Wanderlust

24 Agosto 2025

Non c'erano automobili, non c'erano biciclette all'epoca dei Romani. Eppure anche il camminante romano antico viveva sotto costante minaccia, e non solo quella di carri, carrozze, lettighe e cavalli.

Orazio, il buon vecchio Quinto Orazio Flacco, se opportunamente interrogato, può fornire utili responsi in materia, perché lui, proprio lui, che ama tanto parlare di sé, forse più di ogni altro poeta dell'antichità, si rappresenta sovente nell'atto di camminare.

Nella satira sesta del primo libro Orazio rivendica la superiorità del suo stile di vita, rispetto a quello di personaggi molto più altolocati di lui, quali senatori o magistrati o semplicemente ricconi, proprio in ragione del fatto che lui è libero di andare dove vuole quando vuole: quacumque libido est, incedo solus. Se ne andava a piedi così, tutto solo, Orazio, per il Circo Massimo, quando gli pareva. Assisteva agli spettacoli dei ciarlatani, degli imbonitori da quattro soldi. Oppure gironzolava per il Foro, che, di sera, diventava la sede delle fallaci profezie degli indovini. Poi se ne ritornava a casa, a consumare una sua parca cena a base di frittelle, porri e ceci. Andava a letto tranquillo, senza l'ansia di doversi alzare presto la mattina successiva. Il giorno dopo usciva, quando il sole era già alto, e se ne andava ancora a zonzo, come capitava: senza impegni, senza obblighi, godendo un ozio perfetto.

Quinto Orazio Flacco.

Vespertinumque pererro/saepe forum, adsisto divinis... post hanc vagor...

I due insigni filologi tedeschi che hanno fornito il commento classico ad Orazio, Adolf Kiessling e Richard Heinze, annotano, a proposito dei due verbi che il poeta usa in questo passo, pererro e vagor, che essi indicano entrambi un movimento non preordinato e senza scopo ("planlos" e "zwecklos"). Quindi abbiamo un poeta che vaga senza meta per entro i meandri e i bassifondi di una megalopoli brulicante, ché tale era la Roma augustea, registrando di striscio ciò che vede e sente.

Non pare di aver letto una descrizione dell'attività del flâneur? Non è Orazio, in questi brani della satira sesta, l'antesignano di Baudelaire? Almeno per questo suo vagabondare metropolitano guidato unicamente dal caso?

Certo, il flâneur è figura principe del Moderno. È tipico, si sa, del secondo Ottocento. Non sembrerebbe aver nulla da spartire con il mondo antico. Orazio e Baudelaire non dovrebbero a rigore aver nulla in comune. Ma qui si apre uno spazio per un'ampia digressione. Quella sul rapporto tra l'antichità e noi, o, comunque, tra antichità e modernità in genere.

C'è un caso esemplare al riguardo: quello di Edipo, del mito di Edipo. Non c'è stato, nella storia recente dell'umanità, un mito antico così onnipresente, così onnipervasivo e ossessivo. Qualunque situazione, della vita, del cinema, della letteratura, del teatro e di tutto il resto, veniva letta alla luce di Edipo, dell'Edipo, del complesso di Edipo. Al punto che certi, esasperati da tale asfissiante invadenza, hanno reagito: si va dal celebre (allora, 1972) Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, un cui capitolo era espressamente indirizzato contro L'imperialismo di Edipo, alla traduzione sofoclea di Sanguineti (1980) nella quale Edipo era reso con Piedone, sia per il fatto che etimologicamente Oidi-pous significa in effetti Piede-gonfio, sia anche perché probabilmente quel burlone di Sanguineti voleva significare la sua insofferenza nei confronti anche solo del nome Edipo: Edipo qua e Edipo là, Edipo di sotto e Edipo di sopra, mai nome fu più abusato. Gli anni in cui comparve quella traduzione erano del resto anche gli anni in cui imperversavano sugli schermi i film di Bud Spencer: Piedone lo sbirro, Piedone d'Egitto, Piedone a Hong Kong...

È noto a tutti che all'origine della fortuna moderna di questo mito greco sta l'opera di Freud.

Ma l'interpretazione freudiana del mito d'Edipo, con il suo strepitoso successo, era davvero lecita? Era fondata? Secondo il grande grecista francese Jean Pierre Vernant no, per nulla: anzi, l'interpretazione di Freud era basata su una petizione di principio bella e buona, su un circolo vizioso in piena regola: una teoria (quella freudiana) elaborata sulla base di casi clinici e sogni di contemporanei viene confermata da un testo drammatico antico (di Sofocle); ma tale testo è in grado di fornire una simile conferma solo se esso stesso viene interpretato in collegamento con quel preciso mondo onirico dei contemporanei, come lo intende la teoria medesima (di Freud, sempre).

Per Vernant l'Edipo re (o Edipo tiranno, secondo la traduzione di Sanguineti) non va spiegato alla luce delle esperienze psichiche di borghesi viennesi del Primo Novecento, bensì tenendo conto del pensiero sociale dell'Atene del V secolo avanti Cristo, con le sue tensioni e contraddizioni. Nello specifico, Vernant legge la tragedia sofoclea in relazione a cerimonie purificatorie, al rituale ateniese del pharmakòs, in cui un "capro espiatorio" umano veniva individuato, mantenuto e poi espulso, al fine di allontanare con lui il male dalla città. Edipo ricalcherebbe questa figura da eliminare per salvare la città minacciata dalla peste. E il fenomeno politico contemporaneo dell'ostracismo – contemporaneo nell'Atene del V secolo a.C. – si presterebbe anch'esso ad essere accostato alla tragedia in questione, fino al punto da trasparirne in filigrana.

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Franco Citti nei panni di Edipo in Edipo re (1967) di Pier Paolo Pasolini.

Per Vernant non si può leggere un testo antico applicandogli arbitrariamente categorie dell'oggi; la psicologia può certo essere una chiave interpretativa, ma dev'essere, sempre secondo Vernant, psicologia storica. Già. Però l'inesauribile carica d'attrazione che hanno i testi antichi per noi risiede anche e soprattutto nella loro attualità, nella loro infinita capacità di prestarsi all'attualizzazione, cioè a parlare proprio di noi, oggi, adesso, qui e ora, o, per dirla in latino, hic et nunc. Se no che li leggeremmo a fare, gli autori antichi? De te fabula narratur, ci ammonisce Orazio. Quei miti lontani, quei testi remoti continuano a parlarci. Ci porgono uno specchio, che non è lo specchio di Narciso, o non solo. Quindi, con buona pace di un eccellente studioso come Vernant, un camminante attuale può vedere in Orazio un prototipo del flâneur, un suo arcaico archetipo. Ma non basta. Imboccata questa strada, divagante e retrocedente, ci si può spingere ancora più in là.

Nel novero dei santi patroni dei camminanti, oltre al flâneur, rientra anche un altro personaggio. Se il flâneur è ottocentesco e parigino, quest'altro è invece di area tedesca e di nascita settecentesca o tardo-settecentesca, è il Wanderer, il viandante che non ha meta. Ma mentre il flâneur si muove nell'ambito cittadino, metropolitano per l'esattezza, il Wanderer incede nella natura, possibilmente in quella non addomesticata, per boschi e vallate incolte e distese selvagge. Comune ai due tipi è, come si è visto, l'assenza di destinazione finale, perché né il Wanderer né il flâneur sanno dove vanno.

Oggi il termine Wanderung, nel tedesco corrente, significa semplicemente "escursione", "passeggiata nella natura" e così via. Ha quindi perso tutto il suo valore originario, la sua pregnanza particolare. Allo stesso modo la parola "prudenza", che designò in passato niente meno che una virtù cardinale, attualmente serve solo ad indicare un comportamento genericamente corretto quando si va in automobile, quale decadenza semantica!

Ma per autori romantici, quali Novalis o Tieck, la parola Wanderung si ammantava di ben altre valenze e risonanze. Nel romanzo di Ludwig Tieck, Le peregrinazioni di Franz Sternbald (Franz Sternbalds Wanderungen), uscito nel 1798, viene descritto il viaggio di un pittore che, partito dalla sua città, Norimberga, per acquisire esperienza del mondo e dell'arte, si perde tuttavia in una serie di percorsi labirintici e insensati fino alla "dissolvenza finale dell'opera, come in una serie di atti mancati", per citare il germanista Collini.

Non diversamente nell'incompiuto Heinrich von Ofterdingen (1799-1801), Novalis tratteggia il percorso di un poeta che dovrebbe essere iniziatico, ma che invece non conclude, non porta a nulla, e non è solo per la morte dell'autore che la seconda parte dell'opera, dal significativo titolo L'adempimento, rimane sospesa. L'Ofterdingen, nelle intenzioni di Novalis, doveva valere come una sorta di Anti-Meister. Cioè si opponeva decisamente all'opera di Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1796). Nel Meister c'è un episodio assai significativo che viene in effetti del tutto ribaltato nell'Ofterdingen. Nel capitolo conclusivo del romanzo goethiano il protagonista scopre che tutto quello che gli era capitato fino ad allora, viaggi, incontri, scherzi del destino, era in realtà preordinato e guidato da un gruppo di persone a lui amiche, la misteriosa Società della Torre, e nel castello di una di queste, Lothario, egli trova un libro che contiene, descritta nei minimi dettagli, la sua vita fino a quel momento. È da un lato una grandiosa mise en abyme, dall'altro è la rivelazione del senso dell'esistenza di Wilhelm, garantita dai signori della Società della Torre.

Anche Heinrich von Ofterdingen, in un punto del romanzo novalisiano (capitolo quinto della prima parte) s'imbatte in un libro, custodito nei recessi d'una caverna sotterranea, e in questo libro, scritto in una lingua per lui misteriosa, il provenzale, riconosce sé stesso e i suoi cari e altre persone da lui incontrate nel cammino, ma le riconosce solo dalle figure che illustrano il testo, non dal testo stesso, che non è in grado di capire. Per tracciare un paragone antico, par quasi di vedere Enea che, di fronte allo scudo di Vulcano, istoriato con gli episodi della storia romana futura, non comprende, non può comprendere, ma si bea di quelle splendide immagini (miratur rerumque ignarus imagine gaudet).

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Novalis.

All' enigmatico libro provenzale, che Heinrich scruta nelle profondità della Terra, manca inoltre la fine. Come a dire che, mentre con il Meister siamo ancora nel dominio del viaggio (in tedesco die Reise), dove c'è un approdo finale e un significato connesso a tutto il percorso svolto, dove insomma si realizza quella fuga dalla vuota e insensata "cronicità" che pare essere, secondo alcuni, proprio la ragione ultima della forma-romanzo, nell'Ofterdingen siamo già in piena Wanderung, nell'erranza priva di fine, ossia senza una fine e, soprattutto, senza un fine. È  un vagare che non conosce redenzione. Bene (o male, dipende dai punti di vista), ma c'è per caso un antecedente antico, anche qui, anche per questo desiderio irrelato d'andare, di partire?

C'è, c'è. È una breve sequenza di undici endecasillabi faleci, oggetto tuttora di studio nei licei italiani. È il celebre carme quarantaseiesimo del Liber di Gaio Valerio Catullo, poeta veronese del primo secolo avanti Cristo. In esso, ai versi sette e otto, si trova espressa la pura gioia dello slancio, la felicità di partire per partire: Iam mens praetrepidans avet vagari/iam laeti studio pedes vigescunt. Ossia, in traduzione approssimativa (come del resto sono tutte le traduzioni da tutte le lingue, specie da quelle antiche): Già la mente è avida d'andare, già i piedi hanno il lieto vigore della voglia.

Il raro verbo avere è imparentato con avidus e con avaritia; il participio praetrepidans è, assicurano i commentatori, una neoformazione catulliana, nella quale il prefisso prae può avere valore o di rafforzativo o di anticipazione: Catullo o è intimamente commosso dalla partenza o ne pregusta già la felicità in anticipo, prima ancora che essa avvenga. Gli studiosi indicano come antecedenti diretti del carme alcuni componimenti del libro decimo dell'Antologia Palatina, tutti dedicati a temi analoghi: viaggi, navigazioni, distacchi.

Secondo chi scrive, per quanto modesto camminante meranese, il modello portante però è un altro. Il mondo, si sa, attendeva con ansia questa rivelazione: diamogliela dunque. Prima bisogna integrare i due versi citati sopra con altri tre precedenti: Linquantur Phrygii, Catulle, campi/Niceaeque ager uber aestuosae;/ad claras Asiae volemus urbes. Traduzione (approssimativa): Lascia, Catullo, i campi di Frigia/ e la fertile pianura della caldissima Nicea;/voliamo alle celebrate città dell'Asia.

Nel prologo delle Baccanti di Euripide parla in prima persona il dio Dioniso. Anche in altre tragedie euripidee parlano divinità che dicono "io"; (Ermes nello Ione, per esempio). Dioniso dice: Le campagne dei Lidi ricche d'oro/ho lasciato e quelle dei Frigi... tutta l'Asia ho percorso, che distende/lungo il mare salato le sue città dalle belle torri... Catullo sembra quindi voler ricalcare il viaggio di Dioniso. Conferma marginale, forse, della sua conversione ai culti bacchici avvenuta in Bitinia.

Sia pure, si dirà, ma, modellato o meno sulle orme di Dioniso, il viaggio di Catullo è un viaggio di ritorno. La sua felicità è quella di chi, dopo tanto, rivedrà la casa, dormirà di nuovo nel suo letto, secondo le espressioni che si ritrovano nell'altrettanto celebre (e liceale) carme trentuno (larem ad nostrum/desideratoque acquiescimus lecto!). L'obiezione potrebbe continuare: è semmai il viaggio di Odisseo, il nostos, il ritorno, appunto, a ispirare Catullo. Che c'entrano i Romantici con la loro Wanderung senza meta?

Eppure. Eppure. Alcuni commentatori usano per il carme 46 la parola tedesca Wanderlust (desiderio di vagare), che è la stessa che i germanisti usano per uno dei testi più rappresentativi della Wanderung romantica, cioè la Storia di un fannullone di Joseph von Eichendorff. Così viene reso in italiano l'originale Aus dem Leben eines Taugenichts (letteralmente: Dalla vita di un buono a nulla o anche perdigiorno o fallito e così via), uscito nel 1826. È la storia di un giovanotto forse austriaco che, stanco di sentirsi dare del "voglia-di-fare-saltami-addosso" da suo padre e anche da altri, decide di punto in bianco d'andarsene in giro per il vasto mondo, per il puro gusto di andare, in giro per il vasto mondo, e nulla più. Nell'elenco dei suoi vagabondaggi ilari trova posto pure l'Italia, giudicata "paese di matti e strani tipi" e quindi molto amata e, in Italia, una tappa è naturalmente Roma. Una Roma del tutto inedita, posta tra monti meravigliosi e scogliere scoscese sul mare turchino, ricca di porte d'oro e torri scintillanti, sede d'angeli canori.

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Joseph von Eichendorff.

Roma in riva al mare non deve stupire più di tanto. Se si pensa all'altrettanto improbabile "Boemia sul mare" del Racconto d'inverno di Shakespeare, da cui poi originerà, quasi per contagio di anatopismi, la poesia di Ingeborg Bachmann La Boemia sta sul mare, forse la sua migliore, dove la poetessa austriaca si trasforma in una boema, una vagante, una nullatenente, proprio come l'eroe di Eichendorff. Tutto si tiene. Anche Catullo con il buonanulla romantico. Perché se è vero che la Wanderlust del Romano antico è connessa al ritorno, anche quella del personaggio eichendorffiano lo è. Infatti ritorna al paesello da cui era partito. A sancire questa circolarità perfetta c'è il verso dello zigolo. L'uccellino accompagnò con il suo canto la partenza e saluta ora il ritorno del viandante fannullone. Al termine di questo viaggio in tondo, la morale della favola è che "tutto è bello, tutto è bello" e dunque allontanarsi da casa è inutile, dato che anche quel luogo partecipa dell'universale bellezza ovunque sparsa. L'impulso irresistibile a vagare pare annullarsi. La Wanderlust si esaurisce in un moto che si chiude su se stesso. In Catullo come nel Perdigiorno.

Ma non è solo il Wanderer che pare andare incontro a questo destino dal sapore nichilistico. Anche il flâneur non sembra da meno. Basta leggere il poemetto Le voyage (Il viaggio) in cui nel 1859 Charles Baudelaire condensa il suo sapere. È un sapere amaro. Il viaggiatore di Baudelaire ha visto, nel corso delle sue peregrinazioni, idoli strani, palazzi cesellati, la gloria del sole sopra il mare violetto, paesaggi grandiosi e città accarezzate dai tramonti più languidi. Ma ha anche visto, senza averlo cercato, il noioso spettacolo del peccato originale: il boia che gode, il martire che geme, la donna schiava della sua bellezza e l'uomo, schiavo d'una schiava, ruscello nella fogna. Ha visto il veleno del potere e il popolo innamorato dei suoi aguzzini velenosi. Quello del globo intero è un bollettino eterno. Il Male, benché apparentemente metamorfico, è, alla fine, sempre uguale a se stesso. La vicenda del mondo è ripetizione infinita.

Le voyage si rivela negazione convinta del viaggio. Viaggiare è completamente inutile. Lo spettacolo dell'esistenza si replica dappertutto negli stessi termini. Un posto è specchio dell'altro. Partire è vano, meglio, molto meglio fantasticare sulle carte geografiche o immaginare sfogliando le guide. Dà più soddisfazione. L'unico vero viaggio, quello che vale sul serio la pena di compiere, è l'ultimo: Morte, vecchio capitano, leviamo l'ancora! grida il poeta.

Ma è ormai tempo di abbandonare i funebri inviti del poeta moderno e di tornare al suo omologo antico.

In copertina: Édouard Manet, Fuga di Rochefort, 1880-81.

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