Foucault legge Nietzsche

5 Dicembre 2025

Nietzsche raccoglie lezioni, conferenze e appunti che testimoniano l’intenso lavoro svolto a più riprese da Foucault sul pensiero di Nietzsche. Il testo, edito l’anno scorso presso Gallimard, oggi viene pubblicato in italiano da Feltrinelli, grazie alla traduzione di Deborah Borca. Forse non si può nemmeno parlare di un “incontro”, piuttosto di un corpo a corpo: una marcatura a uomo. All’anagrafe l’uomo risponde al nome di Friedrich Nietzsche, ma – come direbbe Gottfried Benn – in realtà si tratta di uno dei più fulgidi eventi della storia dello spirito.

In queste pagine Foucault ci mostra come “marcarlo stretto”. Lo vediamo letteralmente all’opera nella compilazione dei suoi appunti: prende una frase di Nietzsche, la smembra in più frammenti, di ciascuno elenca magari tre o quattro significati possibili. Non per sceglierne uno e scartarne altri, ma proprio per mostrarne la connessione. I quesiti si moltiplicano a ogni passaggio: è un interrogare costante, instaurando collegamenti ed effettuando rimandi continui tra le sue opere fondamentali. Ciascun “pezzo di ragionamento” è scandito in paragrafi: ognuno presenta un titolo e un piccolo sunto iniziale degli argomenti, con tanto di riferimenti testuali precisi; poi c’è lo sviluppo, scandito attraverso sottoparagrafi, punti e sottopunti. E poi sempre – o quasi – una sezione conclusiva, che non serve tanto a raccogliere i risultati, quanto a rilanciarli verso nuove linee di sviluppo.

Insomma, un viaggio che si snoda tra senso storico e uso della genealogia, indagini minuziose del rapporto tra inizio e origine, analisi dei nessi che si instaurano tra conoscenza, verità e desiderio. La nozione di senso storico e dunque il significato di genealogia dominano, in particolare, la prima parte di questo volume, di cui vorremmo offrire uno spaccato – riportando, sostanzialmente alla lettera, alcuni passaggi foucaultiani.

I. Si parte da Hegel e da un intrigante chiasmo con Schopenhauer. Per Hegel la totalizzazione della storia può anche appartenere al crepuscolo, ma non alla senilità: l’interiorizzazione che tutto rammemora non annuncia la morte imminente, ma lascia intravedere un radioso futuro perenne. All’opposto in Schopenhauer: la storia forse appartiene all’ordine della senilità e della morte, ma non a quello della totalità. Comunque sia, noi potremmo annoverare ancora entrambi sotto il segno di Edipo, “eroe tardivo, guerriero ferito, re torturato che ritorna tra le ombre mentre ha negli occhi ricordi che presto svaniranno”. Qui la storia equivale a “memoria”, vale a dire oblio sistematico della singolarità e della cesura da cui si parla.

E sorge Nietzsche! Sotto il segno di Prometeo: non compimento, ma nuovo inizio; non sera, ma aurora; non ricordo, ma promessa di lotte. Torna la singolarità e soprattutto la fenditura da cui si prende voce: comincia a risuonare il senso storico. Liberare la storia da una metafisica della memoria, “cioè dall’accesso alla totalità dell’essere”. Passi sulla “non totalizzabilità del reale” che al lettore di Foucault rammenteranno, inevitabilmente, le meravigliose pagine sull’ordine economico smithiano nel corso dedicato alla nascita della biopolitica.

Non si tratta di ricercare l’identità, di stabilire continuità, ma di ricercare rotture, violenze, appropriazioni e travestimenti. Non restaurare o ripristinare su uno sfondo originario un’unità perduta o minacciata. Noi non interroghiamo più la forma o il contenuto della scienza storica, bensì la volontà di sapere – dunque non la scienza come entità, ma gli scienziati come volontà singolare, come individualità storica.

Il nostro “oggetto” non sarà l’essenziale della struttura conoscitiva mediante cui si articola l’indagine scientifica, quanto piuttosto l’irregolarità del desiderio che la investe: solo restando quanto più prossimo possibile alla fenditura che lo ha fatto nascere, il senso storico potrà mantenere aperta la scissione che lo ha generato – senza mirare a raggiungere l’universale della conoscenza o a cancellare la singolarità dell’istante nel quale si è originato. Anzi, qui la parola stessa “oggetto” – al pari del suo correlato, il “soggetto” – risulta del tutto fuori luogo: una semplificazione, un’illusione.

II. In quest’ottica la genealogia è una meticolosa distruzione di ciò che siamo, anzi “un sapere meticoloso che protegge il senso storico da ogni tentazione verso il sovrastorico”, escludendo ogni eternizzazione nella scienza. Non esiste un soggetto universale, né tantomeno una storia universale. La nascita è produzione di una differenza: all’interno di questa frattura compaiono elementi – giudizi? – come “bene e male”, “errore e verità”, “buono e cattivo”, “puro e impuro”.

Come si può pensare di ricostruire la grande totalità del tempo – ancora al modo di Hegel – sotto forma di autocoscienza, presenza, intelletto, ragione, spirito? Tutte operazioni che cancellerebbero la singolarità individuale, la personalità dello storico, negando la prospettiva che egli stesso acquisisce – pensando di arrivare ai fatti, all’oggettività assoluta, e dunque di essere finalmente giunti alla fine dei tempi, sull’altura da cui giudicare tutti gli altri “tempi”, tutte le altre epoche.

Tutti questi “danni” hanno una radice comune nel voler cancellare il discontinuo. In definitiva, tutti questi danni provocati dall’atteggiamento storico nei confronti della vita dipendono dalla volontà di sottrarsi al Werden, al divenire.

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Partendo dall’incipit di Verità e menzogna in senso extramorale, Foucault conclude come nelle cose non si trovi nulla che sia destinato a essere posseduto dalla conoscenza. “Le cose non sono fatte per essere viste e conosciute: non rivolgono verso di noi un volto intelligibile che ci guarderebbe e attenderebbe che il nostro sguardo lo incroci” … anche se per millenni, dopo Anassagora, abbiamo creduto che da un lato vi fossero le cose e che dall’alto l’intelletto fosse il loro specchio trascendentale.

Dobbiamo ancora sbarazzarci dell’intelletto, e di tutto ciò che ha a che fare con legge e finalità. Dobbiamo ancora sbarazzarci dell’ombra di Dio: “se conosciamo le cose, non le conosciamo mai per come sono, ma in quanto hanno a che fare con i nostri istinti, le nostre scelte, i nostri desideri, le nostre violenze”. La conoscenza dipende, a sua volta, da una serie di istinti primordiali: dall’istinto di caccia, dal trionfo dello sguardo.

III. Ma allora su che cosa poggerà il suo sapere, la sua analisi, la sua critica? Il suo “sorgere” non si fonda sulla rete delle cause, ma emerge dal gioco delle forze: si delinea così un’epistemologia dell’aleatorio, dal momento che il divenire non si totalizza mai e nessuna necessità logica lo può imbrigliare. Citando un frammento di La volontà di potenza, si potrebbe dire che la scienza prepara una sovrana inscienza, il sentimento che un “conoscere” non si dia affatto.

È possibile conoscere solo partendo da un’illusione, colta perfettamente da Nietzsche: “che la verità è il bene e che bisogna cercare la verità” – un postulato morale, che sta alla base di tutta la metafisica occidentale. Ma perché, chiede Foucault, si è voluta la verità? “Per far credere che la conoscenza non rientra nell’ordine dell’istinto, della forza, della violenza e del corpo. Per far credere che la conoscenza può essere aperta a tutti, ai deboli, ai degenerati, agli schiavi, ai malati. Per democratizzare la conoscenza”. Insomma, ci siamo figurati l’esistenza di “un altro mondo, più solido e insieme più giusto; un mondo in cui le ingiustizie e le disuguaglianze del mondo sensibile saranno compensate”.

Non c’è la conoscenza, non c’è un modello, non c’è nemmeno la cosa: l’intelligenza umana non imita la cosa come se si stesse ricordando di un  antico spettacolo divino. Nessuna reminiscenza. Anzi, le cose non hanno proprio un significato nascosto, là dentro, un significato che si tratterebbe di scovare chissà dove e di decifrare mediante la Stele di Rosetta della scienza.

Si tratta di fare un passo ulteriore dentro quella nebbia che chiamiamo nichilismo europeo: ancora auspichiamo di poter preservare l’oggettività della conoscenza, quella dello studioso – che magari non crede più all’anima, all’eternità, o all’aldilà, ma che è ancora convinto di poter assumere uno sguardo neutro, imparziale, “giusto”, assolutamente freddo. Ecco il passo che invece Foucault, grazie a Nietzsche, è in grado di indicarci: utilizzare contro di sé tutti i cattivi istinti della conoscenza per distruggere lo specchio dell’oggettività e la neutralità dello sguardo. “In particolare tutti i nefandi procedimenti della confessione e dell’inquisizione” – aspetti che sarebbero stati appunto oggetto di particolare attenzione in testi come Sorvegliare e punire, ma anche nei corsi dedicati al governo dei viventi. Sono appunti particolari, questi appena usciti, che aiuterebbero non poco chi volesse intraprendere una ricerca dal titolo “Genealogia di Foucault”.

Dunque, un nichilismo da giocare contro l’oggetto, ma anche contro il soggetto, contro l’io – persino contro quello “santo immacolato” dello studioso. A questo “punto di vista giusto e vero” bisogna sostituire “il gioco indefinito di un’apparenza decentrata”. Ormai dobbiamo riconoscere che “la conoscenza non è tanto radicata nella metafisica della verità, quanto nell’antica passione per il sacrificio umano”. In tal senso quella nietzscheana non si pone come una nuova teoria della conoscenza, bensì come l’abbattimento, la rimozione definitiva della possibilità stessa di una teoria. Verità, conoscenza, oggetti … tutti effetti dell’instaurazione di un dominio.

IV. Ma qui allora sorge la vera aporia, attorno alla posizione paradossale che Nietzsche si trova ad assumere. Per un verso Nietzsche ci mostra la necessità di superare ogni teoria. Per l’altro, però, quando Nietzsche parla di tutto questo, pretende di restare al di fuori della conoscenza stessa, al di fuori della scienza: le giudica, ne evidenzia i limiti. “Eppure, se egli si tenesse davvero all’esterno, come potrebbe parlare? Quale potrebbe essere questo strano discorso che non sarebbe né una forma di conoscenza, né una parola di verità”? Detto in breve: “Da dove parla Nietzsche? Qual è il suo discorso? Su che cosa si sostiene? A che titolo può parlare?”. Forse, ammette Foucault, questa non è la domanda giusta. Anzi, la vera critica alla conoscenza non deve permettere che il luogo da cui essa prende le mosse resti incrollabile e solido: “al contrario, essa deve inquietare il terreno su cui poggia. Per essere precisi, è necessario che essa non possa avere fondamento”.

E con questo ci siamo liberati – o per lo meno speriamo – di tutti coloro che si rivolgono a Nietzsche con le stesse obiezioni che Platone poneva a Protagora, o che la filosofia classica poneva agli scettici. “… ma questo che tu dici a sua volta pretende di essere vero oppure no?”. Dopo aver posto questa domanda, il metafisico di turno aspetta, convinto di essere come il ragno che ha teso la sua trappola per una mosca ingenua, la quale finirà per ammettere che voleva proprio dire quello che ha detto. E allora il metafisico pregusta già di poterla divorare, avendola condita col principio di non contraddizione. “Niente affatto!” griderebbe Nietzsche: “io non sono affatto sicuro che ciò che sto dicendo sia fondato: non pretendo che le mie parole abbiano fondamento”.

Vorremmo insistere, a tal proposito, su un’ultima figura che anima questo laboratorio foucaultiano: il ritardo della verità. “Verità” non è nulla di oggettivo, anzi reca in sé una storia: nasce dall’istinto, dalla caccia, dalla conoscenza intesa come pulsione che va al di là dell’apparenza, che “malvagiamente la distrugge”, strappandole i segreti. E ancora non basta: solo all’interno di quell’immane apparato di semplificazione, di quella continua traduzione del simile in identico, di questa perenne fabbricazione del falso (Verfälschung), può balenare qualcosa come la verità. La conoscenza è l’errore che rende possibile la verità.

Non finisce qui il cammino tra le nebbie del nichilismo: nel testo di Foucault troverete tutta una disamina del marchio, del segno, da cui emerge in seguito ciò che si chiama soggetto, e poi ancora il rapporto tra senso storico e indebolimento della cultura; l’ascetismo della verità e l’indifferenza come cifra della nostra epoca.

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