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Guido Rey fotografo in vetta

4 Giugno 2025

Certo la montagna sembra facile conoscerla, almeno cognitivamente, data la sua forma definita: quasi un miracolo semantico l’immediatezza con cui la sua immagine trovi subito pace nella parola che la nomina. La montagna è, a tutti gli effetti, un organismo dei più complessi a cui l’uomo si è accostato, nei secoli, sul piano non soltanto fisico, ma anche intellettivo, emotivo, mitologico e quindi letterario.

La montagna è il timore che crea e, allo stesso tempo, la sfida che lancia all’uomo: l’invito a farsi scoprire convive col rischio e la fatica a cui sottopone i suoi amanti, o figli; la certezza di poter trovare sempre una strada per arrivare in cima – e quindi conoscerla, diciamo anche possederla – deve coesistere con una fiducia salda delle proprie possibilità fisiche e mentali di riuscire nell’impresa.

Che la montagna abbia da subito rappresentato un soggetto di rilievo nella storia della fotografia è forse cosa nota: la fotogeologia fu quell’applicazione del mezzo fotografico prestata allo studio del paesaggio montano, alla ricerca appunto geologica. Il fotografo fu da subito, quindi, un esploratore, uno scienziato, un conquistatore. Ma la fotografia fu anche il metodo più immediato per trasferire su un supporto fisico il frutto fedele di quello che si è visto salendo verso la cima: un modo di riportare a valle la gloria delle forme rocciose, del loro dialogo col tempo meteorologico e quindi col cielo; in una parola rendere accessibili ad altri occhi le proprie visioni alpinistiche, il luogo in cui per un certo tempo si è deciso di fuggire.

Presso il Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” di Torino si celebra Guido Rey (Torino, 1861-1935), a distanza di quasi quarant'anni dall’ultima mostra che il museo gli dedicò. Come recita il titolo della mostra curata da Mattia Gargano e Veronica Lisino, che hanno avuto modo di lavorare al vasto materiale fotografico d’archivio, Rey fu “Un amateur tra alpinismo, fotografia e letteratura”.

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Autore non identificato, Guido Rey con la macchina fotografica, 1890 ca., negativo originale su pellicola alla gelatina bromuro d’argento.Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino.

Fu Vittorio Sella, cugino di Guido nonché noto maestro della fotografia di montagna ed esperto stampatore, a guidare Rey fin da piccolo alla pratica della scrittura, oltre che delle tecniche di stampa e di ripresa. Rey fu un libero pensatore della fotografia e delle arti a cui si rivolse – anche il disegno fu presente nel novero dei suoi interessi – come lo sono stati i grandi amatori della nostra fruttuosa tradizione fotografica.

Rey saliva, e raccontava: la montagna, a differenza dello sguardo di Sella, non si manifestava come enorme forma naturale in cui l’uomo compariva decisamente ridimensionato, annichilito quasi dall’impeto sublime delle altezze. In Rey la roccia basta a sé stessa e l’uomo non per forza deve comparire per argomentarne la grandezza o il fascino. La roccia è nella luce che le sbatte contro, nelle nubi che la coprono, nelle pennellate date sulla stampa per evidenziare un cielo altrimenti perso nelle tinte opache delle stampe al collodio o al bromuro d’argento. Merito della mostra, infatti, è quello di dare spazio quasi unicamente ai vintage, ovvero alle stampe d’epoca su cui mise mano Rey direttamente. Cosa rara questa, che ci ricorda non soltanto dei toni delle vere opere del tempo, ma anche del loro formato obbligatoriamente più minuto. L’esposizione prende forma in uno spazio scelto appositamente per creare un dialogo costante con le sfumature della personalità poliedrica di Guido Rey, che nel 1914 diede alle stampe “Alpinismo acrobatico”, inserendosi a pieno titolo anche nel panorama letterario italiano del suo tempo.

Sentiamo nelle narici la polvere della terra su cui Rey ha sistemato basso il cavalletto per prendere l’immagine, in cui il terreno che aspetta i nostri passi è contrapposto ai monti che si vedono sullo sfondo per intero. Salire è faticoso, l’attrezzatura ingombra e pesa, è una fuga questa che necessita di strumenti pesanti e un certo fiato. 

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Guido Rey, Grandes Jorasses, 1905 ca., stampa alla celloidina.Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino.

Petrarca, salendo il Monte Ventoso, scoprì nella fatica dell’ascensione un percorso simile a quello altrettanto travagliato della propria formazione spirituale, e profetica arrivò la voce di Sant’Agostino, aperto in una pagina a caso delle Confessioni, una volta giunto in cima: “Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi.” Forse allora la scrittura, nel percorso di Guido Rey, si può dire aver rappresentato un anello di congiunzione tra l’esperienza fisica ed esterna con quella più intima, un riordino urgente del proprio vissuto sulla roccia, come anche racconta Gargano nell’ampio e accurato catalogo di mostra.

Una persona emerge nelle quattro sezioni dell’esposizione: un fotografo, sì, e letterato, e abile alpinista, ma amico anche dei nomi illustri del panorama culturale del suo tempo, in primis Ugo De Amicis, figlio di Edmondo, e dell’artista Edoardo Rubino.

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Autore non identificato, Ugo De Amicis, Guido Rey, Edmondo De Amicis ed Edoardo Rubino al Giomein, davanti al Grand Hôtel du Mont Cervin, agosto 1905, negativo originale su pellicola alla gelatina bromuro d’argento. Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino.

In contatto con la realtà fotografica internazionale, scrisse ad Alfred Stieglitz, padre del movimento pittorialista e della battaglia per rivendicare la fotografia come arte in toto, riuscendo ad ottenere una pubblicazione delle proprie immagini sulla leggendaria rivista “Camera Work”.

Parallelo al discorso alpinistico, infatti, esiste un Guido Rey votato alla fotografia in posa, alle accurate ricostruzioni di scene prese a prestito da una specifica cultura pittorica di tradizione fiamminga, rivolta a Vermeer, Alma Tadema, Gabriel Metsu, allestite nella sua villa nella collina torinese.

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Guido Rey, Scena romana, 1895, stampa al platino, virata all’oro. Dall’archivio di Pia Rey.

Rey dunque fuggiva ancora in un passato ricreato; in scene – anticipatrici in qualche modo di quella che oggi chiamiamo staged photography – che parlavano della mitologia dell’antico, della composizione magistrale dei maestri. Comunicande, scene antico romane, interni fiamminghi, sono il popolo e gli ambienti che Rey vedeva e faceva rivivere nella dovizia dei dettagli, nell’imitazione, quasi, delle pose dei dipinti.

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Guido Rey, Interno fiammingo, settembre 1904, stampa alla celloidina, con riquadro a matita. Dall’archivio di Pia Rey.

Bello questo modo di Rey di vedere l’altro, e l’altrove in cui fuggire, sia nella figura della montagna – quasi un nemico con cui intrattenere una vera e propria “lotta”, come si ricorda in mostra – sia nella vita posata di molti soggetti femminili delle sue scene ispirate alla pittura, in cui compaiono, seppur rari, dei nudi: lo stupore estetico che nasce con lo sforzo alpinistico gioca dunque insieme al controllo delle pose in cui il corpo arriva ad essere l’emblema di uno sforzo tutto contemplativo.

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Il pittore e la modella nell’atelier, ante 1904, stampe alla gelatina bromuro d’argento. Dall’archivio di Pia Rey.

Il fascio di luce che inonda la modella nello studio del pittore scopriamo non avere affatto un significato diverso da quello che illumina i massi, o la punta del Cervino; né lo sguardo cambia. I corpi del passato e le rocce sono due stanze di uno stesso luogo di rifugio, che anche per questo motivo non possono essere disgiunti o separati nettamente.

Anche nelle teche ritroviamo i segni del percorso di Guido Rey: nei diari, nelle lettere, nei libri che ha scritto o ricevuto in dono. Tra questi, uno riporta nel titolo la semplice dicitura “Photographie en montagne”, fotografia in montagna, che ci ricorda quanto la fotografia nasca all’interno dello spazio montano, e non ne sia il semplice ritratto come di persona separata da sé. La montagna è un luogo dentro cui il fotografo sta e si muove, divenendone a tutti gli effetti parte integrante, immerso com’è nel dialogo costante con l’ambiente.

Luogo in cui abita il divino – secondo il politeismo ellenico – o luogo in cui il divino parla all’uomo – nel credo veterotestamentario – i colossi rocciosi ricoprono da sempre quello speciale ruolo di elemento naturale eletto come varco per il mistero. L’uomo può giungere in vetta, certamente: ma da lassù non vedere altro che il paesaggio fattosi a un tempo minuscolo e vastissimo, e nessun dio.

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Ugo De Amicis [attr.] Guido Rey, guardando il Cervino dalla nuova capanna degli Jumeaux, post 1910, stampa alla gelatina bromuro d’argento. Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino.

Così il paesaggio dominato da quelle altezze, e la vetta stessa, sono diventati il culmine di un desiderio tutto umano, che ci parla dello scontro non soltanto con gli ardui sentieri rocciosi, ma forse più ancora coi limiti della proporzione umana, la sua piccola misura. Guido Rey pare accorgersi della propria misura in più occasioni, quando fallisce la salita in vetta sul Cervino, quando resta a letto per più di due anni per un disturbo di salute. L’uomo è piccolo, di fianco alla montagna, e vive nel passato, nelle scene pittorialiste allestite da Rey: ed è con la fotografia che può realizzarsi quel processo che rende la montagna una miniatura, e il tempo qualcosa che può tornare quasi uguale di fronte a noi. Come tornano le visioni avute sui sentieri, di cui gli occhi sono “pieni”, come Rey stesso scrive, e sempre nell’immagine trova spazio il riaffaccio dell’impressione avuta. In “Alpinismo acrobatico” Rey scriverà infatti: “[...] apparirà talora alla mente un’immagine misteriosa, possente e dolcissima, fatta di tutte le vette che ho conosciuto, ed io cercherò ansiosamente di rintracciare e discernere una ad una le fattezze incantevoli che mi furono famigliari [...] e vedrò con gioia balzar fuori purissimo, accanto alla fronte ridente della prima amante, il profilo austero dell’ultima amica.”

Perché non vedere in quei profili una fanciulla in qualche modo simile alle comunicande, alle donne romane, alle nobili vestite a giorno? Un’unica vetta che è un’unica figura anche umana; qualcuno comunque da guardare, in cui fuggire, a cui chiedere di rimanere ferma in un gesto, o a cui non doverlo chiedere affatto.

Guido Rey. Un amateur tra alpinismo, fotografia e letteratura
A cura di Mattia Gargano e Veronica Lisino
Dal 18 aprile al 19 ottobre 2025 il Museomontagna di Torino

In copertina, Guido Rey, Le Torri del Vajolet, luglio 1910, stampa alla celloidina. Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna – CAI Torino.

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