Chi cancella cosa?

2 Giugno 2022

Cancellare è una brutta parola? In sé direi di no: si possono cancellare degli errori, dei cattivi pensieri, dei sogni che ci assillano. Censurare, invece, è considerata universalmente una brutta parola. Che significa una brutta cosa: sebbene si possa obiettare che la censura ha talvolta un’utilità più liberatoria che repressiva, permettendo di dire cose che altrimenti resterebbero sommerse. La censura cancella qualcosa, ma in tal modo ci difende da ciò che non si può dire esplicitamente, se non correndo il rischio di distruggerci. Così almeno ci aveva raccontato il vecchio Freud, il cui scheletro adesso se ne sta rinchiuso nell’armadio con le cuffiette delle nonne. 

 

Intendiamoci, nessuno qui pensa di far l’elogio della censura propriamente detta, tra le più stupide e brutali invenzioni dell’umanità. Soltanto di attirare l’attenzione su quanto sia delicato il sistema di difesa e compensazione sul quale si basano tutte le nostre società e culture. In relazione soprattutto a quello che chiamiamo uno stigma, ovverosia un marchio infamante e denigratorio.

 

Se qualcuno mi venisse un giorno a dire che una parola, per molto tempo usata tranquillamente e poi bandita in quanto stigma, per lui è così bella da non volerci rinunciare, io gli direi: «Benissimo». E gli consiglierei di addormentarsi ripetendosela tutte le volte che vuole, al posto di contare le pecore. Ma a casa sua, non in pubblico: in pubblico gli consiglierei invece di censurarsi. Non per ipocrisia o per proteggersi dalla rivolta puritana della folla dei bacchettoni del nuovo secolo. Piuttosto per una questione di rispetto: rispetto di ciò che ha significato per moltissime persone, per moltissimo tempo, in moltissimi luoghi uno stigma. Rispetto verso ferite storiche ulceranti, cariche di una violenza tale da macchiare a fondo le nostre società, portando all’inferno perfino la lingua.

 

 

Perché la lingua non è certo pura, si sporca nel corso del tempo. E una volta sporcata, cercare di lavare quella macchia non vuol dire essere puritani o bigotti. Vuol dire sforzarsi di censurare e cancellare il suo veicolo di trasmissione, interrompere la sua catena di circolazione. Per dire no allo stigma. Si può contestare il fatto che funzioni o meno: ma non che questo tipo di censura sia un mezzo di difesa e compensazione del tutto plausibile e anzi necessario in qualsiasi società che si dica civile.

 

Da diversi anni, quando inizio a sentire qualcuno che attacca la solita tiritera contro il politicamente corretto, mi alzo e me ne vado. Che sia di destra o di sinistra, non mi interessa: credo che si tratti di una pratica igienica che mi ha salvato la vita. O per lo meno mi ha evitato danni irreparabili alla bile. Lo stesso mi succede più recentemente quando iniziano a disquisire sulla cosiddetta cancel culture, il suo oscurantismo e la sua pericolosità. Come già hanno fatto prima di loro esimi pensatori del livello di Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Donald Trump o Viktor Orbán.

 

Non perché non ci sia una parte di ragione nel condannare certi estremismi legati a fenomeni talmente vasti da comportare per forza un rischio di deriva. Ridicola o davvero allarmante che sia. Ma perché quella parte di ragione acceca sul bersaglio, che è mobile, scottante e complesso, risvegliando fantasmi intellettuali antichi e reazionari. Tutto il discorso più o meno sotterraneo che gli intellettuali di sinistra hanno allegramente condotto per anni e anni contro il politically correct, ridicolizzandolo ed estremizzandolo al fine di solleticare il loro vittimismo persecutorio e il loro immenso narcisismo di gruppo, ci sta costando un prezzo altissimo. Si deve a loro l’indulgenza, machista e intimamente retriva, con cui si sorrideva quando il ministro in canottiera Umberto Bossi ci sbatteva in faccia per esempio la parola “frocio”. In un abbraccio ferale con il discorso della destra che la polemica attuale sulla cosiddetta cancel culture non fa che portare a uno stadio finale: ecco qual è la vera maledizione della cancel culture. 

 

Perché l’interdizione pubblica di certe parole che ancora bruciano, per quanto hanno contribuito a cancellare, umiliare e sottomettere, ci dovrebbe fare onore. Non orrore. E a chi s’indigna per tali e tante perversioni dei tempi moderni, bisognerebbe domandare: chi ha cancellato cosa nel corso dei secoli? Rievocando la celebre parabola della pagliuzza e della trave.

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