Chiharu Shiota e i tremori dell'anima

23 Novembre 2025

L’essere umano, noi tutti, è una stanza e l’universo insieme: un contenitore con un vissuto collegato a ogni altro elemento, invisibilmente, a comporre un’unica unità. Attraverso i suoi lavori, che lei stessa definisce “filosofie del momento”, Chiharu Shiota (Osaka, 1972), rende visibile “l’esistenza nell’assenza”, per usare ancora le sue parole. Al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino, per la mostra The Soul Trembles a cura di Mami Kataoka, direttrice del Mori Art Museum e Davide Quadrio, direttore del MAO, alcune delle più note e importanti installazioni dell’artista giapponese sono riunite in un allestimento immersivo e articolato che ripercorre la produzione di Shiota anche attraverso disegni, fotografie, video e interventi site specific dedicati alla collezione permanente del museo. La mostra, in anteprima nazionale, arriva per la prima volta in assoluto in un museo di arte asiatica.

Con Shiota entriamo nel regno del sentito, ovvero di ciò che, non detto e indicibile, può prendere forma soltanto come metafora visiva. Con l’uso di fili, intrecciati a formare fitte reti inestricabili, vediamo espresso uno dei concetti fondanti del pensiero dell’artista: la connessione effettiva tra tutte le cose, la dimensione unica che lega noi e i sogni di un altro, l’oggetto della vita passata di un estraneo e la nostra stessa memoria.

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Shiota Chiharu, Accumulation - Searching for the Destination, 2014/2019, Suitcase, motor and red ropeDimensions variable, Installation view: Shiota Chiharu: The Soul Trembles, Mori Art Museum, Tokyo, 2019 Photo: Kioku Keizo, Photo courtesy: Mori Art Museum, Tokyo.

In Accumulation Searching for the Destination (2014-19), decine di valigie sono disposte a creare una passerella ondeggiante che arriva fino al soffitto. Valigie trovate, in costante movimento – leggere scosse le agitano – appese a una fitta selva di fili rossi. Il rosso, spiega l’artista in un’intervista, è il colore destinato a rappresentare la connessione; il nero la profondità dell’universo, il bianco è a un tempo la morte e la purezza. Le valigie non sono che oggetti appartenuti a qualcun altro, memorie personali prese e fatte risignificare: da solo, questo gesto traccia un collegamento tra ciò che è stato e ciò che è adesso, tra ciò che era di qualcuno e ciò che ora appartiene a tutti. L’ascesa che compiono le valigie e ci sovrasta – quasi la scala vista in sogno da Giacobbe, che unisce terra e cielo e percorsa dagli angeli – è un flusso che potrebbe continuare all’infinito: da qui capiamo che i luoghi dell’arte, le stanze cui solitamente viene racchiusa, sono un contenitore necessario quanto il corpo fisico per contenere ciò che altrimenti sarebbe ininterrotto. Shiota, quando si racconta, parla del passaggio che l’ha vista transitare dalla pittura all’installazione, in un processo talvolta molto critico e doloroso. Accostare segni e colori su una tela non poteva bastarle, pur essendo ciò che più amava fin da bambina, perché l’opera così prodotta sarebbe per sempre rimasta separata da sé. L’artista ha sviluppato invece un linguaggio che le permette di espandere l’opera includendo sé stessa e lo spettatore. Emblematico di questa transizione è il lavoro che vede Shiota dipingere sé stessa, divenendo un quadro a sua volta. Becoming painting, opera del 1994, vede Shiota inglobata nella tela che ospita i suoi gesti pittorici. Vediamo Shiota travolta dal rosso che aveva usato su teli bianchi che la avvolgono: usando uno smalto, il colore le rimase addosso per mesi (possiamo immaginare che le penetrò sottopelle e nei polmoni – una fusione organica pressoché totale). Farsi dipinto, nel caso di Shiota, non significa mettere al centro il corpo come mezzo di espressione, bensì effettuare, sulla propria pelle, quel processo di continuità tra sé e l’opera, farsi un tutt’uno, connettersi, eliminare le distanze. Il corpo, infatti, trova spazio nel pensiero di Shiota nella misura in cui viene inteso come traccia di una presenza non manifesta, perché svanita o impalpabile. L’abito, infatti, è simbolo di questo concetto: non fa che evocare il corpo che dovrebbe abitarlo, facendosi suo vuoto testimone. In Reflection of Space and Time (2018), sospeso in una rete di fili neri, il vestito bianco e il suo riflesso specchiato sono sospesi a mezz’aria in quella che può apparire una gabbia, lo spazio chiuso e inabitabile per i fili intrecciati. Lo spazio, amplificato nel suo riflesso, cerca comunque un’espansione, una continuità verso dimensioni incamminabili. Il tempo, questo corpo invisibile che abita il mondo, si trova a sua volta sdoppiato, per accumulo, nello specchio. Vedersi comparire nella superficie specchiante non significa soltanto vedere la propria forma duplice, ma vedersi, nello stesso tempo, vivere due volte, con prospettive diverse, lo stesso momento. Attorno a un vestito che non parla.

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Shiota Chiharu, Reflection of Space and Time 2018, White dress, mirror, metal frame, Alcantara black thread280 × 300 × 400 cm
Commissioned by Alcantara S.p.A Installation view: Shiota Chiharu: The Soul Trembles, Mori Art Museum, Tokyo, 2019 Photo: SunhiMang, Photo courtesy: Mori Art Museum, Tokyo

Se vogliamo, proprio lo specchio ci mette di fronte a una condizione ambigua: sapersi identici e separati a un tempo. La connessione autentica può avvenire solo senza divisioni interne, ci dice Shiota. Un concetto espresso chiaramente in molte sue opere su carta, in cui si vede una figura umana, piccolissima, unita attraverso i fili a dimensioni amorfe molto più grandi di essa, quasi mondi o energie, che la sovrastano. L’idea della congiunzione attraverso elementi sottili e lineari – a volte possono ricordare il modo in cui venivano anticamente rappresentati i raggi solari, fitte linee a sfiorare le figure – nella pratica di Shiota, sembra voler evocare – far apparire nella mente – tutto ciò che comunque resta più grande per le sue pur enormi installazioni. Uncertain Journey (201619), scheletri di barche in ferro e fiotti di fili rossi che da esse partono a mascherare il soffitto in fitti nuvoli, richiamando soggetti che già disegnava durante l’infanzia, è un’installazione che parla a un tempo di ciò che vediamo e ciò che resta proprio troppo esteso per i sensi o il pensiero. Se si pensa all’installazione monumentale di Rebecca Horn (di cui Shiota fu allieva alla Berlin University of the Arts) Turm der Namenlosen (Torre dei senza nome) realizzata nel 1994, in cui scale a pioli si intrecciano fino al soffitto e violini suonano da soli a intervalli regolari, l’ascensione cui gli elementi aspirano è differente dalle opere di Shiota. Al di là del diverso discorso in cui le opere di Horn sono nate – ricordo anche Inferno (1993-2024), letti in ferro accavallati a formare un monumento altissimo e drammatico – nell’artista tedesca gli elementi si toccano per accumulo, come macerie, dando vita a una giustapposizione caotica e a una semantica tragica. In Shiota gli oggetti che chiama in causa collaborano, invece, per ricreare interi scenari dentro cui l’osservatore può entrare. Anche non conoscendo il lavoro dell’artista giapponese, infatti, si sa sempre dove si è: ogni processo “intellettualizzante” viene deposto in favore della messa in scena del sogno, del ricordo, di quelle dimensioni con cui talvolta più facilmente possiamo familiarizzare e fare nostre. “Se disegno le mie idee, loro svaniscono. Le idee diventano da sole opera d’arte [...] ma io non disegno niente, colleziono soltanto le idee.” Shiota in qualche modo decostruisce la parola che potremmo usare per descrivere ciò che ci mostra, o che useremmo noi stessi per raccontare la nostra storia: le idee, trattenute sottopelle nei suoi lavori, servono come le cellule a formare gli organi, elementi più grandi e complessi.

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Shiota Chiharu, Uncertain Journey 2016/2019
Metal frame, red wool Dimensions variableInstallation view: Shiota Chiharu: The Soul Trembles, Mori Art Museum, Tokyo, 2019 Photo: Sunhi Mang, Photo courtesy: Mori Art Museum, Tokyo.
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Shiota Chiharu, Uncertain Journey 2016/2019, Metal frame, red wool Dimensions variableInstallation view: Shiota Chiharu: The Soul Trembles, Mori Art Museum, Tokyo, 2019 Photo: Sunhi Mang, Photo courtesy: Mori Art Museum, Tokyo.

O più piccoli. Connecting Small Memories (2019) è un mondo miniaturizzato in cui ogni oggetto si presenta in una piccola rete di fili rossi – “Quando voglio raccontare una storia, uso il rosso”, dice sempre Shiota – a ribadire ancora le strade molteplici che ogni cosa porta con sé; sta a noi capire se i fili ingabbiano o connettono.

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Shiota Chiharu, Connecting Small Memories (detail), 2019, Mixed mediaDimensions variable
Installation view: Shiota Chiharu: The Soul Trembles, Mori Art Museum, Tokyo, 2019 Photo: Sunhi Mang, Photo courtesy: Mori Art Museum, Tokyo.

Riprendendo a memoria una frase di Paul Celan: “non c’è differenza tra una stretta di mano e un poema.” Collegarsi all’altro, combattere la disunione che fa di ogni essere, vivente e non, un soggetto a sé stante dentro il vuoto che lo separa dal resto delle cose, ha una forza e una forma insieme. Per questo la mostra di Shiota può dirsi avere una struttura poematica, nel senso del termine dato da Celan: un lungo discorso unito e comunque teso verso l’unione, continuamente. Stringendo la mano a Shiota siamo portati a entrare in una dimensione che scopriamo nostra; l’atto antico del saluto, della connessione, è in fin dei conti il gesto con cui tessiamo i fili che ci legano alle cose del mondo. Proprio quando sente tutti i propri punti di ancoraggio “l’anima trema”, come dice il titolo della mostra; quando sa che può tendere a un’espansione in(de)finita. In questo senso trova spazio anche la riflessione sulla morte, nell’opera di Shiota. Un andare verso un luogo in cui il corpo, le idee, i pensieri si dissolvono e alla fine del quale “ci possono essere delle risposte”. Shiota dice di creare i suoi lavori “cercando queste risposte”, legate al divenire cui ci sottopone il trapasso. Quasi a dirci che la connessione totale, ed esistente, tra il singolo e il tutto, comporta un collegamento anche con la dimensione della morte, quel grande sogno che Shiota vede nei suoi fili bianchi – bianchi “come l’inizio, come gli dèi, come la neve” – e che ha iniziato a utilizzare solo nella sua fase di ricerca più recente. In Where Are We Going? (2017-19), installazione che apre la mostra, il tema dell’imbarcazione torna in strutture fluttuanti, la cui sostanza è una rete bianca in mezzo a una pioggia di fili neri. Così noi, guardando all’insù come la volpe nelle favole di La Fontaine, vediamo galleggiare questo mondo a cui sappiamo di appartenere già, che ci chiede però qualcosa a cui sapremo rispondere soltanto una volta raggiunto davvero.

Chiharu Shiota, The Soul Trembles, a cura di Mami Kataoka e Davide Quadrio
con Anna Musini e Francesca Filisetti, assistenti curatrici
MAO Museo d’Arte Orientale
22 ottobre 2025 – 28 giugno 2026
Mostra organizzata dal MAO Museo d’Arte Orientale in collaborazione con il Mori Art Museum di Tokyo.

In copertina, Shiota Chiharu, Where Are We Going? 2017/2019, White wool, wire, rope
Dimensions variable, Installation view: Shiota Chiharu: The Soul Trembles, Mori Art Museum, Tokyo, 2019 Photo: Kioku Keizo, Photo courtesy: Mori Art Museum, Tokyo.

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