La porta stretta della creazione
Anche volendo sarebbe impossibile, parlando di creatività, evitare una considerazione di Robert Musil: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri…” [L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1957; p. 12]. L’atmosfera che Musil crea attraversa i saggi del libro curato da Marco Manzoni, Creazione e mal-essere. Quando la solitudine diventa arte, edito da Moretti&Vitali, Bergamo 2025. Gli autori convocati a riflettere su questa complessa e irriducibile distinzione di noi animali umani sembrano ispirati dal prosieguo della considerazione del grande scrittore che, col suo capolavoro, ha segnato per sempre la lettura del ‘900 e di non pochi essenziali aspetti dell’esperienza umana: “…questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto, è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità.” [ivi]. E prosegue Musil, più avanti: “Un’esperienza possibile o una possibile verità non equivalgono a un’esperienza reale e una verità reale meno la loro realtà, ma hanno, almeno secondo i devoti, qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione.” [ibidem]. Associare lo sgomento, il fuoco, lo slancio, l’utopismo, fino alla proiezione verso il divino e alla creatività può apparire eccessivo, eppure, almeno come insieme di immagini descrittive, può essere proficuo per cercare di comprendere uno dei fenomeni più inafferrabili della nostra esperienza. Una soglia del nostro trasumanare, del nostro andare oltre i confini canonici, del nostro autoelevarci, tra inquietudine, sofferenza e trascendenza, associa la capacità di creazione al male mentale, al mal-essere. Non si tratta certo di un determinismo, né tanto meno di una connessione. Siamo forse di fronte a un’associazione possibile, peraltro a lungo esplorata nel tempo. Anche perché i due poli associabili sono quanto di più articolato e sfuggente ci distingue, il mal-essere e la creatività, e forse proprio quella soglia dell’umano può aiutarci a comprendere qualcosa di come diveniamo noi stessi. Carla Stroppa, nel suo contributo al volume, Un’affollata e confusa solitudine, chiama in causa un grande protagonista del pensiero, Aldo Giorgio Gargani, che di attraversamenti di sé stessi e di coraggio di accedere e percorrere la soglia e l’ibridazione di codici creativi ha fatto una delle ragioni del proprio cercare e del proprio essere: “Noi siamo disposti a qualsiasi cosa pur di evitare il confronto decisivo della realtà, siamo disposti a dannarci per tutta la vita pur di rimandare l’incontro con il vuoto e con l’attrito del mondo e con gli altri uomini dai quali siamo circondati. Ci vuole coraggio: quello di un congedo radicale dai luoghi comuni e dalle definizioni di noi che gli altri ci hanno accollato mettendoci di fronte a specchi che molto spesso sono stati deformanti. […] noi siamo allo stesso tempo attori e spettatori di un grande dramma dell’esistenza […] Abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei nostri genitori e che poi è modellata dalle autorità parentali, familiari, sociali, culturali, e da tutte quelle istanze noi siamo resi di colpo responsabili senza per così dire averlo richiesto. Ma poi c’è una nuova nascita, che non è quella percepita dall’esterno e che è precisamente la nascita che ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia, ridefinendola con la nostra scrittura (col nostro sguardo trasformato) che stabilisce il nuovo stile secondo il quale noi ora esigiamo di essere compresi dagli altri” [Gargani, La seconda nascita, Moretti&Vitali, Bergamo 2010, p. 324]. Se si va oltre la deissi e si sottopone l’ipotesi associativa del male mentale alla creatività, emergono i limiti della forzatura. Prendendo in considerazione i contributi più rilevanti della tradizione di studi psicoanalitici un confronto tra i più rilevanti può essere di aiuto, quello impegnativo e certo non agevole tra Donald Winnicott e Melanie Klein. Laddove quest’ultima aveva ampiamente sostenuto l’ipotesi che l’atto creativo nascesse sostanzialmente da una posizione riparatoria rispetto alle angosce di base e primarie, Winnicott evidenzia una dimensione costitutiva della vita che protende alla generazione creativa, non necessariamente e non solo connessa alla elaborazione di ferite e di angosce. Sarà Daniel Stern con la sua ipotesi relativa ai tratti distintivi delle forme vitali a mettere in evidenza la tensione creativa e generativa dell’essere e della vita. Se la ferita e l’elaborazione riparativa sono associate alla creazione, è possibile sostenere che non sono l’unica condizione della generatività umana. Creiamo perché siamo cablati per non coincidere mai con noi stessi, per tendere all’oltre rispetto all’esistenza, portatori come siamo di una tensione, una “tensione rinviante”, che tende a cercare oltre i confini noti e consueti, oltre i canoni esistenti, oltre i limiti consentiti dagli ordini consolidati [U. Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Milano 2010]. Ciò non esclude che intervenga una componente più o meno elevata di solitudine nell’esperienza di creazione, anche se sarebbe importante chiamare in causa una domanda sulla effettiva solitudine, sull’essere noi, in qualsiasi circostanza realmente soli, anche quando lo siamo fisicamente, e persino quando siamo in eremitaggio. Siamo, forse, sempre una moltitudine e in quella moltitudine che noi siamo prevalgono di volta in volta presenze rilevanti che occupano la tela o la pagina bianca. L’atto creativo probabilmente consiste nel selezionare, cioè scartare e scegliere, perché qualcosa emerga e si stagli come non scartabile e ci sceglie mentre la scegliamo per attraversarci e, avvalendosi di noi, finalmente manifestarsi.
Ha ragioni rilevanti Marco Manzoni per affermare che “dietro ogni creazione c’è un’emozione”. Forse anche più di una, che provengono dal corpo-cervello-mente del creatore, in una relazione con gli altri in un contesto. Da quella “solitudine troppo rumorosa”, per dirla con Bohumil Hrabal [Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi, Torino 2014], si staglierà un segno, un gesto, una parola, un suono, capace di un processo di “artfication”, di “making special” di quanto fino a quel punto era stato ordinario nel repertorio del mondo [E. Dissanayake, The Hypothesis of Artification, Cognitive Semiotics, 5: 148-173, 2008]. “La solitudine diventa, da questo punto di vista, lo stato ideale per una ricerca che spazia nel territorio dell’ignoto, in una tensione che si indirizza spesso verso la creazione”, scrive Marco Manzoni nella sua introduzione al libro. La solitudine e il mal-essere si propongono in tal modo come una simbolica frontiera tra il “normale”, il patologico e il creativo; un margine carico di intensità, che ci svela la reale finitezza dell’uomo, la sua provvisorietà, i limiti e i vincoli che appartengono all’esistenza, smascherando l’illusione di stabilità che nasce dal vivere quotidiano. Possiamo quindi interpretare le differenti fenomenologie dell’inquietudine come segnali e messaggi precisi del nostro corpo e della nostra psiche che intendono dirci, con il loro particolare linguaggio, qualcosa che può essere raccolto nel flusso dell’ordinario per essere trasformato in creazione. Se questo processo riguarda gli artisti o può essere attribuito in particolare ai geni, appare necessario considerare la connessione che esiste tra questi e ogni essere umano. Non vi è soluzione di continuità, infatti, tra uno stato di eccezione, come può essere considerato quello del genio o dell’artista e la possibilità che ogni essere umano ha di far scaturire da sé stesso un gesto creativo o generativo. Semmai è necessario riconoscere come sia poco coltivata la capacità creativa individuale e la disposizione che noi abbiamo a manifestare le nostre forme vitali. L’articolazione dei processi emozionali e dei sentimenti, nonché dell’affettività, che vanno dall’inquietudine, alla curiosità, al dolore, alla sofferenza, svolgono parimenti un ruolo nel sostenere la capacità umana di esprimere l’inedito.

Secondo Marco Manzoni, esperienze di vita creativa come quelle di Eugenio Borgna, Annamaria Ortese, Sebastião Salgado, esemplificano l’ipotesi del libro che associa il mal-essere alla creazione. “Tre vite analogamente vicine alla sofferenza e alla solitudine e capaci di reggere, anche se a fatica, questa vicinanza e di estrarne – come fossero pionieri di una miniera interiore – pepite di senso e di sapienza, spesso incomprese dall’establishment intellettuale. Queste esperienze conservano una essenza spirituale e etica, in una prospettiva non materialista dell’uomo e della vita che ci indicano che anche oggi in una condizione critica e che appare senza una visione del futuro, senza una utopia praticabile, è possibile quell’alchimia imprevedibile, rincuorante, disvelatrice”. Di una certa importanza è considerare la sofferenza e le ferite della vita come condizioni che possono dar vita ai processi creativi, ma altrettanto importante è mettere in evidenza il fatto che non sono queste le uniche condizioni che favoriscono e sostengono l’emergere delle capacità creative e generative degli esseri umani. Abbiamo cercato di evidenziare prima come la capacità creativa e vitale sia probabilmente uno dei tratti distintivi della nostra specie, in ragione del comportamento simbolico e della capacità di costruire mondi e storie parallele. Le vie dell’immaginazione sono tante, imprevedibili e sorprendenti. Come propone Edgar Morin, c’è l’inatteso, l’imprevedibile, il sorprendente, qualcosa che ci avvicina simbolicamente al sentimento di stupore cantato dagli antichi filosofi e poeti. Ci sono le virtù della crisi e del pericolo da cui cogliere nuovi pensieri, impulsi creativi, forme inedite di relazione. Le virtù generatrici dell’umanità e la sua aspirazione millenaria all’armonia che possono riemergere come necessità interiori ineliminabili, anche in una condizione di grande sofferenza e isolamento come quella attuale.
Nel saggio di Eugenio Borgna contenuto nel libro è possibile confrontarsi con la soglia ambigua e vertiginosa del rapporto tra male mentale e creazione: “Sono in questo senso emblematiche le opere di Van Gogh compiute fra il 1888 e il 1890, e quelle di Hölderlin scritte fra il 1802 e il 1805, quando esperienza psicotica (schizofrenica) ed esperienza creativa (artistica) sembrano strettamente connesse l’una all’altra: trascinando il discorso pittorico e quello lirico ad altezze stupefacenti. Come dice (…) Jaspers, il fatto che si possa stabilire una connessione fra l’inizio della psicosi e il vertiginoso approfondimento estetico fa nascere inquietanti riflessioni. Forse, egli dice, l’esperienza metafisica più profonda, quella in cui l’essere prende coscienza dell’assoluto, non è possibile se non nell’istante in cui l’anima è scissa e lacerata: dis-locata”. Il contesto sociale e le sue trasformazioni, con le emergenze e le crisi che ne derivano, è lo scenario in cui i mondi interni si esprimono, come evidenzia nel volume Carla Stroppa. L’arte e la letteratura secondo l’autrice sono in grado di riattivare l’autentico domandare in modo particolarmente vivo e sofferto perché mettono in scena in modo diretto i tormenti e le speranze dell’anima: non lo fanno mediante l’argomentazione astratta, ma mediante l’immagine, la metafora, l’allusione. Mediante il gesto diretto e supremamente espressivo del corpo che soffrendo e creando dischiude la visione dell’anima. Nell’arte e nella letteratura lo scarto fra il dentro e il fuori e il segreto desiderio di riconnessione fluiscono nella parola viva della narrazione, nello slancio e nello sgomento della poesia, nell’immagine profonda che è la loro matrice. Con il saggio di Iolanda Stocchi si conferma uno dei tratti del volume curato da Marco Manzoni: leggere il presente con un approccio prevalentemente negativo giungendo a proporre quella che sarebbe una crisi di immaginazione collettiva e soprattutto dei giovani. Se vi sono elementi per evidenziare la velocità non governata delle trasformazioni in corso, sembra davvero difficile condividere tesi catastrofiste come quelle di Byung-Chul Han e Miguel Benasayag, per citare due autori di grido, in quanto vi sono prove diffuse delle differenti vie che segue l’immaginazione giovanile oggi. Non solo, ma la capacità immaginativa è un tratto costitutivo della specie umana e se cambiano le sue vie e le sue espressioni è necessario non confondere questo con la sua scomparsa.
È Luigi Zoia, che nel libro propone di considerare la creazione come un eccesso di risposta all’ostacolo, a portare l’attenzione all’avvento della capacità creativa che probabilmente è avvenuta mano a mano che l’uomo elaborava l’idea del creare come diversa dal semplice fare. Quel processo verosimilmente riguarda sia l’evoluzione della specie che lo sviluppo del singolo individuo della specie. L’idea di creazione si sposta, così, da atto corrispondente a un fare limitato che reintegra quanto il tempo cancella, che governa l’avvicendarsi delle cose, ad atto rivoluzionario, parte di un processo irreversibile di mutamento e di miglioramento, dove ciò che non era è posto in essere. “Parlando di un creatore intellettuale o artistico”, scrive Zoia, “noi restauriamo la creazione come evento dell’uomo; anzi, etimologicamente, come crescita umana per eccellenza. Al tempo stesso ci accorgiamo che è necessario sottrarla alla connotazione unilaterale di atto solo positivo”. Creiamo, infatti, L’uomo senza qualità di Robert Musil, il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini, la bomba termonucleare, le macchine per la tortura. Marco Manzoni ha voluto convocare a confronto una ricca compagine di studiosi, filosofi e poeti per scandagliare il difficile problema della creatività e della capacità umana di generare l’inedito. La portata del tema è tale che le questioni non possono che rimanere aperte, come ben indicano le domande che nel suo saggio si pone Nadia Fusini: “Se il dolore sia necessario alla creazione, o non vi sia piuttosto nel dolore una lesione del dire, e dunque non apertura di parola, ma ammutolimento; se la poesia, la letteratura, debbono necessariamente venire di là, dall’esperienza del dolore; se la poesia, l’arte siano “scienza triste” e non piuttosto gay savoir questa mi sembra la domanda che si debba porre. Vi è certamente legame tra, diciamo, commozione e creazione; c’è senz’altro motus du mot, la parola è portata da un movimento. Ma quale? Qual è il movimento, la motion e l’emotion della creazione?”