5 per mille

Le pallottole di Luigi Meneghello

8 Giugno 2025

Ora che il 25 aprile è passato, con il carico consueto di polemiche, converrebbe provare a fare un passo avanti lasciando da parte i luoghi comuni, le semplificazioni, i buoni sentimenti che stridono con gli stereotipi per provare a dire qualche cosa di nuovo. L’angolatura letteraria garantisce più e meglio dell’angolatura storico-politica.

Giusto sarà partire dalla Sobrietà, non quella però invocata dal Ministro Musumeci alla vigilia del 25 aprile, ma la Sobrietà secondo Luigi Meneghello, una formidabile lezione per il terzo millennio, parafraso Calvino, come si vedrà, non per caso.

La questione del rapporto letteratura e Resistenza ha il suo fondamento in alcuni contributi di questo scrittore: va detto che talora le sue idee innovative sono rese in maniera esplicita nella sua produzione saggistica più che nel capolavoro, I piccoli maestri (1964). Fanno da sfondo ai suoi pensieri, da interlocutori, due nomi: Italo Calvino e Beppe Fenoglio, così da costituire un trio di voci che, se si vuole capire meglio, vanno ascoltate insieme e non unilateralmente. Un trio, in verità, un po’ sghembo, perché non tutti parlano a tutti e non tutti stanno ad ascoltare tutti. Calvino, per esempio, dialoga con Fenoglio, ma ignora Meneghello. Fenoglio non fa in tempo a interloquire perché ci ha lasciato troppo presto (e comunque era refrattario alle discussioni teoriche). Ci ha lasciato materia per contendere, e quale materia. Infatti, a lui si appoggia (e con lui sia pure, in absentia, conversa) e Meneghello. Calvino si dice interessato soprattutto a Una questione privata, ma non sfiora le questioni generali. Ignora Meneghello, ma questi lo ripaga chiamandolo in causa indirettamente, con fine intenzione polemica, collocandolo in una posizione periferica nel suo dialogo appassionante con Fenoglio. Nella prefazione 1964 (l’anno dei Piccoli maestri) al Sentiero dei nidi di ragno e tanto meno dopo, nella discussione degli italianisti sulla Resistenza Meneghello fa capolino solo in anni molto vicini a noi senza per altro scalfire l’auctoritas di Calvino, la cui frase sulla ineluttabilità della scelta «giusta» ha avuto fra gli storici più fortuna che l’ironia antiretorica e la lezione di Antonio Giuriolo, maestro di piccoli maestri.

Secondo Meneghello le potenzialità di una narrazione resistenziale vanno ricondotte sui binari classici, manzoniani, nell’ambito del rapporto tra verità e finzione. Alla dialettica vero-verosimile, dice di preferire quella fra il vero e il veridico: «Non c’è dubbio che parecchie caratteristiche che attribuisco ai miei compagni erano piuttosto mie che loro: in questo senso si potrebbe perfino dire che i piccoli maestri li ho inventati io. Però (e ci tengo a sottolineare questo) li ho inventati nel 1944, non nel 1963, non in sede postuma e letteraria ma sul campo per così dire». Inventati, ma fino a un certo punto. E ancora, a margine di un passaggio molto studiato dei Piccoli maestri: «È uno strano momento, bisognerebbe che tra noi vi fosse uno scrittore». Tornato dalla Germania, a chi gli diceva devi scrivere quello che ti è capitato, Lelio rispondeva: «Allora vorrebbe dire che non mi è servito» Inventare i fatti non serve, essere realisti ancora meno («sarebbero invenzioni un po’ insipide»).

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Sembra quasi, spigolando qua e là fra gli scritti teorici, che Meneghello oscillasse intorno al veridico senza crederci troppo e soprattutto senza farne un vessillo. Poco gli importava del vero, qualche volta anche lui mirava diritto alla finzione, quando non alla poesia, facendo leva su un’altra dualità di derivazione forse crociana: poesia-non poesia (Meneghello amava parlare di «deviazionisti crociani di sinistra»). Che cos’altro può essere «la virtù senza nome» elogiata a proposito del Partigiano Johnny se non la poesia stessa? Nel saggio L’esperienza e la scrittura, raccolto nel volume Jura, non lo si dice apertamente, ma riportando i versi dell’Orlando furioso (XXIV, 63-4), dove si descrive il duello di Zerbin e il Saraceno e il suo epilogo cruento («il gran fendente che tra ‘l brando e lo scudo entra sul petto» e la striscia di porpora che ne deriva), si trova la maggiore vicinanza al Calvino ariostesco: quel colpo che «penetra nel vivo a pena tanto» fa pensare al «bel purpureo nastro» veduto partire dalla tela d’argento, che a Meneghello fa venire in mente per contrasto le ferite e i morti della guerra per bande (descritta però, nel capolavoro, tenendo Mazzini in mano). «Forse», conclude inconsciamente collocandosi sul fronte della più assoluta libertà d’invenzione, «si può dire solo che la distinzione tra esperienze vere e immaginarie, nei bizzarri reparti della mente dove si attingono le nostre scritture, è soltanto una distinzione di comodo».

Salvo rari casi, mettendo insieme i riferimenti sparsi, la tendenza di Meneghello storico della Resistenza e narratore, confermerebbe una presa di distanza tanto dalla libera fantasia, quanto dalla realtà fattuale. Sappiamo quanto poco amasse Uomini e no, tanto da farne un modello negativo se paragonato a Fenoglio (Vittorini non esprimeva «quelli che a me parevano i caratteri veri della resistenza, ma ne faceva la caricatura»). La predilezione per Fenoglio nasce innanzitutto in virtù di una quasi gemellarità: «Eravamo coetanei, nati a pochi giorni di distanza … La vita di Fenoglio e la mia si sono svolte su linee parallele: simili esperienze scolastiche, simili rapporti con figure di insegnanti educatori … Chiamati entrambi alle armi all’inizio del ‘43, spostati entrambi nell’Italia centrale per la seconda parte del corso, lui a Roma io a Tarquinia, poi l’8 settembre, lo sbandamento visto e vissuto in modi analoghi, il periglioso ritorno a casa e il coinvolgimento nella Resistenza, come avremmo detto allora; poi l’andata in montagna con parallela intensità di emozioni… E infine il fatto che entrambi abbiamo poi scritto su quella materia e, separatamente, sulla gente dei nostri luoghi di origine».

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Meneghello dedica meno spazio a Calvino, nei due interventi dove parla di esperienze partigiane: lo fa con curiosa ostinazione, ripetendo gli stessi argomenti, quasi le stesse parole, ma oggetto della sua insistenza non è (curiosamente) il Sentiero, ma le più tarde lezioni americane. Nel primo caso (si tratta del suo contributo teorico più notevole), il saggio La virtù senza nome, si trovano pensieri molto simili a quelli che leggiamo nell’altrettanto impegnativo intervento critico dedicato espressamente a Fenoglio, Il vento delle pallottole. Lo spunto viene sempre dalle lezioni americane di Calvino. Il primo è “un reperto” del volume La materia di Reading (1997), il secondo lo incontriamo nel terzo saggio “sul lievito poetico delle scritture” di Quassù nella biosfera (2004). Meneghello sembrerebbe voler dire la sua sul piano linguistico, ricamando sul significato lessicale di «memos», ma si capisce bene che è un pretesto per evitare di apparire troppo provocatorio nel contrapporre Fenoglio a Calvino. Il Calvino partigiano sanremese, il Calvino di Pin non trova spazio né tra i reperti di Reading, né è catalogabile tra gli ingredienti che servono per amalgamare il «lievito poetico della scrittura partigiana». Si parte da Calvino del terzo millennio per tessere l’elogio del Fenoglio 1943, e tessere l’elogio del capolavoro, Il partigiano Johnny, «un libro postumo di un partigiano che era eroico nella mente, succhiava forza eroica dalle cose, non so bene in quali fasi del percepire e del pensare, e la riciclava in frammenti e schegge penetranti, che a tratti non sembrano né discorso né immagini, e non veramente italiano o inglese ma una specie di ispirato diversiloquio».

Dobbiamo guardare con attenzione al «diversiloquio» sulla Resistenza, conseguenza inevitabile della condizione di Meneghello «dispatriato» («Ero in Inghilterra, un po’ in disparte, e coltivavo un certo distacco polemico dall’ambiente culturale del mio paese»). La discussione sulla lingua che Fenoglio adopera per parlare della Resistenza, una lingua che non è veramente né italiano né inglese, è un velo che va sollevato per capire che cosa c’è sotto. Sotto alla straordinaria competenza di Meneghello linguista, attratto sempre dai problemi delle traduzioni, si cela un diverso sentire, effetto di una esperienza personale. Un diverso angolo prospettico, un anomalo, asimmetrico sguardo sulla lotta partigiana che è tipico di chi ha scelto l’esilio. E non un esilio in un paese e in una cultura qualsiasi. Meneghello ci aiuta a capire più di altri che cosa sia stata la Resistenza perché ha iniziato a studiare il problema da fuori: l’Italia fuori d’Italia. Un problema di esuli in patria che diventa metafora della condizione partigiana. Qui gioverà accostare al dialogo «inglese» tra Meneghello e il Fenoglio di Johnny, non tanto il Calvino dei Six Memos, quanto piuttosto il pensiero di un secondo uomo della Resistenza dispatriato e diversamente parlante.

Il diversiloquio di Carlo Dionisotti, dei suoi saggi sulla Resistenza non molti anni fa raccolti da Einaudi, per le cure di Giorgio Panizza. Due citazioni scelte a caso, vengono comode per fare un piccolo, rapido test sul diversiloquio e prendere atto di come la ironica loquela dei dispatriati sia la medesima: «Alle radici della guerra partigiana c’è questo elemento oscuro e selvatico giustificato dalla legge stessa del nemico ma che, come semplice rappresaglia, non si spiega. È piuttosto una liberazione spontanea e improvvisa di energie umane dalle macerie di una catastrofe definitiva, l’istinto o la coscienza di non avere più riparo nel passato né garanzie né impegni, e di doversi perciò riconquistare un posto e una ragione di vita con la violenza, sola arma superstite di una società senza avvenire e senza leggi. Questo richiamo all’azione violenta da parte di un mondo deserto, svuotato di tutto che non sia minaccia e rovina, spiega quel buttarsi dei singoli allo sbaraglio prima e la graduale diffusa mobilitazione poi della guerra partigiana in Italia». Uno studioso di Meneghello alle prime armi potrebbe essere indotto nell’errore, concludendo che queste righe siano del suo beniamino, quando invece sono di Dionisotti, come le seguenti, quasi una parafrasi dei piccoli maestri: «Non abbiamo avuto un Garibaldi o un Mazzini. Neppure abbiamo avuto un De Gaulle o un Tito. La storia della Resistenza è anche una storia di eroi, ma di eroi con l’iniziale minuscola e, senza quasi, eccezione, di uomini che sono stati riconosciuti tali perché e dopo che essi ebbero fatto sacrificio della loro vita. Quali che fossero le loro speranze e propositi, essi combatterono e morirono per rompere il cerchio che si era stretto intorno a loro e ad altri, che potevano avere e di fatto avevano speranze e propositi diversi. Dopo si sarebbe edificato: prima bisognava sopravvivere e fare piazza pulita».

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Gli effetti stranianti di questo diverso modo di scrivere di Resistenza producono una originale visione storico-politica. Carlo Dionisotti e Meneghello sono uniti contro l’Arcadia e la retorica, antiche malattie d’Italia che hanno colpito la scrittura partigiana, inficiando anche le speranze di una libera invenzione ariostesca. Menaldo, Coridone, Melibeo, Tigre, Incendio, Saetta: «Mentre russi e alleati tiravano il collo al nazismo, noi cercavamo almeno di tirarlo alla retorica». Sul diversiloquio dei dispatriati bisognerebbe ritornare con una apposita ricerca. L’ammirazione di Meneghello per Fenoglio, per esempio nasceva dal fatto che l’albese, con il suo impasto linguistico anglo-italiano era per così dire un dispatriato in patria: «Voglio tornare alle raffiche, l’alone magnetico delle pallottole, il loro sciame attorno al partigiano inseguito. Nei testi di Fenoglio il senso del rapporto con questo sciame velenoso è tra le cose più intense della scrittura del Novecento italiano. Quello che è forse il culmine supremo investe Johnny che ha assunto un diverso nome di battaglia: «Già sparavano, di moschetto e di mitra … Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze … Gli pareva non di correre sulla terra, ma di pedalare sul vento delle pallottole. Pedalare! Certo un’epifania della virtù senza nome». Letteratura e poesia si sforzano di trovare una definizione alla scrittura vera, «una virtù senza nome», il cui scopo altro non è se non quello di combattere la retorica.

Per scongiurare il pericolo di Arcadia, Meneghello non si lascia intimidire dall’autorità di Calvino, semplicemente cerca di sorpassarla. E qui spunta la Sobrietà, non quella, come si diceva, del Ministro Musumeci, una virtù del terzo millennio, che Meneghello elogia per contrastare l’Abbondanza della Retorica resistenziale, moralistica, predicatoria. Celebrativa. In margine ai Six memos suggerisce dunque, sempre nello stesso saggio, sempre parlando di Fenoglio, di aggiungere for the Next Millennium un’altra coppia di opposti. Sobrietà/ Abbondanza: «Il racconto sobrio e secco, tutto eventi, quasi scevro di commenti, digressioni, ramificazioni, abbondanze si può contrapporre al racconto-meandro, copioso, policentrico, fitto di vegetazione ramificato». Per concludere così: «Penso che, come il coraggio, la brevità pregnante uno non può darsela: si può solo ammirarla in chi ce l’ha».

Sobrietà e brevità sono qualità che possedeva anche Dionisotti, per la semplice ragione che erano qualità apprese, come diceva lui, more anglico. A tal punto amava la sobrietà da applicarla quando contrapponeva la scrittura narrativa di un Roberto Battaglia, autore di un importante e sobrio mémoir autobiografico nel 1946 (Un uomo, un partigiano) al Battaglia autore dell’ideologica Storia della Resistenza (1953): «Bisogna liberare la storia della Resistenza da questi inutili e ridicoli bersagli polemici del senno di poi. Si è data convincentissima prova, allora, in Italia di una qualche abilità al tiro contro bersagli mobili e scomodi. Non è il caso di impiantare fantocci che servano oggi soltanto alla scarsa mira degli storici». Il diversiloquio dei dispatriati è sempre una controstoria della Resistenza e della «falsa mira degli storici». Largo l’uso dell’ironia anglosassone. Non Ariosto viene chiamato in causa, in situazioni come queste, ma Tecoppa, la lezione del duello di Ferravilla, sempre attuale secondo Dionisotti nemico della Abbondanza e della Retorica: se l’avversario non si movesse, sarebbe facile colpirlo, ma di regola purtroppo l’avversario si muove: «Tutto ciò nel 1965. Pretendere che nel 1945 e magari già nel 1943 e ‘44, gli Alleati dovevano capire e apprezzare e pertanto aiutare senza riserve la Resistenza italiana è pretesa che fa il paio con quella di Ferravilla duellesca. “Ma se el sta minga fermo, come fo a ciapàll”».

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La rivincita della letteratura sulla storiografia, nella lunga stagione che precede l’uscita del classico libro di Claudio Pavone (libro impensabile prima del 1989), può avvenire grazie alla virtù dell’Ironia, che non ha bisogno di un antagonista, come l’Abbondanza alla Sobrietà. L’Ironia è l’arma vincente, scrive Meneghello sempre nel medesimo saggio: «La facoltà di spostare (o anche capovolgere) il punto di vista di un testo, con l’intento di contrastare la pomposità, la pedanteria, la retorica, e specialmente la presunzione, il dogmatismo, la saccenteria, la sicumera che insidiano noi tutti, e rendono alcuni di noi così antipatici».

La serietà è la virtù contraria a quella dell’ironia, ma anche qui senza eccedere, per non cadere nell’Abbondanza: «Troppa ironia stroppia, ma d’altro canto la ernestness stroppia anche lei». Dà un po’ di fastidio concludere che «è questione di equilibrio», l’eterno compromesso.

Nota

Di Carlo Dionisotti il rinvio è ai suoi Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, a c. di G. Panizza, Einaudi, 2008, in particolare si fa riferimento al pionieristico saggio Letteratura e Resistenza (uscito su “Aretusa”, gennaio-febbraio 1946), qui alle pp. 173-188. Un’ottima occasione per riascoltare il diversiloquio meneghelliano di Dionisotti è data dal carteggio con Alessandro Galante Garrone, «Le radici della vita». Una lunga amicizia attraverso la corrispondenza (1941-1997), a c. di G. P. Romagnani, Edizioni di Storia e Letteratura, 2025. Le citazioni da Meneghello sono tutte riprese da Opere scelte, a c. di F. Caputo, con un saggio di G. Lepscki, introduzione di D. Starnone, Mondadori, 2006. In particolare, le citazioni sono riprese da: L’esperienza e la scrittura (pp. 1037-1039) e Quanto sale? (pp. 1108,1110-1111), già apparsi entrambi in Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte, 1987; La virtù senza nome (uscito in La materia di Reading e altri reperti, 1997), le citazioni nel testo vengono dalle pp. 1421, 1432, 1434; le citazioni su Fenoglio vengono invece da Il vento delle pallottole (pp. 1608-1610, 1612-1615), in prima edizione il saggio si legge in Quaggiù nella biosfera. Tre saggi sul lievito poetico delle scritture, 2004. Riprendo qui, in una versione scorciata, una parte della mia relazione al recente convegno promosso dall’Università di Paris 8, Actualité de la Résistance 1945-2025, svoltosi alla Maison de l’Italie di Parigi lo scorso 25 aprile. Sul rapporto fra letteratura e Resistenza ulteriore bibliografia si può trovare nell’ultima edizione del mio libro La Resistenza spiegata a mia figlia (Feltrinelli, 2023). Sul rapporto fra Meneghello e l’intertestualità, anche in relazione a Fenoglio e ai suoi maestri Chiodi e Cocito, ma soprattutto per la lezione di Antonio Giuriolo rimando al mio Il corvo e la margarina. Meneghello e il personaggio-uomo, Ronzani, 2024.

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