Goethe Institut Turin / I video dell’IS. E se provassimo ad usarli?

21 Marzo 2017

 

Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo?

Doppiozero riprende qui un testo di Pietro Montani per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Molte cose sono state scritte e dette, a proposito dei filmati delle decapitazioni diffusi in rete dalle maestranze – i tecnici e i boia – dell’autoproclamato Islamic State. Per lo più cose giuste e condivisibili. Talvolta acute e illuminanti. Talvolta utili a capire meglio i fatti e a capire meglio le nostre reazioni, spesso disorientate e confuse. Altre cose, invece, sono state fatte. Nella sostanza due: la rimozione di molti filmati dai principali canali di diffusione e alcune azioni di guerra, forse da collegare alla rimozione stessa secondo la modalità nota in psicoanalisi come acting out. In realtà la parola rimozione nel contesto appena descritto è usata in un senso diverso da quello che ha in psicoanalisi. Rimuovere un video da youtube non significa affatto averlo rimosso dalla nostra coscienza. E le azioni di guerra, naturalmente, non sono in tutti i sensi degli acting out, anche se gli somigliano parecchio.

 

Ma è stata fatta anche un’altra cosa, benché in un modo che meriterebbe di essere compreso meglio e di essere praticato con più spregiudicatezza. Nel parlare e nello scrivere di quei filmati è spesso accaduto – e qui su Doppiozero è accaduto pressoché di regola – che i testi contenessero immagini e link. Cioè che si trattasse di ipertesti, a carattere prevalentemente informativo, ma non solo. Ora, il punto per me notevole è il seguente: che per quanto minimale fosse la loro ricontestualizzazione (il loro rimontaggio), è accaduto a quelle immagini di decapitazioni – a quelle rimosse e a quelle che si possono ancora vedere – che il nuovo ambiente ipertestuale che le ospitava si sia rivelato come l’occasione di una sensibile modifica di statuto. Come ce lo dobbiamo spiegare? In primo luogo così: quelle immagini hanno cambiato il loro statuto perché ci sono state presentate nel contesto di un processo più o meno articolato di elaborazione.

 

Ciò significa che per le decapitazioni filmate dell’IS c’è stata anche una terza modalità del fare, da aggiungere alle due indicate prima – la rimozione e la guerra – non senza averne apprezzato, insieme alla somiglianza – che consiste nel requisito della attività, contrapposto alla passività dell’essere spettatori – la differenza radicale: e cioè che in questo terzo caso l’attività non si risolve nel rimuovere, o nel muovere guerra, ma, appunto, nell’articolare un processo di elaborazione. Simile a quei processi, in genere lunghi e faticosi, grazie ai quali affrontiamo il lutto e il dolore, l’incomprensibile e l’insopportabile.

 

Sto enfatizzando l’importanza del contesto di enunciazione delle immagini a scapito dei contenuti enunciati? Sì, ma solo in parte e con alcune importanti precisazioni. Mi spiego. Le immagini delle decapitazioni dell’IS ci sono giunte sempre montate in un contesto (un telegiornale, un reportage, un articolo). A me per esempio la prima decapitazione dell’estate scorsa è arrivata in una paginata on line di un grande quotidiano italiano nel quale l’immagine di James Foley e del suo boia era montata accanto a una foto più piccola, riquadrata nella colonna di destra, quella destinata in genere alle notizie leggere e futili, nella quale si veniva a sapere, e se ne vedeva qualcosa, di una rissa in un certo locale notturno alla moda dovuta a non so bene quale incidente provocato da un’attrice, o una modella, con i tacchi troppo alti. Di fronte a questa composizione di immagini, che non ho nessuna voglia di stigmatizzare o di commentare, io mi sono chiesto se fosse per caso concepibile un altro tipo di montaggio, un altro tipo di contestualizzazione, che invece di annichilire (alla lettera) la foto di Foley e del suo boia, come accadeva lì, fosse capace di restituirle qualcosa di quella terribilità e di quell’orrore da cui non smettiamo di difenderci (anche qui, ora) come meglio possiamo. E la mia risposta, rapida e tutt’altro che accademica, è stata che sì, è possibile. Meglio: che è possibile, qui e ora, secondo modalità di articolazione elaborativa che solo 20 anni fa non erano praticabili e forse neppure prevedibili.

 

 

Noi oggi ci troviamo infatti, per la prima volta nella storia dell’umanità, di fronte a questa grande sfida, che è anche una grande opportunità, per cui è accaduto che chiunque abbia le competenze tecniche minimali per farlo (cioè più o meno ciascuno di noi) possa rimontarsi quella pagina in un modo diverso, o possa rimontare la sequenza della decapitazione – ma anche, perché no?, le immagini della sua rimozione – in un altro testo, o ipertesto, o time line o storify o quel che sia. E che possa farlo attivando processi di appropriazione emotiva e cognitiva di cui cominciamo appena, e alla lontana, ad intuire le enormi potenzialità (e molto meno, temo, il rischio di dissiparle per miopia o per timidezza).

 

Inutile dire che il web straborda di immagini rimontate e rielaborate. Lo sappiamo tutti. Ce le abbiamo continuamente sotto gli occhi e sotto i polpastrelli. Le commentiamo e ce le scambiamo ogni giorno. Scommetto però che nessuno se l’è sentita di mettere le mani sulle turpi esecuzioni dell’IS al fine di rielaborarle in un altro testo, o ipertesto, da condividere. Per qualche forma di riguardo o di timore. O perché ci è stato insegnato che la morte non si rappresenta. E per cento altre buone ragioni. Ma sono anche pronto a scommettere che nessuno di noi troverebbe scandaloso o inopportuno che a un regista venisse in mente di rimontare quelle immagini in un film o di girare un film al solo scopo di realizzare le condizioni di visibilità, di leggibilità e di autentica compassione che esse reclamano. Com’è stato egregiamente fatto, per esempio, con le fotografie di Abu Ghraib. Che cosa ci impedisce, dunque, di estendere la forza elaborativa e il potere catartico che, ad evidenza, continuiamo ad attribuire alle opere d’arte anche alle più sobrie operazioni tecniche (in fondo arte e tecnica, una volta, si dicevano con la stessa parola) che il web rende oggi pienamente disponibili?

 

Le risposte sono molte e non posso affrontarle qui. Mi limiterò ad alcune considerazioni parziali e non sistematiche, ma meritevoli di attenzione. La prima è che la fase attuale della vita delle immagini nel web segna l’avvio di un processo irreversibile. Sta già accadendo, infatti, anche se non ce ne siamo accorti o ci siamo affrettati a denunciarne i presunti aspetti regressivi, che i nostri processi di apprendimento si vadano spostando dall’ambiente semiotico caratterizzato dal linguaggio articolato e dalla scrittura lineare a un ambiente semiotico sempre più intimamente costituito da immagini. Ma se questo accade con i processi di apprendimento, perché dovremmo escludere che un movimento analogo possa interessare anche i processi di elaborazione che prima ho riferito alla perdita e al dolore, all’orrore e all’incomprensibile?

 

La mia convinzione, con la quale chiudo, è che uno dei requisiti per ottenere questo allargamento – un requisito che ci sorprende in una condizione di penosa indigenza – è l’esportazione dei tratti della linearità e dell’articolazione dall’ambiente semiotico del linguaggio e della scrittura all’ambiente semiotico dell’immagine. Nella storia delle tecnologie della comunicazione umana questo spostamento ha un nome: si chiama montaggio. Ebbene io credo che si stia per inaugurare (o che si possa o che si debba inaugurare) una nuova epoca del montaggio. Un’epoca capace di aprirsi alle sperimentazioni elaborative che tutti noi “prosumers” già in parte stiamo effettuando con le immagini in rete. Un balbettamento, per ora, certo. Ma c’è la concreta possibilità (la chance storica?) che diventi un linguaggio.

 

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