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In guerra ci vuole coraggio / La guerra al Covid e la guerra ai giovani

10 Novembre 2020

Quando il governatore Vincenzo De Luca ha decretato la chiusura di tutte le scuole della Regione Campania, a fine ottobre, nessuno è stato colto di sorpresa. Il messaggio della sua campagna elettorale, ripetuto ossessivamente per tutta l’estate, era molto semplice: siamo in pericolo per colpa di una minoranza di irresponsabili, per lo più giovani, che insistono a socializzare senza curarsi delle regole anti-Covid.

È l’esempio più eclatante, ma non il solo, della propaganda anti-giovanile che ci ha accompagnato negli ultimi mesi. Le mosse dei politici, quando i contagi sono di nuovo aumentati, sono state coerenti con la propaganda: poiché i giovani sono un pericolo, per proteggerci dobbiamo limitarne i movimenti. Così pochi giorni fa Attilio Fontana ha imposto la chiusura di tutte le scuole superiori lombarde. Seguito da Michele Emiliano in Puglia, e quindi dal governo nazionale che ha imposto il 75% di didattica a distanza a tutte le scuole superiori d’Italia. Mentre scrivo, si sta valutando il 100% di Dad dalla terza media in su.

Quello che colpisce non è la misura in sé: moltissimi paesi hanno chiuso temporaneamente le scuole per limitare la diffusione del Covid. Colpisce piuttosto il tempismo.

 

L’Italia spicca per la velocità con la quale manda a casa i propri ragazzi. Durante la prima ondata di contagi siamo stati i primi a chiudere le scuole (tutte, indiscriminatamente) e gli ultimi a riaprirle. Anzi, non le abbiamo proprio riaperte fino alla fine dell’anno scolastico. All’inizio della seconda ondata, la chiusura delle scuole è stato uno dei primi provvedimenti adottati dagli amministratori locali e dal governo nazionale. Siamo un’anomalia rispetto agli altri paesi europei: mentre si pianificano restrizioni un po’ dovunque, la chiusura delle scuole è considerata dai nostri vicini un’extrema ratio. Francia e Regno Unito, con numeri molto peggiori dei nostri, non prendono ancora in considerazione questa ipotesi, e anche in Germania si preferisce percorrere altre strade.

 

A pensare male si fa peccato, diceva uno che se ne intendeva, ma di solito ci si azzecca. Viene quindi da pensare che fra propaganda e azione politica ci sia un nesso causale: anche se nessuno ha mai dichiarato apertamente guerra ai giovani, è evidente che da parecchi anni i nostri figli e nipoti non sono considerati una priorità da chi ci governa. E dato che i politici rispondono agli elettori, la causa ultima deve essere l’atteggiamento degli italiani: chi vota non considera importante investire nelle generazioni future. I giovani, d’altra parte, in Italia sono una minoranza, e un elettorato che invecchia inesorabilmente sembra non curarsi gran che di loro.

Gli esempi sono molteplici e noti: siamo il paese avanzato che spende di più per gli anziani e di meno per le famiglie con figli. Siamo cronicamente a corto di asili nido, abbiamo una delle più alte percentuali di disoccupazione giovanile (e femminile), e di conseguenza uno dei trend di decrescita demografica peggiori del mondo. Chi ha provato ad alzare l’età delle pensioni affinché non gravino sulla fiscalità generale — ergo, sui giovani — è stato insultato, minacciato e infine politicamente ostracizzato.

A questi mali si aggiungeranno fra poco quelli causati dall’epidemia e dalle politiche adottate per combatterla. La probabilità di perdere l’impiego nel corso del 2020 è stata più alta per i lavoratori più giovani. I ragazzi che hanno terminato gli studi non hanno neppure avuto la possibilità di entrare nel mondo del lavoro. Il debito pubblico è aumentato di trenta punti dall’inizio dell’anno, aggiungendo un altro macigno sulle spalle dei nostri figli.

 

Ritornando alla scuola, dovremo aggiungere ai danni economici anche gli effetti di un secondo anno di didattica a distanza. Ci sono gli ovvi deficit di apprendimento: la Dad è meglio di niente ma è meno efficace dell’insegnamento in aula. Per un altro anno inoltre i nostri ragazzi e ragazze saranno privati di un fondamentale ambiente di socializzazione. Molti dovranno sopportarne pesanti conseguenze psicologiche. Nelle fasce di popolazione più disagiate aumenteranno gli abbandoni scolastici.

È evidente che i costi e i rischi della guerra al Covid non sono uguali per tutti. Le restrizioni fanno molti più danni fra i giovani e fra gli adulti in età produttiva che fra gli anziani, per la semplice ragione che questi ultimi hanno meno esigenze di formazione, lavoro, e socializzazione. D’altro canto, i rischi dell’epidemia sono immensamente più alti per gli anziani. Secondo le stime attuali, gli ultra-settantenni costituiscono il novanta percento dei deceduti per Covid. La letalità del virus è inferiore a uno su cento fino a quarant’anni, mentre sale al trenta per cento (uno su tre) sopra agli ottanta.

 

 

Sembra giusto reagire a queste cifre dicendo che la priorità di una società civile è salvare il maggior numero di vite possibili. Ma si tratta, purtroppo, di un’affermazione ipocrita. Nessun governo democratico mette in campo tutte le risorse disponibili per salvare il maggior numero di vite possibili. Una strategia del genere implicherebbe violazioni dei diritti dei cittadini e intrusioni nelle libertà personali – interventi dell’esercito, rastrellamenti, deportazioni in stile cinese – che nessuno di noi è disposto ad accettare. Anche i costi economici sarebbero insopportabili, e infatti i governi democratici in tutto il mondo hanno finora cercato di bilanciare le perdite di vite umane con i danni causati dalle politiche di contenimento. Hanno scambiato, in altri termini, più morti con meno disagi.

Il problema è che nessuno sa quale sia l’equilibrio giusto fra queste contrapposte esigenze. Non esiste una formula per calcolare quante vite sia lecito sacrificare senza rovinare l’esistenza di milioni di persone. Eppure i governi prendono continuamente decisioni di questo genere. Come fanno? 

 

I dibattiti pubblici sono spesso viziati da un’idea semplicistica di come si prendono decisioni all’interno delle istituzioni. Anche se un individuo – un primo ministro, o un governatore regionale – ha sempre la responsabilità ultima, ogni decisione importante emerge da discussioni e negoziati all’interno di organismi collegiali, come il Consiglio dei ministri, che a loro volta ascoltano i partiti, i corpi intermedi, e gli esperti. Questi organismi devono rappresentare le varie esigenze e voci del Paese. La sintesi finale dunque è di natura politica. Non è il risultato di un gigantesco calcolo utilitaristico dei costi e benefici da parte di un singolo individuo che ha a cuore “il bene di tutti”.

Nel corso di questi procedimenti complessi, la linea politica vincente è spesso quella della minore resistenza. Gli interessi più organizzati e abili a esercitare pressione sul governo riescono a parare i colpi, mentre le categorie meno coese o rappresentate finiscono per subire le misure più gravose. I giovani sono uno degli anelli deboli del sistema-Italia, e dunque non sorprende che siano i primi a pagare i costi della guerra al Covid.

 

Prendiamo la questione degli orari scolastici: scalare gli ingressi nel corso della giornata sarebbe stato (e sarebbe ancora) un intervento semplice, logico, a costo bassissimo per le casse dello Stato, che permetterebbe di decongestionare i mezzi pubblici e diminuire i contatti superflui. Ma da noi per tradizione i ragazzi delle medie inferiori e superiori vanno a scuola soltanto al mattino, a volte peraltro subendo orari molto lunghi e poco sensati dal punto di vista pedagogico. Questa tradizione si è rivelata una parete difficilissima da scalare, in parte per ragioni normative, organizzative, e corporative. Si è cominciato a prendere in considerazione la revisione degli orari soltanto quando era già troppo tardi, e a quel punto, paradossalmente, è stato più semplice scrivere tre righe in un decreto per dire “tutti a casa”.

È solo un esempio fra molti. Ma che cosa si può fare per evitare tali sconfitte? Si possono tracciare linee invalicabili, come ha provato a fare il Ministro dell’istruzione: dicendo “non chiuderemo mai le scuole” ha preso un impegno di fronte all’opinione pubblica e ha messo in gioco la propria reputazione. Ma si è poi resa conto di non poter difendere a oltranza la linea tracciata. Un governo debole difficilmente è in grado di farlo, e un ministro debole in un governo debole lo è ancora di meno.

 

Di fatto il governo italiano ha sprecato i preziosi mesi estivi pianificando la guerra alla seconda ondata di Covid secondo il principio della minor resistenza. Quasi tutte le trincee sono state disegnate senza mettere in discussione il quadro di regole che governano le singole istituzioni – dalla sanità, ai trasporti, alla scuola, fino alla famiglia. Ma se vogliamo prendere sul serio la metafora della guerra, dobbiamo ricordarci che si può vincere pensando fuori dagli schemi e prendendo il nemico di sorpresa. In un articolo apparso su lavoce.info, per esempio, Carlo Favero, Andrea Ichino e Ennio Rustichini hanno proposto una strategia completamente diversa da quella seguita finora per combattere il contagio. La logica è semplice: se i giovani hanno poco da temere dal Covid, ma sono pericolosi portatori del virus, perché non proviamo a tenerli separati dagli anziani? 

 

In concreto, si potrebbero definire delle fasce di orario dedicate allo shopping esclusivamente per gli anziani, senza chiudere indiscriminatamente i negozi. Si potrebbero riservare corse speciali sugli autobus, oltre a diversificare le entrate a scuola e al lavoro nel corso della giornata. Le persone anziane che vivono con famigliari studenti o lavoratori potrebbero essere ospitate negli alberghi vuoti, a spese dello stato. Si potrebbe immettere a scuola una nuova generazione di giovani tirocinanti che, in classe, affiancherebbe i docenti a rischio impegnati nella didattica a distanza.

La proposta è stata ripresa da alcuni giornali quotidiani, e sembra che abbia cominciato a circolare in ambiti governativi. Purtroppo domenica scorsa un tweet di Giovanni Toti, governatore della Liguria, ha fatto scoppiare un putiferio. Proponendo restrizioni differenziate per fasce d’età, Toti definiva i pensionati “persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”. Una comunicazione disastrosa, perché l’obiettivo dell’intervento non sarebbe soltanto o principalmente di tipo economico. Sarebbe salvare dal contagio le persone più fragili ed esposte, senza rinchiudere in casa chi dal virus ha poco o nulla da temere.

 

Proposte del genere non sono facili da implementare, e non è detto che gli interventi sopra elencati siano tutti efficaci. Sicuramente si può fare di più e di meglio, pensando fuori dagli schemi. Ma è l’atteggiamento generale che conta: in guerra ci vuole coraggio. Abbiamo il dovere di salvare gli anziani e allo stesso tempo di evitare un altro lockdown totale – breve o lungo che sia – che penalizzerebbe ulteriormente i giovani, la risorsa più importante di un paese che invecchia inesorabilmente come il nostro. Per vincere la guerra contro il Covid bisogna mettere in campo fantasia, creatività, e generosità. Ragionando con gli schemi del passato, commetteremmo lo stesso errore dei generali francesi che costruirono la linea Maginot: un errore fatale dal quale potremmo non riprenderci mai più.

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