Il miracolo di Baudo

19 Agosto 2025

Sono molti gli italiani che possono dire "io c'ero" quando Pippo Baudo appariva in tv: infatti, da quando debuttò con il varietà Settevoci – trasmesso per la prima volta il 6 febbraio 1966 sul primo canale della Rai – fino al 2017, quando ha condotto per l'ultima volta Domenica In, Baudo ha occupato la televisione italiana per cinquant'anni: numeri impressionanti, oltre 176 programmi presentati, decine di quiz, varietà, festival, contenitori domenicali, un’eredità che attraversa più generazioni. Per quelli della mia, Pippo Baudo non è stato semplicemente un presentatore televisivo: era il ritratto del cittadino medio italiano. Il conformista sempre in giacca e cravatta che si fa vanto di dire "io non faccio politica" e "il voto è segreto", ma intanto prende la tessera di un partito, non sia mai che serva a fare carriera da qualche parte. Pippo Baudo è stato il rappresentante massimo dell'aurea mediocritas, per far intravedere ai telespettatori le gioie di un futuro senza eccessi, di una vita senza prendere posizione, la tranquillità della routine quotidiana con, possibilmente, il logo della Rai a scandire le giornate, con il varietà del sabato sera, la messa l'indomani e la sosta in pasticceria prima di tornare a casa per il pranzo. Era il conduttore capace di rappresentare il bonario cliché dell'arcitaliano: accomodante, egoista, furbo ma senza sembrarlo e, naturalmente, mai colpevole di nulla, sempre assolto.

Gli si perdonava tutto: l'ego, l’onnipresenza, la voce tonante che scendeva dall’Olimpo catodico perché, in fondo, Pippo Baudo era l’Italia stessa: sempre lì, sempre uguale, eterno come la Democrazia Cristiana, il partito che lo tenne a battesimo e ne favorì la carriera agli esordi, nella tv fanfaniana di Bernabei. Se non ha mai detto per chi votava, è perché non ce n’era bisogno. Pippo "era" la DC, ma in smoking e con il microfono in mano. E, quando la Democrazia Cristiana sparì, lui continuò a perpetuarla nel suo modo di essere, a dimostrazione che quando si introietta "il centro" come aveva fatto lui, è per sempre. Se oggi esistono ancora gli italiani fans di un'altra cariatide televisiva, Beppe Grillo, quelli del "sono tutti uguali", "io non sono né di destra né di sinistra", quelli convinti che "tanto alla fine non cambia nulla", lo dobbiamo anche a Pippo: a quei cinquant'anni di presenza ininterrotta nelle nostre case, a quel catechismo ripetitivo, molto riposante, del "lascia fare a me". 

I primi fulgidi anni della sua carriera furono turbati da uno scocciatore che non gliene faceva passare una. Per verificare quanto Baudo lo avesse a noia, bisogna riandare con la memoria a quei tempi, da fine anni '70 in poi, oppure ritirare fuori quegli articoli dell'inventore della critica televisiva, che fu, per l'appunto, uno dei suoi molestatori più implacabili: Sergio Saviane. 

Saviane, giornalista dell’Espresso, non smise mai di rivelare e mettere in luce, di Baudo, quei suoi aspetti tartufeschi: lo descrisse come un uomo abile negli "arrembaggi miliardari" e capace di costruire una rete di interessi e favori all’interno della televisione italiana. Saviane osava criticarlo, lo metteva in crisi con il suo umorismo, a colpi di battute, lui, il gigante (era molto alto) che voleva piacere a tutti e che inseguiva il consenso a tutti i costi. Inventò il termine "pippobaudo", scritto tutto attaccato, che diventò nelle sue critiche una sorta di marchio, la descrizione aggettivata del conduttore-azienda, del presentatore che non era soltanto un volto ma una macchina organizzativa, un centro di potere e di influenza.

Il giudizio negativo non era isolato: diversi commentatori vedevano nei grandi show del sabato sera e nei festival di Sanremo condotti da Baudo il trionfo di un'Italia immobile, il paese dei "mezzobusti", neologismo con cui Saviane chiamava i giornalisti televisivi che comparivano dietro al banco dei telegiornali, visibili solo dalla cintola in su, rigidi e spersonalizzati lettori delle veline del potere. Per estensione, il concetto si adattava bene a quella televisione che privilegiava la presenza scenica rispetto alla sostanza. 

Pippo Baudo, pur non essendo un giornalista, finiva spesso associato a questa categoria allargata: un mezzobusto della grande TV, impeccabile nella forma ma divulgatore di "pippobaudite", una specie di melassa dell'intrattenimento televisivo, che era la sua forza. Lui era l'equilibrista, votato a predicare una sola religione, quella dello spettacolo democratico, l'eroe del sabato delle campagne più sperdute di un'Italia che, da rurale, si faceva, con grande lentezza e fatica, urbana. "La televisione è come il matrimonio – diceva Ennio Flaiano – in provincia va bene, in città fa ridere". Pippo Baudo è stato per decenni il grande sacerdote officiante dei piccoli riti racchiusi negli schermi dei tinelli italiani dai tempi di Campanile Sera, il campione riconosciuto del "buon gusto televisivo", impeccabile nel doppiopetto, con dizione scolpita e sorriso professionale, che si voleva come baluardo contro le derive basse della televisione commerciale.

Eppure, a ben guardare, anche la televisione di Baudo contribuiva a corrompere il gusto, nel suo essere una operazione di maquillage trash perfettamente architettata. Dietro l’orchestra diretta con solennità, dietro la parata di soubrette e ospiti "internazionali", dietro i Fantastico e i Festival, c’era un’idea di intrattenimento che si voleva superiore, ma che nascondeva una logica dozzinale: gag stantie, melodie facili, applausi a comando. Non era richiesto a Baudo di essere lui a innalzare il livello culturale della televisione italiana e di non averlo fatto bisogna essergli grati: mentre imperversava l'anarchia nelle reti berlusconiane, a lui si chiedeva di rivestire il trash con la patina del rispettabile, di normalizzare il cattivo gusto, di proporre una forma elegante di anestesia collettiva. Nel suo sorriso e nella sua sicurezza c’era il messaggio più pericoloso: che la sua televisione, in fondo, fosse la sola possibile per arginare il caos, e che non ci fosse nulla da mettere in discussione.

Così, dietro lo slogan "perché Sanremo è Sanremo", tragica presa di coscienza dell'immutabilità dell'Italia, si è consumato il vero miracolo: trasformare il mediocre in "classico", il banale in "tradizione", la tv spazzatura in "buon gusto". Baudo non ha mai gridato, non ha mai creato scandalo, ma è proprio in questa sobrietà che sta la sua capacità corruttrice: nella costruzione di un’egemonia culturale della medietà, tanto solida da sembrare naturale. Una normalità televisiva che, più che educare, ha reso impossibile immaginare alternative.

Umberto Eco spiegava agli apocalittici e agli integrati che la cultura di massa produce una forma di consumo medio, che livella i contenuti fino a renderli accettabili a tutti, lo chiamava "il falso assoluto del consumo di massa", cioè una finta armonia che nasconde il vuoto. Ma quella che sembrava eleganza non era altro che un’altra forma di standardizzazione. Baudo incarnava esattamente questo: il gusto provinciale eretto a norma televisiva. In fondo, ciò che lui ha rappresentato non è altro che la vittoria del cattivo gusto, ma decoroso: un kitsch ammantato di normalità. Il miracolo di Baudo, al contrario di quello che tutti si sono affrettati a dire, non è stato quello di aver portato "la qualità" in televisione, ma di aver convinto milioni di spettatori che la qualità televisiva fosse quella terrificante medietà. È questo il paradosso che Pippo ha rivelato e, nello stesso tempo, è il suo capolavoro: il vero trash non è mai quello dichiarato, ma quello che ci viene imposto come il massimo dell'eleganza. 

Con la sua morte finisce davvero un’epoca, quella della televisione analogica, che aveva ancora la pretesa di rappresentare il Paese. La Rai di Baudo era un luogo di rispetto, di misura, di tempi lunghi, con il mito della professionalità del presentatore che non leggeva mai dal gobbo ma presentava e intratteneva dopo molte prove. 

Con l’avvento della televisione commerciale berlusconiana, il quadro cambiò radicalmente. Lo spettacolo diventava sfida a colpi di audience: corpi esibiti, nudi, urla, velocità. Tanto Baudo appariva rassicurante, quanto Mediaset proponeva l’eccesso e la provocazione. Se la Rai cercava di incartare il trash con l’eleganza del doppiopetto, le reti private lo esibivano senza vergogna, facendone un nuovo linguaggio dominante. E nella transizione alla tv digitale e poi ai social, quella liturgia baudesca è apparsa sempre più anacronistica: i silenzi, le pause, i sorrisi calibrati non reggevano più di fronte al flusso compulsivo dei like e delle stories.

Baudo, che si offese quando Enrico Manca, presidente della Rai, lo definì "nazional-popolare", rivendicava di essere "colto": un autore prima che un conduttore, un ambasciatore, un Bruno Vespa dello spettacolo, più che un entertainer. Eppure, proprio nella sua centralità, stava il limite della sua televisione: un centro che lui teneva insieme, che ordinava, ma che finiva anche per congelare il cambiamento, resistendogli a tutti i costi. Berlusconi, con la sua televisione aggressiva e spregiudicata – alla quale Baudo fu costretto ad approdare per un periodo, prima di tornare figliol prodigo da Mamma Rai – ruppe quell’equilibrio e aprì a un’altra stagione, in cui la misura lasciava il posto al clamore.

Con Baudo se ne va l’idea della tv-comunità, dove il conduttore non era un volto intercambiabile, ma un punto di riferimento, garante di rispetto e di una malintesa solennità. E resta il vuoto di un racconto comune che la televisione digitale, frammentata, spalmata sui pc e sugli smartphone, non è più in grado di offrire.

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Pippo Baudo
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