Parole per il futuro / Incontro

8 Novembre 2021

Ora che è memoria, si può dire che l’“estate romana” fosse difficilmente prevedibile. In quell’inizio di 1977 comunque cupo, tra gli scontri di piazza all’inizio di marzo a Bologna e le manifestazioni dei primi di Maggio a Roma, immaginare un futuro come quello che si inaugurò solo qualche mese dopo, alla fine di agosto, alla Basilica di Massenzio, era a dir poco azzardato. Eppure le date sono quelle: 11 marzo l’uccisione di Francesco Lorusso nel capoluogo emiliano; 12 maggio quella di Giorgiana Masi nella capitale; il 25 di agosto, a due passi dal Foro Romano, si proietta Senso di Luchino Visconti: l’inizio di una stagione, impropriamente etichettata dell’effimero, che segnerà invece per lungo tempo il dibattito culturale e non solo di quello italiano.

Ora che è memoria, molti ne sanno ricostruire la genealogia, ma la previsione di quel futuro (ancor più imprevedibile, se si pensa che meno di sette mesi dopo le BR rapiscono Aldo Moro) fu appannaggio di pochissimi e la visione, forse, solo di un giovane architetto, Renato Nicolini, che in qualità di assessore alla cultura del Comune di Roma aveva intuito che quel paese asfissiato dal grigio e dal piombo aveva bisogno di respirare, di rompere molte barriere, di superare steccati e divisioni collegando centro e periferie, di metter il basso al posto dell’alto e viceversa, di permettere la circolazione e l’aggregazione (a quel tempo si chiamava così) di gente che non si era mai frequentata, che pur vivendo nella stessa città non si era mai cercata, tantomeno poteva trovarsi. Alla Basilica di Massenzio, Renato Nicolini ne officiò l’incontro, e con l’estate romana inventò un pubblico.

 

Ricordando il clima di quella fine degli anni ’70, almeno in occidente, se ne può ricostruire uno dei motivi marcato dalle domeniche dell’austerity – detto all’inglese, che a quel tempo non era così usuale – iniziate nel nostro paese il 2 dicembre del 1973, giorno del Signore, prima Domenica dell’Avvento… ma di una nuova era, quella che segnava la fine del lungo ciclo di espansione economica avviatosi, almeno in Italia, a cavallo tra gli anni ’50 e i ’60, quando crescevamo come la Cina oggi: il grigio e il piombo di qualche anno dopo nascono anche da lì. E anche in quel momento, prevedere il futuro, non fu che per una ristrettissima minoranza. Facendo un balzo di quasi mezzo secolo, con una terminologia inglese oggi invece indulgente – qualche volta a sproposito – i giorni del lockdown, da noi, iniziano il 9 marzo, stavolta di lunedì, paradossale giorno del lavoro, il primo di ogni settimana: l’austerity della crisi petrolifera si ricorda tra il 1973 e il 1974, se va bene anche il lockdown del Covid rimarrà nella memoria del 2020 e 2021. Oggi come ieri, dopo il biennio dell’ultimo cigno nero, ci interroghiamo sul futuro. 

 

E oggi, come sempre, si dice che solo la cultura ci salverà. Ma quale? E in che senso? Proverei a ripartire dalla lezione dell’estate romana per abbozzare una risposta: credo sia necessario, ancora una volta, ripensare i modi dell’incontro, inventare di nuovo un pubblico.

L’estate romana ebbe anche i suoi critici, ci mancherebbe, raccontarla come la stagione dell’effimero era già un modo di discuterne i meriti. Che però non sono stati pochi. Quello principale, lo ricordavamo già, fu di favorire un incontro imprevisto. “Ci vediamo a Massenzio!” fu per molti anni un saluto/augurio/consuetudine rassicurante. Che non aveva bisogno di scorrere il cartellone. “A Massenzio”, e poi più propriamente nei molti luoghi dell’estate romana si andava a prescindere il programma, che volutamente mischiava Tarkovskij e Bombolo, Quel gran pezzo dell’Ubalda con l’ultima e definitiva pellicola d’essai. A Massenzio si andava per ritrovare una ragazza, per chiacchierare tra amici, per fare tardi abbastanza da mettersi in fila in attesa che aprisse il forno con i cornetti caldi. E in quelle file, e prima sulle sedie sotto le stelle, a seguire le icone di Andrej Rublev insieme alle curve della Fenech, ci ritrovavi tutti, o quasi, imprevedibilmente mischiati, parolini e tufellari, Roma Nord e Roma Sud, l’Olgiata e il Pigneto… di allora: l’Italia non era ancora un paese per la gentrification.

 

Per molti anni, sicuramente per quelli iniziali, l’estate romana è stato il laboratorio per l’invenzione di un pubblico. Nuovo giacché avvicinava la città antica e quella d’arte alle periferie, e tutti quelli che vivevano ai margini della capitale venivano finalmente ammessi nei suoi salotti archeologici e invitati a seguirne i discorsi, provando a tradurre i vocaboli e le costruzioni narrative, contaminandosi reciprocamente. La mia lettura è che fenomeni come i festival culturali italiani di questo ultimo trentennio, i vari saloni del libro, gli incontri e i dialoghi in piazza, affondano qualcuna delle loro radici anche in quell’esperienza che poi, ovviamente, superò il Grande Raccordo Anulare, esondando verso altre città, diventando un luogo e un logo comune a tutto il paese. E chiedendo ai protagonisti del dibattito culturale di smettere la toga professorale adattando linguaggio e modalità discorsive alle nuove platee, assai diverse da quelle autorizzate a frequentare gli emicicli delle aule universitarie. Ne è seguito un lungo apprendistato, che nel tempo ha laureato veri e propri personaggi dello “spettacolo culturale”: per fare due nomi sulle opposte sponde delle due culture, Alessandro Barbero e Piergiorgio Odifreddi.

 

Ma ora, dopo il Covid? Essendo stato uno dei protagonisti di quella stagione, avendo ideato e promosso ventitré edizioni di Spoletoscienza dal 1989 al 2011, avendo lavorato come editor a Trento per l’Economia, a Bologna per la Medicina, seguito il Diritto a Piacenza, alcune edizioni delle Lezioni di Storia un po’ dappertutto, conducendo dialoghi matematici e di geo-politica tra Roma, Bologna, Torino e Bari, avendo affiancato tantissime esperienze minori, per budget e possibilità organizzative, non per questo meno ricche di partecipazione ed entusiasmo… ora direi che già prima del Covid, a fine 2019 intendo, quell’apertura intuita e perseguita da Renato Nicolini si era in vari modi richiusa. Da troppi anni si è costituita una sorta di compagnia di giro che pianta le tende, mette su lo spettacolo, recita a soggetto quattro o cinque repliche, smonta il tutto, si rimette in marcia et voilà, una settimana dopo è di nuovo in scena a qualche centinaio di chilometri di distanza, a volte meno. Poco male, si direbbe, se le piazze comunque si riempiono. Ma sono piazze a disposizione dei relatori e degli organizzatori, seguite a distanza da un pubblico che oramai si confonde con quello “cammellato” delle vecchie kermesse politiche, al quale si concede “the floor” e il microfono per poche domande, oltretutto monopolizzate dai non pochi habitué del dibattito, quelli del “… ho due premesse e tre domande!”. Segue Buhuh!

 

Opera di Christiane Spangsberg.


Che nel frattempo ci sia stata la rivoluzione del web e dei social è ben chiaro nei programmi, e anzi non c’è iniziativa, edizione, relatore, conferenza che non parta, transiti o arrivi laddove The Game, come ha detto Baricco, ci costringe. Naturalmente è un “gioco” che fa anche parte dei programmi, ne accompagna l’illustrazione, ne applica tutte le possibili app. Ma, curiosamente, gli rimane estraneo. Ridotta a scheletro, la proposta culturale mostra la silhouette della vecchia, tradizionale rassicurante lezione frontale (e poco cambia, in questo senso, se trasmessa in streaming). Ma rassicurante per chi?

Se alla fine degli anni ’70 l’invenzione del pubblico si rese possibile con l’uscita dei professori dalle mura delle città universitarie, il confine che oggi deve essere superato è quello tra chi parla e chi ascolta. Con tutti – e non sono pochi! – i rischi dell’operazione, il futuro dell’incontro culturale si costruisce all’incrocio di un nuovo “convegno”, dove chi parla deve anche ascoltare e viceversa. “La parola del Signore”, qualunque sia l’esperto di turno, non può più essere seguita da un’omelia a senso unico: le prediche non le segue più nessuno. Specialmente se per nessuno s’intende quel popolo numerosissimo dei “non partecipanti” alle fiere, festival, saloni culturali, e che in massima parte sono giovani.

 

Non inganni, infatti, il contributo effettivamente “cammellato” delle scolaresche intruppate negli incontri del mattino (fin quando la scuola è rimasta aperta e il distanziamento sociale non è stato un imperativo): di fronte ai mille e mille relatori di ogni evento, la platea media visibile è stata ed è quella delle teste bianche, se non calve. Rare le eccezioni. Futuro: dove e come possiamo incontrare quei giovani ai quali quasi tutti diciamo di rivolgerci, parlando al meglio con i nostri coetanei, loro genitori? Quei giovani navigano altrove, lo sappiamo.

Quindici anni orsono, era il 2006 delle Olimpiadi Invernali di Torino, mi è capitato di collaborare con Luca Ronconi alla realizzazione del “Progetto Domani”, cinque spettacoli, tanti quanti i cerchi olimpici, per affiancare il più grande evento sportivo planetario. Nei molti colloqui preparatori, un giorno Ronconi ci disse della sua idea di domani, di come si potesse immaginare, e quindi rappresentare, il futuro. “Il “domani” a teatro è un tempo rappresentabile solo a condizione di osservarlo da un “dopodomani”, come fosse uno “ieri””. Osservare il prossimo futuro da un futuro ancor più lontano, immaginarlo come una memoria, guardarlo come un passato, magari con nostalgia, comunque con passioni, varie.

 

La capriola prospettica, aldilà dell’immediata vertigine, mi pare ancora illuminata da uno di quegli squarci di genialità con i quali Ronconi sapeva chiarire e sciogliere un nodo altrimenti non facilmente sbrogliabile. Se infatti è difficile districarsi tra le possibili immagini del futuro della proposta culturale, indovinare il profilo di un pubblico diverso, capire come evitare quei rischi – l’ho già detto: sono tanti, sono seri – che accompagnano l’idea di scambiare i ruoli tra chi parla e chi ascolta, così da costruire un nuovo incontro, proviamo a traguardare il futuro prossimo (quasi un futuro anteriore, a ben vedere) come memoria.

Proviamo a immaginare – dopodomani – formati e piattaforme d’incontro che, nel rispetto delle competenze, senza improbabili inversioni di ruoli, siano infine riuscite a ritagliarne uno per il pubblico, non più confinato nella platea dell’attento ascoltatore. Proviamo a vedere i protagonisti del dibattito culturale meno preoccupati dell’attenzione dei soliti noti, quando scrivevano per essere recensiti da coloro che usavano invitarli in Tv, per poi ritrovarsi a dialogare l’un l’altro sul palcoscenico estivo di qualche piazza rinascimentale. Proviamo a seguire un loro intervento durante il quale, periodicamente, chiedono l’opinione di chi li sta ascoltando, gli propongono di esprimere un parere su una piattaforma interattiva scaricata sul cellulare, sul tablet, sul pc – intervenendo in sala e in piazza ma anche da casa – leggendo a loro volta il giudizio del pubblico sullo schermo del podio, valutando il parere di chi li sta seguendo e magari, avendo previsto due o più opzioni di sviluppo, cambiando la sceneggiatura della lezione, della conferenza, della tavola rotonda… di quello che sarà, così da venire “incontro” a un effettivo dialogo, promuovendo uno scambio utile per tutti.

 

Oggi sappiamo, vediamo, l’infinita moltitudine del popolo dei social esprimere la sua competenza “non esperta” pretendendo di metterla sullo stesso piano di chi l’ha costruita con impegno, tempo e il proverbiale sudore della fronte. Domani possiamo immaginare tutte le difficoltà che si frappongono ad un auspicabile dialogo tra chi parla con cognizione di causa e chi non vuole più, o non solo, ascoltare ma crede che la sua voce debba avere attenzione indipendentemente dalle conoscenze e dal “sequitur” del modello argomentativo. Ma perché non lasciarsi tentare da un’apertura d’ottimismo e, per dopodomani, confidare in una soluzione fortemente cercata, costruita e che abbia riavvicinato le generazioni più giovani ad un dibattito oggi confinato al confronto tra i loro genitori e le generazioni ancora più anziane, laddove ancora troppo spesso si stigmatizza la poca propensione ad approfondire, lo sdraiamento, la carenza di letture impegnate e una superficialità multitasking non redenta dalla pur strabiliante abilità con qualsiasi consolle?

 

Ancora Ronconi (non a caso: se c’è un autore, regista teatrale che ha pensato e inventato nuovi spazi e ruoli per il pubblico, questi è sicuramente Luca Ronconi). La collaborazione torinese nasceva da quella precedente, realizzata tra il 1988 e il 2002, prima stagione della messa in scena di Infinities, uno degli spettacoli cult della sua maestosa produzione teatrale, testo sui paradossi del concetto d’infinito in matematica scritto dall’astrofisico inglese John Barrow. Nella seconda stanza di quello spettacolo memorabile le parole o/e gli attori s’interrogavano sulla sconcertante infinitudine della vita eterna: quanto potrebbe costare un’assicurazione sulla vita? Come affrontare la questione della punizione dei reati, che senso avrebbe l’ergastolo? A che età si potrebbe andare in pensione, e chi pagherebbe le infinite pensioni di tutti gli innumerevoli individui graziati (!) dalla vita eterna? E poi, sconcerto e paradossi a parte: la società non diventerebbe sempre più conservatrice, gestendo tutto in base all’esperienza del passato? “Poiché la vita è eterna tutti hanno un’infinita lista di parenti. I nonni non muoiono mai e neppure i bisnonni, le prozie, i proziii e così via, all’indietro per generazioni, tutti vivi e vegeti e pronti a offrire consigli. I figli non si sottraggono mai all’ombra dei padri, le figlie a quella delle madri. Nessuno agisce confidando solo sulle proprie forze […] In un mondo siffatto, la moltiplicazione dei successi è parzialmente intaccata dal declino dell’ambizione”. Staccarsi dall’ombra delle generazioni precedenti è un passaggio ineludibile e, per quanto possa sembrare contro intuitivo, il peso dell’esperienza e dei consigli può frustrare qualsiasi tentativo di emancipazione. L’incontro che da diversi anni si consuma sui palcoscenici di molte feste della cultura ha permesso, ai suoi esordi, un convegno che in precedenza era autorizzato solo nelle sedi deputate. Ma oggi e per il futuro?

 

Oggi si avverte il rinnovato rischio di una chiusura autoreferenziale, nel confronto infinito tra esperti che si rincorrono tra etere, web, piazze, colonne o volumi a stampa, talk-show e post di vario tipo, tutti cercando e contando su un pubblico che li segue, sia nelle modalità tradizionali e più consone all’età media, che nella fattispecie di follower.

Domani le piazze potrebbero svuotarsi, le sale potrebbero riservarci la sorpresa di una platea improvvisamente vuota, per tanta gente che fino a ieri si metteva in fila, gli ascolti annoiati potrebbero crollare, i follower stancarsi di rincorrere, i lettori forti rimanere sempre gli stessi.

Dopodomani potremmo riflettere compiaciuti sulla mossa imprevedibile che tentammo: mettere il pubblico insieme ai relatori, i padri ad ascoltare i figli, superare in qualche modo le divisioni, tentare, provarci, sperimentare, mescolare le carte, far trovare quelli che non si cercavano più, leggere con sufficiente attenzione, pari a quella dispiegata per essere letti, lasciarsi contaminare… in fondo non era partito tutto da un contagio imprevisto?

 

Abbiamo chiesto ai nostri collaboratori di scegliere un concetto, un'idea, e di pensarlo in relazione al futuro: dove stiamo andando? Un dizionario per orientarci: "Non è questione di tornare al passato; piuttosto, si tratta di permettere al passato, ancora una volta, di trovare la sua strada nel futuro. Perché la vita sulla terra vada avanti e prosperi abbiamo bisogno di imparare a frequentare il mondo con attenzione, rispondendogli con sensibilità e giudizio" (Tim Ingold, Corrispondenze). Qui tutti i pezzi.

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