L’India delle acque e dei volti

19 Novembre 2025

Confrontarsi con un grande maestro della fotografia è una sfida ardua, e potrebbe spaventare creare un dialogo con chi ha una visione già matura e consolidata: per fortuna non è sempre così, e ponti se ne possono ancora costruire. Gianni Berengo Gardin (1930-2025), scomparso neanche due mesi fa, tra le decine dei suoi reportage e libri pubblicati, aveva dedicato anche uno spazio, nella sua lunga esistenza, all’India. All’“India dei villaggi”, visitati alla fine degli anni Settanta sull’onda dell’amore per le parole di Gandhi imparate da ragazzo, quelle che indicavano la vera essenza dell’India non nelle metropoli, nei grandi centri, ma nelle piccole comunità rurali.

India dei villaggi usciva il primo gennaio 1980 per le edizioni Fotoselex su progetto e con i testi di Antonio Monroy. Oggi Contrasto riprende e amplia quel primo discorso, visione antica, per affidare al reporter Lorenzo Zelaschi (1985) la prosecuzione della storia iniziata dal maestro. Così nasce India dei villaggi. 1980-2025, di G. Berengo Gardin e L. Zelaschi pubblicato a luglio di quest’anno e aperto da una lunga intervista che l’editore Roberto Koch conduce con entrambi gli autori, permettendo la rievocazione di aneddoti, pensieri, confessioni legati ai viaggi che essi, in tempi così diversi, hanno compiuto nelle stesse zone dell’India.

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Venditori ambulanti di erbe medicamentose, Madhya Pradesh, 1977-’78  © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia Milano/Contrasto Roma.

Lorenzo Zelaschi vi aveva infatti trascorso tredici mesi, nel 2017, scoprendo in quel periodo il desiderio di ritrarre quella vasta terra e ricordando, al contempo, la scoperta fatta in gioventù del libro di Berengo Gardin, che al tempo possedeva il padre. Ci tornò nel 2023 per realizzare il progetto che vediamo, articolando il duetto che inizia con la lunga sequenza delle immagini di Berengo Gardin. L’incipit del fotografo ligure è dedicato all’India delle acque: è il primo elemento di tutto il libro e che torna a più riprese. Il lago in cui si purifica il giovane, l’acqua torrenziale delle piogge monsoniche, l’acqua dei fiumi che esonda su dighe che nessuno vuole, l’acqua dei tuffi ai piedi dei templi in ombra. La zona è quella dei villaggi del Madhya Pradesh. L’India dei villaggi, nel 1977, è un paese artigiano, ancora assolutamente distante dall’invasione tecnologica che conoscerà Lorenzo più di quarant’anni dopo; le scene che incontriamo, nei grigi così belli e pastosi dei negativi, sono quelle dei vasai nelle loro botteghe, dei costruttori di tetti di paglia, dei lottatori per adorare Ganesh, avvolti dal pubblico in festa. Questi villaggi non contano più di duecento persone, a volte scendono sotto il centinaio di abitanti.

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Pipliya Kumar, Madhya Pradesh, 2023-2024 © zelaschiphotography.com.

Inevitabile, allora, che il primo elemento che si incontra nella sezione dedicata al presente dell’India, quella che ha fotografato Zelaschi, non sia legato alla natura, ma sia un avverbio, “ormai”. Reiterata quasi a ogni pagina, questa parola descrive la grande metamorfosi che hanno subito i villaggi dell’India – significativa questa inversione del titolo che viene da fare parlando di questa parte del libro – inglobati ora nel centro commerciale metropolitano più grande e vicino, Indore. Ciò che vediamo a un primo sguardo, però, non pare così diverso da ciò che fotografò Berengo Gardin: nella patinatura diversa del bianco e nero dovuta a un naturale mutamento della tecnica fotografica, vediamo ancora i lottatori di kushti della tradizione indiana, questa volta senza pubblico; vediamo i templi e le terre vaste, quasi gli stessi sguardi. Ma compaiono cose nuove, allo stesso tempo: i negozi di abiti maschili all’occidentale – giacca, gilet, papillon – giovani giocatori di cricket, telefoni cellulari, cartelli di giovani manifestanti scritti in inglese, sale giochi, droni. Il tentacolo della tecnica si è insinuato, come ovunque nel mondo o quasi, fin nel cuore delle campagne, in quei villaggi minuscoli in cui, ai primi viaggi di Berengo Gardin, possedevano un’unica radio che custodiva il saggio della comunità.

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Durante la raccolta del grano, Madhya Pradesh, 1977-’78   © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia Milano/Contrasto Roma.

Il passaggio tra la prima parte del libro e la seconda avviene in una continuità evidente, dopotutto: a prescindere dagli elementi della modernità tecnica che vediamo nelle scene quotidiane, molto pare essere rimasto immobile, in una resistenza che parla dei propri millenni più che di una presunta preparazione al futuro.

Roberto Koch nell’intervista fa emergere il parallelismo, il dialogo effettivo che esiste nello stile formale dei due reporter: non tanto un’imitazione da parte del giovane nei confronti del maestro, ma un’effettiva corrispondenza di sguardo, che fa dell’intero percorso del libro un viaggio nel tempo senza urti. Chiaramente, e per fortuna, non esiste un rapporto fra i due di perfetta sovrapponibilità: l’autonomia dello sguardo è una dote fondamentale per il fotografo, ma allo stesso tempo non è difficile giocare a scambiare i ruoli dei due autori, e vedere Berengo Gardin fotografare nel 2023, e Zelaschi nel 1977, prima della sua nascita.

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Nipaniya, villaggio ormai inglobato nel nucleo cittadino di Indore, Madhya Pradesh, 2023-2024 © zelaschiphotography.com.

L’approccio documentario, attento allo spazio e alle circostanze ambientali, l’uomo sempre raccontato e mai ritratto – alla stasi entrambi preferiscono il flusso degli eventi, delegando soltanto il mezzo fotografico per fermarlo.

In effetti, è utile il momento in cui Berengo Gardin, nell’intervista iniziale, traccia un collegamento con un suo lavoro precedente che in parte richiama l’operazione svolta con l’India e Zelaschi: quando tornò a Luzzara sulle orme delle fotografie di Paul Strand confluite nel celebre libro Un Paese realizzato con Cesare Zavattini, è possibile che il fotografo ligure sentisse lo stesso timore reverenziale che Zelaschi ha provato per Berengo Gardin. Allo stesso tempo, la lucidità con cui egli descrive la differenza, sostanziale, tra il proprio stile di reportage e quello più lirico di Strand, ci dice delle infinite possibilità di un luogo a essere ripercorso, ripreso dai lembi della sua storia e fatto proseguire, potenzialmente, all’infinito.

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Un uomo si allontana dal villaggio col suo carro per recarsi nei campi, Madhya Pradesh, 1977-’78    © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia Milano/Contrasto Roma.

L’atto immaginativo che operazioni di questo tipo mettono in moto è potente. Essere invitati a ricostruire, mentalmente, le fasi temporali che mancano al racconto ci pone nelle vesti di scenografi e sceneggiatori di una storia che non conosciamo, e ci ritroviamo, proprio come nei film, a vedere lo stesso personaggio che abbiamo visto ragazzo nelle prime scene ricomparire d’un tratto da adulto. Ma le età dell’India, di questa India dei villaggi, paiono destinate ad assomigliarsi (ricordo qualche film di Satyajit Ray, degli anni Cinquanta e Sessanta, che mostrano un’India rurale simile a quella di Berengo Gardin). Sono quelle parti del corpo che mutano in maniera meno evidente, almeno per uno sguardo esterno: zone di pelle – mi viene in mente, in particolare, quella della pianta del piede – cui nessuno bada davvero e che, pur invecchiando (crescendo, andando avanti nella storia), richiedono maggiore attenzione per rendersi conto della differenza coi suoi stati precedenti.

Il bianco e il nero aiutano in questo senso: uniformano ciò che i colori, che esistono proprio grazie alle loro evidenti diversità, renderebbero meno continuativo – per pensare all’instabilità del nostro concetto di colore si pensi che quelli di alcune bandiere nazionali cambiano pantone di riferimento negli anni. Questo significa che nell’andatura monocromatica degli scatti di Berengo Gardin e Zelaschi siamo portati automaticamente alla sintesi visiva della storia dell’India dei villaggi, senza essere sviati da elementi cromatici superflui.

Sempre nell’intervista condotta da Roberto Koch, alla domanda: “gli indiani accennavano mai al fatto di essere il paese più popoloso al mondo?” e alla risposta, di Lorenzo: “Direi di no”, emerge l’altra costante nell’approccio – volontario o involontario – dei due fotografi al popolo dei villaggi del Madhya Pradesh. Sembra che i due autori abbiano voluto scandagliare la grande popolosità dell’India individuo a individuo. Pochissime le immagini corali, sovraffollate: la strada più battuta è quella del vuoto, o dell’ambiente, attorno alle singole persone, estratte dalla moltitudine e inserite in un contesto proprio, che in quel momento pare ritagliato e costruito apposta per loro.

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Un bambino con il suo giocattolo, Madhya Pradesh, 1977-’78   © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia Milano/Contrasto Roma.

Se è l’acqua ad aprire il libro, ricordandoci da subito che per quanto vasta la terra indiana è una penisola soggetta ai moti marini e atmosferici, le persone che vediamo ci ricordano di una moltitudine che può celarsi dietro i singoli volti dei suoi abitanti.

Vediamo pochissimi orizzonti in queste immagini: è più facile perdersi in scene urbane e quotidiane più che nella vastità della terra, e tutto per inganno sembra ridursi alle uniche cose che ci compaiono di fronte (prerogativa unica della fotografia): vedere da vicino le persone e le loro attività, dagli operai dell’acciaieria ai ragazzi che praticano yoga il mattino presto al tempio, dai muratori a riposo alle iconografie dei templi in restauro.

L’India dei villaggi, nei suoi orizzonti ristretti dallo svolgersi delle sue attività umane, vive, come ogni luogo, nella continuità del suo svolgimento umano. La fotografia non può che prenderne dei pezzi, provando a farne una storia comprensibile. Una delle immagini più forti credo sia quella della donna seduta su un letto fluttuante, tenuto da quattro corde al soffitto per non farlo toccare terra, in modo da renderlo irraggiungibile dai serpenti (quelli che si vedono, appunto, nei film di Ray): tra i tanti possibili, Berengo Gardin sceglie il punto di vista del serpente. Ma non ha un valore negativo questo aspetto. La fotografia, per quanto sia un’attività predatoria, non può mordere o avvelenare. Per l’essere umano, questa così rasoterra pare più la prospettiva del suddito, dell’umile: quasi quella dell’angelo inchinato di un’annunciazione di fronte alla donna seduta sul letto sospeso. Questa pare l’attitudine dei due reporter, a distanza di quasi mezzo secolo, di fronte alla stessa terra.

In copertina, Nomadi che lavorano occasionalmente in un cantiere edile, Rangwasa, Madhya Pradesh, 2023-2024 © zelaschiphotography.com.

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