ADI: un secolo di arte e industria
Il design, si sa, ha avuto origine dal binomio Arte/Industria, è un prodotto della Civiltà delle macchine, per prendere a prestito il titolo della prestigiosa rivista fondata da Leonardo Sinisgalli in seno a Finmeccanica che scandagliò il fenomeno nel periodo del suo boom. Si tratta di quel consolidato connubio, in cui l’industria ha reso possibile la produzione in serie dell'oggetto fait à la machine, e l’arte ne ha garantito i rapporti armonici tra le parti, la proporzione, insomma, fondamento di quella bellezza che ha caratterizzato il Good Design italiano.
Oggi, che di acqua ne è passata sotto i ponti della storia, una mostra all'ADI Design Museum affronta il tema del rapporto fra l’industrial design e l’arte ripercorrendone le tappe attraverso alcuni oggetti iconici. Intitolata Best of Both Worlds: ITALY. Arte e Design In Italia 1915 – 2025, curata, così come il catalogo, da Stefano Casciani, con l’allestimento e il progetto grafico di Piero Lissoni/GraphX, è visitabile fino al 15 giugno. (Catalogo ADI Design Museum, pp. 157, € 30.00)
Se un tempo gli artisti pittori trattavano le pareti delle chiese come enormi pagine da miniare, affrescandovi sopra i loro racconti per immagini, così lo scrittore e designer Stefano Casciani ha organizzato la narrazione di questa storia della modernità in “pagine tridimensionali” dove a parlare sono gli oggetti, quelli dell’arte e quelli del design, a colloquio tra loro. Non per nulla l’esposizione, come fosse un grande libro, è suddivisa in otto capitoli, con tre interludi.
CAPITOLI: 1. L’oggetto nell’arte moderna: dal Futurismo al Concettuale. 2. L’Astrattismo modernista. 3. Prassi/Teoria/Prassi. Le tre M: Munari, Mari, Mendini. 4. Influenze tra Arte e Design: I maestri. 5. Pop, UltraPop, Radical. 6. Anni ’80: Post-Modern e il ritorno del Rimosso. 7. Ricerche individuali. 8. Collezionismo Low Cost.
INTERLUDI: 1. Camera Lucida. L’oggetto e la sua immagine. 2. Sculture di fabbrica: il modo di produzione come arte. 3. Il vaso da fiori come forma del vuoto.

Per isolare la rassegna dagli altri spazi del museo, Piero Lissoni ha concepito estese tele bianche tese a perimetrarne il percorso, che la avvolgono come in un bozzolo attraverso il quale la luce filtra all’interno ma che la separano da ciò che rimane fuori, generando al suo interno una dimensione di tempo sospeso che ha in sé qualcosa di magico. Non appena il visitatore varca la soglia di questa mostra, si trova a tu per tu con pezzi iconici del design italiano che non sono stati collocati su dei piedistalli (il che li museificherebbe), ma, se son tavoli, sedie, poltrone, librerie mobili contenitori o lampade da terra sono stati semplicemente posati sul pavimento, mentre se sono complementi, ristanno su pedane solo brevemente rialzate. L’impressione che si ha è che i capitoli in cui gli oggetti sono contenuti, separati fra loro da quinte, anch’esse rigorosamente bianche, disposte con andamento ortogonale e parallelo alle pareti di tela, siano le stanze di un appartamento e che essi ne costituiscano il prestigioso arredo, selezionato da un interior designer molto colto e dai gusti assai raffinati.
E così, appena entrati, ci si imbatte nel “lavoro dell'outsider Ivo Pannaggi, pittore/architetto giovanissimo che prima di trasferirsi all'estero realizza un capolavoro dell'avanguardia italiana: la Casa Zampini a Esanatoglia (Macerata) dove inventa e sviluppa un nuovissimo linguaggio con l'uso di piani intersecati a formare sedie, porte, lampade, appendiabiti, in un'unità spaziale sorprendente”. (Casciani)
Fanno loro da interlocutori, accanto ad opere tridimensionali di Depero (un cavalletto e un abito futuristi provenienti da Casa Balla a Roma) e due quadri di Giacomo Balla insieme ad uno dello stesso Pannaggi. E questo incipit del design italiano, da Stefano Casciani fatto coincidere con il Futurismo, viene da lui ben argomentato nel primo capitolo del catalogo. Qui, infatti, ci ricorda che Carlo Carrà, Luigi Russolo e Umberto Boccioni, nell’Esposizione di Arte Libera alla Camera del Lavoro di Milano, nel 1922, compiono “operazioni totalmente artistiche ma che sconfinano dalle tecniche tradizionali o mescolano queste ultime con invenzioni e innovazioni, fino alla realizzazione di oggetti d’uso e di autentiche performance multimediali. […]
Come ancora più avanti sarà per le Litolatte, i libri in metallo di Tullio da Albissola come l’Anguria lirica (1934) e ancora le Tavole tattili e le Macchine inutili (1935), assemblaggi di materiali poveri e industriali con cui Bruno Munari annuncia la sua ispirazione sperimentale e la poetica giocosa che a partire dal dopoguerra ne faranno il primo vero artista/designer italiano nella storia del progetto”.

Nella ‘stanza’ successiva, dedicata all’astrattismo modernista, il visitatore prova un altro coup de foudre, quando si imbatte nel mitico Veliero di Franco Albini, da molti, me compresa, mai visto tanto da vicino ma sempre a una distanza di sicurezza imposta dal negozio milanese di Cassina dove è in esposizione. Lo fronteggiano altri due pezzi iconici, la Radio di Cristallo dello stesso autore e la poltroncina in tubolare metallico e cuoio di Giuseppe Terragni.
Nel 1938 Albini ha realizzato un modello-prototipo della Radio di Cristallo per la propria casa, riassemblando una radio in legno avuta come dono di nozze e tenendone a vista le componenti elettriche racchiuse tra due lastre in vetro temperato. Cassina poi l’ha messa in produzione nel 2021, partendo da un modello presentato dal maestro al concorso per mobili moderni indetto dall'azienda svizzera Wohnbedarf a Zurigo nel 1940.
La poltroncina in tubolare metallico e cuoio è stata progettata da Giuseppe Terragni per la Casa del Fascio di Como (1936) ed è presto divenuta uno dei simboli più iconici del Razionalismo italiano. In questa mostra essa dialoga con sei schizzi che testimoniano la sua laboriosa gestazione e documentano l’iter progettuale intrapreso dal maestro per arrivare alla prestigiosa soluzione finale.

Sulla destra di questo ambiente, da esso separato per il tramite di una quinta, fa capolino un altro capolavoro del design Italiano, il Trumeau-architettura di Piero Fornasetti e Gio Ponti.
Presentato per la prima volta alla Triennale di Milano del 1951 è serigrafato e laccato a mano, con tre cassetti, una doppia anta e uno scrittoio a ribalta che si aprono su mondi immaginari. Lissoni lo ha volutamente collocato in posizione solitaria, ed esso si staglia, elegante, nella sua misteriosa bellezza, contro la parete di tela bianca. Se ci si sofferma ad ammirarne l’ornato, lo sguardo sale su per le erte scale effigiate sui frontalini dei cassetti della sua base, sormontati da improbabili volte ogivali, fino a giungere al secondo ordine di un chiostro riprodotto sulla superficie della ribalta, su cui si aprono archeggiature a tutto sesto sorrette da colonne binate, in una incongruenza spaziale che ci rimanda al mondo di Escher. Corona il tutto il corpo magro di un rettangolo svettante in forma di facciata di palazzo rinascimentale, la cui trama bugnata è contrappuntata da finestre e da vistosi marcapiani. Una volta aperte le ante di questa snella alzata, l’interno del mobile rivela la sorpresa del precisissimo disegno di una navata basilicale corredata di matroneo sorretto da colonne corinzie ed abside surrealisticamente ritmata dalla medesima trama bugnato/finestre della facciata. Lo illumina un neon nascosto in invisibili interstizi. Il pavimento in prospettiva di questo interno basilicale, poi, insieme alla precisione delle altre scene, non documentano soltanto l’abilità disegnativa di Piero Fornasetti, ma anche il suo originale sentimento del classico così in sintonia con quello di Gio Ponti, maestro di tutti i maestri.

Nel primo interludio, sotto il titolo Camera Lucida. L’oggetto e la sua immagine, vengono presentate al pubblico le foto di oggetti di design diventati dei must, realizzate da insigni fotografi, leader in questa disciplina, quali lo studio Ballo&Ballo (leggi qui su Doppiozero), Gabriele Basilico, Santi Caleca, Giovanni Gastel, Serge Libiszewski e Oliviero Toscani.
Superatolo, si approda nel terzo capitolo (o stanza) dedicato a
Prassi/Teoria/Prassi. Le tre M: Munari, Mari, Mendini. Si tratta dei più importanti designer/teorici nel panorama del design italiano (sebbene non sia in M c’è da aggiungere Ugo La Pietra). Di essi, infatti, insieme ai loro oggetti, sono imprescindibili i testi, quelli di Bruno Munari fondamentali per il côté creativo (Fantasia, Artista e Designer, Arte come mestiere, La scoperta del quadrato, del triangolo, del cerchio, etc.); quelli di Enzo Mari (leggi qui su Doppiozero) imprescindibili per la profezia sull’auto-progettazione; quelli di Mendini (leggi qui su Doppiozero) poi, di profonda riflessione sull’intera estetica del design e sull’affrancamento della decorazione, del cromatismo acceso, del banale, del kitsch e della assoluta libertà creativa dai severi dettami propugnati dal Movimento Moderno.
Di Mari e Munari sono esposti alcuni oggetti realizzati per Danese, tra cui la lampada Falkland di Munari (leggi qui su Doppiozero) che, esposta nei principali musei del mondo, è tra le icone del design italiano più amate dal grande pubblico, così come lo è il suo autore.
Di Alessandro Mendini nella mostra dell’ADI si può poi ammirare da molto vicino la mitica Poltrona di Proust (leggi qui su Doppiozero), un oggetto di frontiera, sul crinale del kitsch, al limite del sublime, essendosi il visitatore già imbattuto, pochi metri prima, nella sua Valigia per l’ultimo viaggio, rigorosamente in marmo di Carrara, dinamicamente tombale, e nel suo tavolino Ondoso (1979) simile alla tessera di un puzzle tridimensionale e fuori scala.
Nel capitolo 5, dell’immenso Joe Colombo, geniale sperimentatore di forme e di materiali (leggi qui su Doppiozero), sono esposte la poltrona Tube chair (1969, la prima poltrona componibile della storia del design. Rivoluzionaria e innovativa è generata da quattro cilindri di diametri diversi che, variamente combinati tra loro e trattenuti da ganci amovibili, le consentono di assumere diverse fogge trasformandola da semplice poltrona, in chaise longue e persino in dormeuse) e la lampada Acrilica, realizzata da Joe insieme a suo fratello Gianni nel 1964. Il materiale acrilico era già stato adottato da circa un decennio dal settore dell'illuminazione, però in fogli sottili, Joe e Gianni lo impiegarono invece in questa lampada curvandone un foglio dall’elevato spessore, in modo tale che la luce di una lampadina fluorescente contenuta all'interno della sua base in acciaio, in virtù delle proprietà di conduzione del materiale, risalisse lungo il corpo trasparente e venisse emessa dalla parte superiore, facendone un oggetto evergreen nel mondo del design.
All'universo pop appartiene poi la Poltrona Sacco di Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro (leggi qui su Doppiozero) la poltrona più morbida, più rivoluzionaria ed anticonformista che sia mai stata creata, anzi, un’anti-poltrona, “destrutturata e auto-gestibile”, provocatoria e innovativa, espressione degli ideali di libertà e di creatività che hanno animato il sessantotto, l’anno in cui è nata.

Molti degli oggetti in mostra hanno vinto il Compasso d’Oro.
Per non togliere al visitatore il piacere della sorpresa, mi fermerei qui, annunciando soltanto alcuni degli incontri che farà nel prosieguo della visita con le opere di design di Michael Anastassiades; di Andrea Anastasio; di Ron Arad; degli Archizoom; di Gae Aulenti; di Luciano Baldessari; di Luigi Caccia Dominioni; di Stefano Casciani; di Achille e Pier Giacomo Castiglioni; di Ceretti, Dossier e Rosso; di Antonio Citterio; di Riccardo Dalisi; di Michele De Lucchi; di Guido Drocco; di Martino Gamper; di Ugo La Pietra; di Piero Lissoni; di Carlo Mollino; di Paola Navone; di Gaetano Pesce; di Aldo Rossi; della SAD (Società Artisti e Designer); di Gino Sarfatti; di Ettore Sottsass; di George Sowden; di Studio 65; di Superstudio; di Patricia Urquiola; di Nanda Vigo, di Marco Zanuso e di altri.
Vorrei concludere con la dicitura che compare nell’ultima stanza della mostra, dedicata al collezionismo low cost, in cui sono esposti, tra l’altro, alcuni orologi swatch, molti bellissimi vasi e la collezione di tazzine Illy caffè, tutti firmati da illustri designer.
“Se state per vedere, o avete già visto, questa esposizione dovete sapere, o avrete capito, che si tratta di una mostra palindroma: cioè visitabile, leggibile in un senso o nell'altro, come certi antichi testi, ROMA AMOR, o il più ermetico IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI
(In giro andremo di notte e ci consumeremo nel fuoco). Ovvero la fine è un inizio, e l'inizio una fine, perché l’idea di un'unione, di un incontro o di una semplice dialettica tra arte e design, non è nuova: risale almeno al Bauhaus e più indietro ancora al Futurismo e perfino all'Art Nouveau e alle Arts and Crafts, ma continua attraverso due secoli fino ad oggi, nel paesaggio italiano degli oggetti con ‘il design come arte concettuale’, come scrive in catalogo la direttrice della GNAM(C) Renata Cristina Mazzantini. […]
Anche se la mostra analizza 110 anni di lavoro di artisti e designer, un tempo così lungo può passare in pochi minuti, in una sequenza accelerata di opere, idee, tecniche e progetti che hanno tutti voluto esprimere un’eguale simpatia per quello che delle nostre vite possibili possono raccontarci i manufatti.
Siano essi una poltrona, un tessuto, una lampada, una caffettiera, una scultura, un quadro o un vaso da fiori importa relativamente, più importante su tutto è capire e parlare la lingua delle cose, come tanti autori qui presentati dimostrano di sapere fare molto bene”.
