Molotov-Ribbentrop: a volte ritornano

18 Luglio 2022

Il 22 giugno 1941, giorno precedente l'anniversario in cui, 129 anni prima, l'esercito di Napoleone aveva attraversato il fiume Niemen in direzione di Mosca, tra le 3:15 e le 3:45 del mattino, sulla linea che andava dal mar Baltico al mar Nero, iniziò un intenso fuoco di sbarramento da parte dell'artiglieria tedesca (il caso volle che l'ordine di apertura del fuoco arrivasse pochi minuti dopo il passaggio del confine da parte dell'ultimo convoglio di vagoni previsto per quella data, comprendente materie prime per la produzione industriale fornite dall'Unione Sovietica in ottemperanza agli accordi del patto Molotov-Ribbentrop) e alle 4:45 fu dato l'ordine di avanzare ai reparti corazzati.

Iniziava così la guerra tra Urss e Germania nazista. Per molti quella scena sembrava rimettere le cose al loro posto, comunque a sanare l’anomalia rappresentata dal patto tedesco-sovietico siglato a Mosca il 23 agosto 1939 nella sorpresa generale.
Quell’atto, tuttavia, come ricostruisce con attenzione Claudia Weber nel suo Il patto (Einaudi), era meno sorprendente di quanto possa sembrare, tanto da far pensare che la vera anomalia alla fine sia stata proprio l’invasione. Quel patto invece, sostiene documentariamente e fondatamente Claudia Weber, era coerente con le linee essenziali di una visione politica per entrambe le parti.

Per comprenderlo occorre ricostruire (come viene fatto sinteticamente, ma efficacemente nel primo capitolo di questo suo libro) il profilo dei rapporti tra Germania e Urss nel tempo lungo tra le due guerre, per poi provare a descrivere che cosa quel profilo, spesso «accantonato» perché annichilito dalla scena sorprendente del 23 agosto 1939 e poi misinterpretato alla luce del «ritorno a casa», del 22 giugno 1941, implicasse.
Dunque il primo fatto complessivo è che a differenza di quanto si ritiene, l’ascesa al potere di Hitler in Germania (30 gennaio 1933) pur ideologicamente costruita sulla «guerra al bolscevismo» non coincide con la rottura dei rapporti tra Germania e Urss. Anzi, l’esatto opposto.
Questo primo capitolo, è molto importante ed è strutturale per fondare tutta la ricostruzione che Weber propone. Per questo merita molta attenzione.

Nel corso degli anni ’30 (da questo punto di vista non bisogna lasciarsi ingannare dagli schieramenti nel corso della guerra civile spagnola che li vede contrapposti: Hitler in appoggio a Franco, Stalin in appoggio al fronte repubblicano) le relazioni economiche tra i due regimi si intensificano. Relazioni che non si limitano allo scambio economico ma includono una collaborazione militare tra esercito tedesco e Armata Rossa. Questa reazione ha una battuta d’arresto tra 1935 e 1937.
Sono gli anni in cui la politica estera di Mosca è guidata da Maksim Litvinov (cadrà all’inizio del 1939, sostituito da Molotov e quello sarà uno dei segni che portano alla svolta del patto del 23 agosto) è volta a costruire un sistema di salvaguardia antifascista e antinazista e dunque a pensare di costruire un asse che accerchi la Germania.
Questo profilo, apparentemente coerente con gli schieramenti in corso nella guerra civile spagnola (anche se non è da dimenticare che Gran Bretagna e Francia anziché aiutare il fronte repubblicano del governo legittimo, preferirono assumere una posizione di neutralità) è in parte smentito (anche in conseguenza o appoggiandosi su quella posizione di neutralità) dalla decisione di Stalin nel gennaio 1937 di far approvare un documento dall’ufficio politico del partito di intraprendere colloqui politici con la Germania nazista prevedendo, nel caso da parte tedesca se ne fosse manifestato il desiderio, di tenerli segreti.
Il momento è significativo: si è appena svolto (agosto 1936) il primo dei tre grandi processi contro il gruppo dirigente anti staliniano che si chiuderà nel marzo 1938 con l’eliminazione di Bucharin. Soprattutto, almeno pubblicamente sul piano internazionale, l’Urss sembra impegnata su un solo terreno: la sicurezza collettiva, che vuol dire mantenimento della geografia politica uscita dalla Prima guerra mondiale. La Germania nazista, è bene ricordarlo, l’ha già violata nel marzo 1936 con la rimilitarizzazione della Renania.

Il quadro, tuttavia, è ancora agitato. Quando il 30 settembre 1938 a Monaco Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania acconsentono che la parte occidentale della Cecoslovacchia venga assorbita dalla Germania nazista, l’Urss capisce di correre il rischio dell’isolamento, ma anche è ormai chiaro che quella strategia di sicurezza collettiva è ormai in rapido declino. In quelle settimane ha luogo l’uscita di scena di Litvinov. Stalin allora riapre il dialogo (peraltro mai chiuso) proprio con la Germania nazista, di nuovo recuperando quel principio che tra gli anni ’20 e la prima metà degli anni ’30 aveva consentito le relazioni di amicizia tra i due paesi: riscrivere la carta geografica dell’Europa uscita dalla Prima guerra mondiale. In altre parole: mettere in crisi l’asse Gran Bretagna – Francia che da quei trattati era uscito dominante e che le due potenze pensano che, al più, dopo l’accordo di Monaco, possa essere riscritta spingendo la Germania verso Est.
L’idea è che la guerra a ovest si possa evitare e vada evitata. La Cecoslovacchia, a Monaco, è il ticket per dare a questo disegno «gambe per camminare». Così almeno credono non solo Arthur Chamberlain, primo ministro britannico, e Édouard Daladier, primo ministro francese, ma anche le molte componenti politiche nazionaliste di destra e pacifiste di sinistra che plaudono alla svendita di Monaco (un quadro psicologico, emozionale, di quelle settimane di settembre ancora vivido è Cronaca di settembre, che Paul Nizan intellettuale comunista, scrive nelle settimane successive).

Per chi volesse è ancora scenograficamente efficace e ficcante la pagina di chiusura che descrive il panico di Daladier, un attimo prima dell’apertura dello sportello del suo aereo a Orly di ritorno dalla conferenza, e la cecità della folla che, quando lo sportello dell’aereo si apre, plaude alla resa, convinta che la guerra sia stata evitata per sempre. (Ricordo che 21 mesi esatti dopo quella scena, il 23 giugno 1940, Adolf Hitler passeggia felice sotto la Tour Eiffel con una Francia ormai azzerata).
Lo stessa fiducia della folla plaudente a Orly l’1 ottobre 1938 Chamberlain la ripete l’1 gennaio 1939 nel suo messaggio tradizionale di fine anno alla nazione britannica e ancora si ripete nel maggio 1939 (due mesi prima, il 15 marzo 1939, le truppe della Germania nazista erano entrate a Praga decretando la cancellazione della Repubblica cecoslovacca), quando la Germania nazista chiede l’inclusione dentro i confini del Reich nazista del territorio che divide la Germania dalla città di Danzica e l’ex socialista Marcel Déat, uno degli esponenti della destra – ma in questo facendosi voce pubblica di un sentimento diffuso e profondo nella Francia della III Repubblica – sul giornale di centro «l'Oeuvre», si chiede se valga la pena «morire per Danzica». Vien da chiedersi se quella domanda non sia la stessa che si sono fatti in molti in queste settimane. Sostituite Danzica con qualunque città dell’Ucraina, ma anche, direi, prima ancora, con Srebrenica, con Sarajevo, con Aleppo. Cambia molto la scena?

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Che cosa indica quel disinteresse? Claudia Weber attraverso l’analisi del biennio del patto (tra 1939 e 1941) tra Germania nazista di Hitler e Unione Sovietica di Stalin ci richiama più volte al fatto che quel patto non era il segno del tradimento di un’etica o di un venir meno ai principi fondativi, da parte di entrambi i sottoscrittori, alle loro rispettive tavole identitarie e di ispirazione, ma la spia indiziaria di un sistema di interessi. È a quegli interessi che occorre guardare al netto e a prescindere dai molti elementi, che pure non sono da dimenticare, che dicono di fondare la politica. Perché politica è, appunto, principalmente interessi.
E dunque è agli interessi che occorre prestare attenzione.

Ora entriamo nel vivo della scena.
12 gennaio 1939, a Berlino Hitler invita l’intero corpo diplomatico accreditato alla Nuova Cancelleria del Reich per gli auguri di Capodanno. Sorprendendo tutti, più che prestare attenzione, Hitler conversa con Aleksei Merekalov, neo ambasciatore sovietico. Molti pensano, vista la scena di Monaco, che gli ospiti d’onore sarebbero stati francesi e inglesi. Ma non è proprio così. L’eccentricità di Hitler non è l’indizio, ma la conferma di qualcosa che si sta muovendo: il giorno prima, infatti, Merekalov era stato convocato al Ministero degli Esteri e in quell’occasione aveva trasmesso un messaggio importante da parte di Stalin: la disponibilità da parte dell’Urss ad avviare negoziati commerciati e sul credito con la Germania nazista.
Due mesi dopo, il 10 marzo 1939 Stalin tiene un discorso a tutto il quadro dirigente sovietico in cui ribadisce un principio: l’Urss non vuole essere il paese che toglie le castagne dal fuoco a Francia e Gran Bretagna. Esplicitamente voleva dire: l’Urss è disponibile a nuove alleanze.
Iniziano stretti contatti tra i due ministeri degli esteri supportati dai rispettivi ministeri per l’economia.
Ancora due mesi dopo – fine maggio 1939 – il nuovo responsabile degli esteri Molotov, chiarisce e ribadisce la disponibilità di Mosca a parlare e definire politiche condivise con Italia e Germania. È il segnale che «si può fare». Nei due mesi successivi Francia e Gran Bretagna capiscono che qualcosa si sta muovendo e che l’isolamento dell’Urss su cui avevano puntato, non è più in essere. Provano allora a ritessere i rapporti con Mosca e decidono di inviare i responsabili militari, ma senza incarichi precisi da parte dei rispettivi governi. Insomma una mossa tattica. 

La delegazione impiega ancora due mesi prima di intraprendere il proprio viaggio e arriva a Mosca il 9 agosto. Ma la svolta tra Germania e Urss è già avvenuta e la delegazione franco-britannica torna a casa con un nulla di fatto.
Il 2 agosto, infatti, l’incontro tra il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop e Molotov ha sancito non solo un accordo, ma anche fornito garanzie all’Urss che né Francia né Gran Bretagna avevano mai dato. Concretamente

  1. La Germania definiva la Gran Bretagna il suo nemico principale;
  2. La Germania riconosceva il diritto dell’Urss a espandersi verso i paesi baltici, la Polonia e la Romania;
  3. La Germania si impegnava a mitigare e migliorare le relazioni tra Urss e Giappone.
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Una sola condizione pone la Germania: «Reciproco non intervento nelle questioni interne». Significa che le politiche di persecuzione, sterminio, controllo dell’opinione pubblica non erano in questione da nessuna delle due parti. Ma implicitamente voleva dire che, in prospettiva, su quelle politiche si sarebbero potuti fondare interessi comuni. Ovvero: condivisione di scelte persecutorie. È esattamente una delle cose che accadranno tra 1939 e 1940 e che è parte dell’accordo ufficialmente firmato il 23 agosto 1939. Ma anche consegna alla Germania nazista da parte dell’Urss di comunisti tedeschi, presenti sul suo territorio, comunque di antinazisti tedeschi, soprattutto se in odore di dissenso rispetto al regime staliniano, a dimostrazione che quell’accordo per l’Urss non è “prendere tempo” per arrivare preparati allo scontro militare con la Germania nazista. È due cose insomma: 1) condivisione di obiettivi e 2) comunanza di pratiche.

“Entrambi i dittatori – commenta Weber – condividevano la volontà di espansione politico-ideologica”.
Questo aspetto costituisce il primo elemento che fa dire fondatamente e convincentemente a Claudia Weber che il patto non è un atto di disperazione o di tutela ma corrisponde a un progetto politico condiviso tra Germania e Urss e che funziona, appunto, o dura, il che è lo stesso, fino a quando si ritiene che sia perseguibile e realizzabile congiuntamente. Comunque il primo effetto di quel patto è la possibilità di eliminare la Polonia dalla carta geografica e poi di consentire una politica di gestione comune e condivisa del territorio da parte dei due partner.

Sono le clausole che sottostanno non solo al testo del Patto, pubblico, ma che riguardano il Protocollo aggiuntivo che rimane segreto (i due testi sono riprodotti in appendice da Claudia Weber) e che a lungo rimane molto inquietante per l’Urss, anche dopo la morte di Stalin. Significativamente Gorbaciov negli anni ’80 ai tempi della Glasnost – ricorda Weber – ovvero nel tempo in cui si dichiarava di voler rendere pubblica tutta la storia non raccontata dell’Urss, fece di tutto per non renderlo pubblico.
Perché? Perché quel testo contiene una dichiarazione molto semplice che non lascia margini di ambiguità: il destino dell’Europa dell’est sotto l’egemonia sovietica è stabilito in quel protocollo aggiuntivo. Quel destino non risulterà strutturalmente modificato nel passaggio dell’Urss di Stalin dal patto firmato il 23 agosto 1939 con la Germania nazista alla scelta di schierarsi con Francia e Gran Bretagna in seguito all’invasione tedesca del 22 giugno 1941.
È un primo tema interessante perché indica quel terreno di malcontento o di diffidenza che gran parte degli ex Stati satelliti del “Patto di Varsavia” nutrono nei confronti della UE, di cui avvertono l’indifferenza al loro essere stati sudditi dell’Urss fino alla richiesta e all’imposizione di assumere il 23 agosto come Giornata europea delle vittime dei totalitarismi.

Ma ancor più importante è ciò che avviene in quei due anni di cooperazione tra Germania nazista e Urss, non solo come spartizione dei territori, ma soprattutto sia negli scambi commerciali sia nelle comuni politiche repressive e di eliminazione fisica di persone e gruppi umani ritenuti dannosi, disturbanti o “inutili”.
Riguarda la scelta responsabile e consapevole dello sterminio nella foresta di Katyn di quasi 22 mila tra ufficiali e cittadini polacchi uccisi a sangue freddo dai soldati dell'Armata Rossa nel 1940. L'eccidio di Katyn – un evento che dimostra, scrive Weber, “l’interscambio fra l’occupazione nazionalsocialista e quella stalinista – fa riflettere perché da esso emergono aspetti della dittatura staliniana che è stato a lungo imbarazzante riconoscere, vale a dire il carattere fortemente repressivo e le tendenze imperialistiche. La finalità del massacro, infatti, consisteva nell’eliminazione di una parte cospicua della classe dirigente nazionale polacca. Va inoltre ricordato che Stalin contestualmente ordina la deportazione in Siberia e Kazakhstan delle famiglie degli ufficiali polacchi (bambini compresi), eliminando in tal modo anche la generazione successiva. Tale eliminazione è concordata e portata avanti di comune accordo con la Germania nazista, con i vari dettagli discussi in riunioni tra i due alleati. Tutto ciò nel quadro di una spartizione della Polonia tra Germania nazista e URSS.
Una spartizione che riguarda anche gli stermini e l’eliminazione fisica di ebrei che i due regimi concordano (per esempio è quello che accade il 2 dicembre 1939 agli ebrei di Hrubieszów spinti in una marcia della morte dall’esercito tedesco verso il confine sovietico, lasciati morire o respinti dall’esercito sovietico una volta che questi provavano a varcare il confine).

La parabola discendente comincia nella primavera 1940, quando la Germania inizia l’espansione a ovest e allora diventa chiaro che quello che era stato concesso a Stalin, ovvero la possibilità di condividere il controllo a Est, è percepito come “esagerato”. Nella strategia tedesca l’alleanza con Stalin inizia a essere accettata solo se l’alleato sovietico si spinge in Asia, non se pretende di espandersi in Europa. È questo Hitler che esprime esplicitamente nell’incontro che ha con Molotov a Berlino nel novembre 1940.
È l’inizio di una frizione che è destinata lentamente a far collassare il nucleo essenziale del patto del 23 agosto.
Ma questo non significa che gli accordi commerciali vengano meno. L’Urss continuerà a sostenere l’economia di guerra della Germania nazista fino alla notte prima dell’invasione non per cieca fedeltà, ma per opportunismo. A Stalin è chiaro ormai dall’estate 1940 che quel patto sta per consumarsi. E dunque sollecita una preparazione al conflitto che tuttavia non vuol iniziare per primo, che sceglie come risposta a un’invasione subita e che fa di tutto per dilazionare almeno fino all’inizio del 1942. Anche per questo non manca mai una consegna di materie prime per la guerra, ma anche spinge i partiti comunisti occidentali a sostenere l’invasione nazista dei loro paesi come riscatto nazionale. Accade così, per esempio che nel giugno 1940, in conformità con questa spiegazione, il Partito comunista francese chieda ufficialmente all’occupante nazista della Francia il permesso di riprendere la stampa e la diffusione di “L’Humanité” dopo la messa al bando del partito e la chiusura del giornale decisa dal governo di Parigi nel settembre 1939 per il sostegno dato dal Pcf all’accordo Stalin-Hitler e il rifiuto di sostenere la guerra alla Germania nazista.

In conclusione: il patto del 23 agosto 1939 non è un atto transitorio o un modo per acquistare tempo. È una scelta e indica una visione di politica estera da parte dell’Urss staliniana che rimane nella memoria lunga russa anche del dopoguerra.
Soprattutto quella memoria non concerne le politiche di alleanze, ma le politiche di espansione, l’idea di territorio di garanzia che la Russia vive e interpreta come “sicurezza”. Qualcosa di quel passato allude al presente o a una composizione in rima tra questo nostro tempo e quello. Per rimanere nel linguaggio di Stalin, non fa della svolta dopo il 22 giugno 1941 l’impegno della guerra per la libertà ma l’affermazione del sacrificio in nome della «grande guerra patriottica».

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