BGM: bambini geneticamente modificati

17 Novembre 2025

A metà dell’ultimo decennio del secolo scorso, uno Stefano Rodotà sornione dietro la veste austera del giurista, illustrava al pubblico di Spoletoscienza un caso portato all’attenzione di una Corte degli Stati Uniti: la denuncia dei genitori da parte di un figlio con una gravissima patologia genetica che li accusava di averlo condannato a una vita intollerabile quando avrebbero potuto evitargli le sofferenze e il dolore decidendo per un’interruzione di gravidanza. In sostanza, la colpa di averlo fatto nascere contro quella che sarebbe stata la sua, postuma, volontà. La vertigine concettuale e l’estremità del “caso”, è il caso di dirlo, permettevano a Rodotà di sviluppare un’articolata riflessione sui limiti della deliberazione giuridica a fronte del tumultuoso sviluppo tecnologico: e di quello biotecnologico, prima e più di tutti gli altri.

Nel leggere la recente notizia, rimbalzata dal Wall Street Journal su tutti i media, del “progetto segreto dei miliardari della Silicon Valley” (segnatamente il Sam Altman di OpenAi-ChatGPT e suo marito) di un bambino à la carte, geneticamente modificato, mi è immediatamente tornata alla mente quella relazione-dibattito di quasi trent’anni fa, a dir poco preveggente. Erano i giorni e sarebbero poi stati gli anni a partire dai quali, con l’annuncio della nascita di Dolly – la pecora clonata da una cellula somatica adulta per SCNT (Somatc Cell Nuclear Transfer) da un team di scienziati con a capo lo scozzese Ian Wilmut, il 5 Luglio del 1996, al Roslin Institute di Edimburgo –, quell’aura di innocenza di cui le donne e gli uomini di scienza erano circonfusi (all’inizio degli anni ’90, almeno da noi, i colpevoli erano solo i politici e gli imprenditori), si sarebbe via via dissolta, lasciando il campo a una rinnovata, ciclica cappa di sospetto e diffidenza verso gli aspiranti dottor Frankenstein in camice bianco: il primo OGM commerciale, il pomodoro Flav Savr, era stato approvato nel USA solo due anni prima.

Ricordare quei passaggi e quel clima è rilevante giacché già allora – sono quasi trent’anni, lo ripeto – l’arrivo sul mercato di alimenti geneticamente modificati, insieme all’immagine di un animale tanto naturalmente mansueto quanto artificialmente concepito, oltre a scatenare un’ondata di preoccupazione e indignazione, anticipava l’incubo bioetico ed eugenetico per eccellenza, l’angosciosa domanda delle domande: quanto ci vorrà prima che qualcuno voglia e possa progettare un essere umano in provetta? Cosa succederà quando potremo modificare il genoma dei nostri discendenti a piacimento, seguendo gusti e tendenze, sartorializzando – come si sarebbe detto più tardi – la nostra progenie, anche a rischio di ridurre quella variabilità genetica da sempre motore indifferente quanto imprescindibile dell’evoluzione?

Slippery slope, come abbiamo appena appreso, sembra ci siamo arrivati, che stia accadendo. Almeno così pare. Proviamo a capire meglio.

Di fatto è già accaduto. Come ci ricorda Anna Meldolesi nel suo blog, in Cina, da qualche parte stanno crescendo Lulu e Nana, le due gemelle Crisper babies fatte nascere con DNA geneticamente corretto dal biofisico He Jiankui con l’obiettivo di renderle resistenti al virus HIV: di loro non si sa nulla, tranne che avrebbero tra i 6 e i 7 anni; del loro “padre” tecnologico, che è finito in carcere per abuso di professione medica. Lui che aspirava alla gloria accademica. Quello che sta accedendo, invece, è che alcune “company” della Silicon Valley, grazie a nuove tecniche di screening e computazione, e previa produzione di una quindicina di embrioni in vitro per coppia, offrono una sorta di pagella per i virtuali figli in vitro. I punteggi riguardano la possibilità – sì/no – di sviluppare 1200 patologie monogeniche (come quella di cui alla “causa” ricordata da Rodotà), mentre altre percentuali si riferiscono all’eventuale predisposizione per una dozzina di patologie multi geniche. Al momento costi non banali, facilmente affrontabili da miliardari come Sam Altman, che potrebbero valere la spesa anche nel caso di genitori meno facoltosi che però siano a conoscenza di familiarità predisponenti: per tutti gli altri, a dispetto dei titoli dei giornali, nessun “bambino perfetto” ma la possibilità, eventualmente, di scegliere tra propensioni diverse. Al momento un po’ poco. Che poi alcune di queste company azzardino la promessa di punteggi su caratteristiche poligeniche come altezza e quoziente di intelligenza… sembrerebbe marketing. Sicché, l’abbiamo imparato, la tecnologia corre veloce, e molto dipenderà dagli equilibri di mercato, e specialmente da quello della “domanda”.

Per porsi quelle della morale, non è mai troppo presto. Sicché, come sta succedendo in questi giorni, a prevalere è il ricorrente incubo eugenetico e la preoccupazione di un definitivo tramonto dell’imperfezione e dell’errore, a vantaggio di una compiutezza artificiale quanto disumanizzata. Anche in questo senso, proviamo a guardarci dentro.

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Lulu e Nana.

In quegli stessi anni che ricordavo, a cavallo della fine/inizio di secolo, mi capitava di porre ad alcuni studenti (in realtà quasi tutte studentesse di scienze della pedagogia) dell’Università di Bergamo, un medesimo interrogativo declinato in due diverse domande: come avrebbero giudicato, qualora la tecnologia lo avesse permesso di lì a qualche tempo, la decisione di una coppia di genitori di intervenire geneticamente sulla loro progenie al fine di evitare la nascita di un figlio affetto da sindrome di Down, fibrosi cistica, distrofie muscolari, corea di Huntington o simili patologie? A questa prima domanda seguiva, generalmente, una discussione piuttosto accesa, dove le studentesse si dividevano in maniera non così prevedibile (almeno da me: il pericolo di una discriminazione del “malato” emergeva quasi sempre) ma nessuna liquidando con sufficienza una scelta morale che riconoscevano difficile e sofferta. La seconda domanda se allo stesso modo, qualora fosse stato possibile, avrebbero giudicato la scelta di una coppia genitoriale di intervenire così da evitare la calvizie, garantire una statura medio-alta o l’immancabile , ariana accoppiata “capelli biondi e occhi azzurri”, veniva liquidata rapidamente, ricompattando l’unanimità del giudizio negativo: si poteva discutere, eventualmente, di interventi terapeutici così da scongiurare patologie ma l’opzione “migliorativa” non era nemmeno sul tavolo. Una rapida indagine in famiglia e tra amici, in questi ultimi giorni, ha confermato la non conformità che registravo tra le studentesse bergamasche. Sembrerebbe senso comune.

Insisto su una dimensione aneddotica giacché mi sembra utile per una discussione, nel concreto, meno facilmente convergente. Di nuovo in quel periodo, mi capitava di prendere uno dei tanti caffè del mattino in un bar della cittadina dove vivo, immancabilmente servito da un barman ogni giorno premuroso e sorridente. Devo aggiungere che quel gentilissimo signore era di una statura significativamente inferiore alla media: se non affetto da acondroplasia, era al limite di ciò che più comunemente si definisce nanismo. Condizione che non gli aveva impedito di avere famiglia. A volte mi capitava di incrociarlo da lontano, a passeggio con la moglie e due ragazzi adolescenti: il più grande di una statura che sembrava rientrare nella media, sia pur non nei percentili superiori, mentre il giovane s’indovinava facilmente aver ereditato dal padre. Ripensando alle mie interrogazioni con le studentesse di Bergamo, e qualche volta riportando loro questo esempio, mi/e chiedevo loro, di cosa avremmo potuto accusare quel signore se, posto davanti a una futuribile opportunità, avesse deciso di garantire a un figlio una statura “migliorata” rispetto alla sua. Pur considerando che gli era riuscito di metter su famiglia, era così inaccettabile che, paternamente, volesse evitare al figlio ciò che lui stesso aveva ragionevolmente patito, tutti gli scherzi, anche bonari, le goliardiche prese in giro a scuola, le difficoltà, alcune insuperabili, con molti sport, quelle presumibili con l’altro sesso?

In altre parole: si sarebbe trattato, si tratterebbe di eugenetica? È moralmente reprensibile colui che cerca, non già una chimerica perfezione – promessa da marketing, appunto! – ma il meglio per i suoi figli? Che poi qualcuno voglia o possa dire: “ma di questo passo, riducendo la variabilità genetica, mettiamo a rischio la sopravvivenza della specie…!” Beh, il mio barista di fiducia, o quel figlio che aveva denunciato i genitori, avrebbero o potrebbero forse rispondere: “E perché proprio con il ‘mio’ sacrificio vorresti garantire la sopravvivenza della ‘nostra’ specie?”

Sull’eventualità di interrompere una gravidanza perché non ci si sente pronti ad accompagnare – e a far affrontare a colei/colui che nascerà – una vita condizionata da una malattia invalidante, è facile raccogliere se non l’unanimità, la comprensione di molti. Permangono dubbi morali, condizionamenti rispettabili anche quando non condivisi, ma si tratta di scelte che ognuno dovrebbe, come succede, prendere in assoluta autonomia. Sull’eventualità di “progettare” e “migliorare”, è bene ribadire che al momento riguarda più la disinvoltura di chi lo promette che la sua effettiva realizzabilità: e però, non tutto deve essere giudicato a partire dall’immagine inquietante del “bambino perfetto”, dal timore di programmi eugenetici più distopicamente minacciati che effettivamente perseguiti.

Come per tutto ciò che accade intorno alle nostre esistenze, è la dimensione della complessità quella che non dobbiamo perdere di vista. Errori e imperfezioni sono alla base del processo biologico dell’evoluzione naturale, e mille volte abbiamo letto e ascoltato e rivissuto le vicende di chi, a seguito di un errore e/o della sua imperfezione ha fatto una ragione di vita, addirittura di emancipazione e di successo. Ma non a tutti è dato diventare Leopardi, e anzi per la stragrande maggioranza errori e imperfezioni sono fonte di sofferenza, dolore, emarginazione (che non furono risparmiati nemmeno al poeta).

Di Ian McEwan di cui è appena uscito l’ultimo romanzo, mi capita spesso di ricordare l’ultima pagina di Chesil beach, quando Edward, nel suo silenzio virtuoso lascia correre via Florence sulla spiaggia, On Chesil beach, fino a quando lei si riduce “… a un punto sfocato in fuga sull’interminabile rettilineo di ciottoli sfavillanti nella luce fioca”. Qualche riga sopra si legge il punctum di riflessione che da senso a tutto il racconto, la cui traduzione italiana, nel lavoro fantastico che conferma ogni volta Susanna Basso, pure non rende l’efficacia dell’originale: “This is how the entire course of a life can be changed – by doing nothing”.

Per ogni volta che ci fermiamo perplessi di fronte all’azione, interrogando il nostro senso morale, proviamo a pensare anche al prezzo e ai rischi che siamo disposti a correre non considerando come il corso di tutta una vita può dipendere… dal non fare qualcosa.
Potremmo essere chiamati a risponderne.

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