Jean Cayrol, il lager e l'amore degli altri
Esce il secondo volume della trilogia di Jean Cayrol, Vivrò l’amore degli altri (Marietti1820). A inizio dell’anno era uscito la prima parte (Lasciatelo parlare), l’uscita dell’ultima è data per imminente. L’intera, meritevole fatica si deve alla cura e un’ottima traduzione di Valeria Pompejano.
La storia di questo libro presenta aspetti molto interessanti, che vanno oltre la sua natura. L’edizione originale, per i tipi di Seuil (1947), perfettamente coincide con la prima edizione di Se questo è un uomo.
Ancorché sia disarmante il ritardo con cui si arriva a conoscere questo classico della letteratura francese, l’iniziativa è lodevole per due ordini di questioni. Per la qualità di un autore poliedrico (romanziere, poeta, cineasta, editore) molto amato da Roland Barthes e per l’occasione davvero unica che ci viene offerta. Seguendo Cayrol, passo dopo passo, libro dopo libro, meglio di quanto sia accaduto con Robert Antelme (il cui libro, La specie umana, Einaudi preferì a Se questo è un uomo) viene agevole comparare la diversa e più modesta consistenza che la questione dello «scrivere dopo Auschwitz» ha avuto da noi, rispetto al precocissimo e ampio dibattito svoltosi al di là delle Alpi. Una parabola da noi più modesta, non per la qualità degli autori in discussione (da Levi a Bassani e ritorno, materiali per discutere non sarebbero mancati), ma per il diverso orizzonte dell’attesa. I due itinerari di scrittura, quello di Levi e quello di Cayrol, nati contemporaneamente nel 1947, sono infatti divergenti, non per merito o demerito di uno dei due, ma semplicemente perché da noi l’esistenza del problema, in ambito di critica letteraria, è stato per decenni negata quando in Francia era patrimonio consolidato. Scrivere del Lager significò invece per Levi essere ristretto nell’ambito della letteratura testimoniale, genere minore dal quale un vero scrittore, se tale voleva essere considerato, avrebbe fatto bene a emanciparsi. La scelta di Levi di pubblicare con pseudonimo i primi suoi racconti di fantasia è l’effetto di questa anomalia.
Fino a ieri, Cayrol era conosciuto e apprezzato in Italia esclusivamente dagli storici del cinema: si deve a lui infatti la prosa poetica che accompagna e rende struggente l’ascolto, oltre che la visione di uno dei capolavori di Alain Resnais, Notte e nebbia (1956). Una meravigliosa colonna sonora, una trama di parole, che scorrono parallelamente alle immagini. La sua opera di scrittore più di recente è diventata più vicina a noi, indirettamente però, grazie alla fortuna che ha avuto in Italia l’opera saggistica di un grande, forse il massimo studioso di autobiografie, Philip Lejeune, primo a individuare e rendere nitida la linea della “memoria obliqua”, che unisce Cayrol a Georges Perec.
Di Cayrol rimane ancora inedito in Italia l’importante autobiografia (Il était une fois Jean Cayrol, Seuil, 1982) mentre è stato tradotto da Marina Galletti il fondamentale saggio teorico, Lazzaro tra noi (Nonostate Editore, 2016, che aveva pubblicato anche i due primi volumi della trilogia prima di chiudere), da cui discende il fortunato neologismo lazaréen, con cui da svariati decenni la critica in Francia è abituata a circoscrivere tutte le opere di finzione dedicate ai campi di concentramento nazisti: « Un art qui, par suite de ses créations et de ses procédés mêmes, porterait le nom d’art lazaréen».
L’aggettivo indica una parola che, come Lazzaro, ci accompagna «dalla morte alla vita», un cammino di risalita dalle profondità della solitudine verso la società degli altri. Di qui il titolo di Cayrol: Je vivrai l’amour des autres. Vivrò l’amore degli altri. Grazie all’utilizzo della finzione, la letteratura può giungere a risultati che sono negati alla pura memoria resa di fronte a un tribunale, “per conto terzi”. Di quest’arte, dice Cayrol, Guernica di Picasso rappresenta un modello da imitare, scrivendo e non dipingendo, per l’efficacia della decostruzione/ricostruzione finzionale della realtà. Il ricorso alla creazione artistica, non è da considerarsi offensivo dal punto di vista etico, se permette una migliore comprensione del male e una transizione verso il bene. Cayrol nella trilogia accompagna il personaggio redivivo lungo un doloroso processo di reintegrazione. Armand è un alter ego dell’autore.
Cayrol era nato nel 1911, nel 1943 entra nella Resistenza. Nel marzo viene imprigionato e deportato a Mauthausen. Dopo il ritorno alla libertà si dedica alla scrittura, entra nel mondo dell’editoria. Lavorerà per tutta la vita da Seuil, cimentandosi in diversi generi: dalla poesia (Poèmes de la nuit et du brouillard, 1950) alla saggistica, per non dimenticare la prosa poetica (Midi minuit, 1966).
La trilogia resa oggi disponibile in lingua italiana descrive il ritorno alla vita di un remnant, un sopravvissuto. Per suggerire un paragone ben conosciuto al pubblico italiano, potremmo dire che ci troviamo di fronte a un fratello gemello di Geo Josz, il protagonista della storia ferrarese di Giorgio Bassani, Una lapide di via Mazzini, che ritorna alla vita in un clima di conformismo e di surreale normalità.
«Da cosa fra le cose», scrive la curatrice, «Armand varca la soglia della comunità degli uomini, nella quale viene riconosciuto e accolto in quanto individuo». Il processo di accostamento del protagonista alla trama dell’esperienza, della vita vissuta, è descritto per gradi, attraverso successive prove non allegoriche come accade al protagonista del Flauto magico. Qui assistiamo a un itinerarium mentis di tipo culturale e sociale, laicamente salvifico. Osserviamo come al rallentatore il ritorno alla pienezza del vivere, come se fossimo di fronte a un processo di disgelo: «Dapprima attraverso lo spettacolo dell’amore degli altri, fino ad approdare alla presa di coscienza della propria personale capacità emotiva». Per restare alla metafora di Resnais, il ritorno alla vita di Armand si può confrontare al diradarsi della nebbia. Dalla «mutilazione morale», dalla «letargia emotiva» alla riscoperta della propria identità: un cammino anche linguistico che si materializza attraverso il passaggio dalla forma impersonale alla terza persona (una strategia narrativa che è anche di Primo Levi).
La vicenda è ambientata in una città di mare non meglio definita, forse Bordeaux, dove Cayrol è nato. Il libro segue la deambulazione di Armand, una cosa che ritorna uomo combattendo l’inerzia, in perpetuo movimento: il luogo dove entra in scena è la stazione con i suoi dintorni obbligati (di qui con ogni probabilità scatta la scintilla per l’incipit memorabile di Seebald in Austerlitz), i caffè, i grandi magazzini, dove Armand riavvia le sue prime, timide relazioni sociali. Il processo di maturazione dal male verso il bene, lo sguardo alto verso l’azzurro del cielo, potrebbe far venire in mente il non diverso cammino di Romain Gary, ma di originale qui c’è un lirismo volutamente trattenuto, ridotto all’essenziale, che nulla concede all’estetismo di Antelme.
In questa seconda tappa del suo cammino Armand si è affrancato dalla dipendenza degli oggetti, che nel primo volume condizionava i suoi spostamenti. Dalle cose si passa agli uomini, nel quadro di una grigia quotidianità: la venditrice dei biglietti della lotteria alla stazione, la lavandaia con i suoi saponi profumati, il fisarmonicista, il commerciante cinese con la sua valigia-casa, il cuoco della tavola calda e la moglie. Provenendo da un mondo puramente oggettivo, Armand incontra Lucette e Albert, teneri innamorati, in pagine di grande elevatezza spirituale: gli viene così spontaneo muovere verso una vita sentimentale, anche se per l’eroe di Cayrol amare senza la mediazione di un amore altrui è impossibile.
Non meno di Perec e Antelme, Cayrol capisce che dopo Auschwitz si deve continuare a scrivere, vietato vietare, ma non si può più scrivere come prima. Ugualmente, Jorge Semprun ritiene indispensabile l’utilizzo della finzione per affidare ai lettori la storia della sua prigionia a Buchenvald. Mettiamo volutamente in fila questa genealogia, perché risultino evidenti la lontananza e l’estraneità rispetto al contesto in cui venne a muoversi, in Italia, Primo Levi con i suoi libri. La questione ancora oggi appare problematica e irta di contraddizioni, di equivoci, di forzature e di banali errori interpretativi, come su questo portale osservava pochi giorni fa in un suo articolo Mario Barenghi, perché la misura di questa lontananza nessuno l’ha fino ad oggi calcolata e pertanto ci si dibatte nell’astratta e stanca controversia fra storia e letteratura.
Privo di interlocutori come Cayrol, Antelme o Perec, ignaro del ruolo che la finzione letteraria può avere nella formazione di un autore passato attraverso il Lager, Primo Levi si trovò costretto, non per sua colpa, a muoversi nel quadro un po’ claustrofobico della memorialistica testimoniale, cittadino di serie B nelle patrie lettere, uno Scrittore dimezzato. Concedendo spazio alla fiction romanesque avrebbe potuto sfigurare e così a lungo nascose il suo debito con i classici del passato. Confessò Dante, perché gli era impossibile non confessarlo, data l’enormità del debito contratto con il Sommo padre, ma, potremmo dire parafrasando Cayrol, occultò «il suo amore per gli altri» grandi scrittori che rendono straordinari i personaggi meglio riusciti di Se questo è un uomo.
Gli furono necessari molti anni per riconoscere questo stato di debolezza, questa forzata autocensura. Solo alla fine della sua vita, quando il contesto storico e letterario intorno a lui stava mutando, si sentì libero di confessare che i personaggi dei suoi primi due libri, come Armand di Cayrol, vivevano di vita propria. Anzi, tutto dovevano alla libera invenzione dell’autore, alle sue letture scolastiche piuttosto che non alla reale identità anagrafica. L’assenza di Cayrol è un dato significativo e anche per questo vi è da essere grati a chi oggi ci propone questa bella edizione.
Resta naturalmente da dimostrare se Levi fosse costretto a rinunciare perché il contesto storico-culturale italiano del suo tempo glielo imponeva oppure perché temesse davvero la fiction romanesque e cercasse in qualche modo di contenerla entro limiti che ancora ci sfuggono perché troppo poco indagati.