di Dessau e quindi, dopo la sua fuga dalla Germania di Hitler, da quella al New Bauhaus di Chicago, contribuendo con i suoi testi anche alla costruzione del mito della scuola tedesca "fino a farla apparire come l'unica esperienza davvero importante nella didattica del primo novecento." 

In un suo scritto del 1923, incentrato sulla necessità dell'impiego dell'immagine fotografica nei progetti tipografici, compare un passo davvero profetico sulla diffusione delle sequenze filmiche, che oggi sono entrate a far parte del quotidiano di ciascuno di noi. 

"La questione più importante per la tipografia di oggi è l'utilizzo delle tecniche zincografiche, la produzione meccanica di riproduzioni fotografiche in tutti i formati. [...] L'oggettività della fotografia libera il lettore, finora passivo, ad esempio dalle stampelle di una descrizione personale; egli sarà più che mai costretto a formarsi una propria opinione. 

Si potrebbe affermare che un tale uso della fotografia condurrà in breve tempo alla sostituzione di una buona parte della letteratura con il cinema. In realtà questa tendenza è già in corso (poiché oggi, ad esempio, a causa dell'uso del telefono, si scrivono meno lettere rispetto al passato). [...] Il cinema sarà presto una tecnica comune, come è adesso quella della stampa."

Tra i grafici-insegnanti-scrittori, c'è poi Katherine McCoy, progettista e teorica alla Cranbrook Academy of Art, nel Michigan, che negli anni novanta, dopo esserne stata a lungo vestale, ha abiurato il minimalismo della 'scuola svizzera', optando per una grafica più espressiva, in sintonia con la cultura postmoderna. Tra i due poli temporali e culturali che separano il Bauhaus dal postmodernismo, si colloca, infatti, una delle più importanti e longeve stagioni del graphic design, che della lezione razionalista del Bauhaus è stata la legittima erede, contrassegnata dal dominio della "scuola svizzera", appunto (quella della griglia e dell'Helvetica), indiscussa protagonista del linguaggio grafico internazionale a partire dagli anni cinquanta fino agli inizi degli ottanta, con irriducibili sostenitori persino nei novanta ed oltre. Le teorie che l'hanno sostenuta sono state professate da Max Bill in seno alla HfG (Hochschule für Gestaltung) di Ulm.

Così le confuta McCoy:

"Dopo essermi sforzata per anni di progettare con la maggior 'purezza' possibile, di usare un vocabolario grafico minimalista, strutture compositive basate su griglie molto forti e contrasti di scala per creare interesse visivo, sono arrivata a considerare questo desiderio di 'pulizia' alla stregua di mere faccende domestiche. Molti di noi, soprattutto grafici che applicavano il metodo 'svizzero', hanno iniziato a ricercare un design più espressivo, in parallelo con una tendenza simile in architettura, ora conosciuta come postmodernismo. Alla fine, negli anni settanta emerse una nuova modalità operativa del graphic design, ciò che in mancanza di un termine migliore venne chiamato 'New Wave', secondo la quale era di nuovo permesso l'uso di elementi storici e vernacolari, cosa proibita dal modernismo 'svizzero'. Poi a metà degli anni Ottanta, a Cranbrook trovammo nuovo interesse per il linguaggio verbale del graphic design e per l'arte: il testo poteva essere animato con voci e le immagini potevano essere lette, e guardate, con un'enfasi sull'interpretazione del pubblico e sulla sua partecipazione alla costruzione del significato."

A sinistra: Bruno Munari, pagine interne del Libro illeggibile bianco e rosso, 1953. A destra copertina del libro di Albe Steiner, Il mestiere del grafico, 1978
A sinistra: Bruno Munari, pagine interne del Libro illeggibile bianco e rosso, 1953. A destra copertina del libro di Albe Steiner, Il mestiere del grafico, 1978

 

Al termine del rapido excursus intrapreso in queste righe fra i 40 testi contenuti nell'antologia Filosofia del graphic design, per concludere, ne scelgo uno di Bruno Munari dei due suoi in essa presenti, entrambi desunti dal volume Da cosa nasce cosa, edito da Laterza nel 1981 e divenuto subito un best seller. 

"Normalmente quando si pensa ai libri si pensa ai testi, di vario genere: letterario, filosofico, storico, saggistico, eccetera da stampare sulle pagine. Poco interesse viene dedicato ai caratteri da stampa e ancora meno agli spazi bianchi, ai margini, alla numerazione delle pagine, e a tutto il resto.

Lo scopo di questa sperimentazione è stato quello di vedere se è possibile usare il materiale con il quale si fa un libro (escluso il testo) come linguaggio visivo. [...]

Se si vuole sperimentare la possibilità di comunicazione visiva dei materiali con i quali è fatto libro, allora dovremo provare con tutti i tipi di carte, tutti i tipi di formati; con rilegature diverse, fustellature, sequenze di forme (di fogli), con carte di materie diverse, con i loro colori naturali e le loro texture. [...]

Si cercano quindi tutte le carte possibili, dalle carte da stampa alle carte da imballaggio, dalle carte semitrasparenti a quelle texturizzate ruvide, lisce, carte fatte di recuperi, carte veline, carte paraffinate, catramate, plastificate, carte di pura cellulosa, carte di stracci, di paglia, carte vegetali, carte sintetiche, carte morbide, rigide, flessibili, e via dicendo.

In questo caso si fanno già delle scoperte perché se una carta è trasparente comunica la trasparenza, se è ruvida comunica la ruvidità. Un 'capitolo' di carta da lucido (quella usata da architetti e ingegneri per i loro progetti) dà un senso di nebbia: sfogliando quelle pagine è come entrare nella nebbia. Questo effetto sarà da me poi utilizzato nel libro Nella nebbia di Milano, pubblicato da Emme Edizioni nel 1968.

Insomma ogni carta comunica la sua qualità. E questo è già qualcosa per essere usato come elemento comunicante. [...] 

Un'altra sperimentazione viene condotta sui formati delle pagine. Pagine tutte uguali comunicano un effetto di monotonia, pagine di diversi formati sono più comunicative. Se i formati sono organizzati in modo crescente o decrescente o intersecanti o comunque ritmati, si può ottenere una informazione visiva ritmica dato che il voltare pagina è una azione che si svolge nel tempo e quindi partecipa al ritmo visuale-temporale."

Non solo di parole, dunque, ma anche di formati della carta, di tipi di carta, di colori della stampa, di font, di impaginazione libera o in gabbia, di vuoti, di pieni, di spazi sia dei margini che delle interlinee sono costituiti l'alfabeto e la sintassi del graphic design, protesi tutti al fine del comunicare. Già, perché come ci ha insegnato Giovanni Anceschi: 

"Dove c'è comunicazione c'è grafica. Come la comunicazione essa è dappertutto".

A sinistra: Paul Rand, manifesto del film No Way Out, 1950. A destra copertina del libro di Riccardo Falcinelli.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO