Siamo conversando
Era il 1940 quando Jakob von Uexküll pubblicò la sua Bedeutungslehere, ora finalmente disponibile anche in italiano grazie alla cura e a un’introduzione di Pietro Garofalo (La teoria del significato, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2024). Il testo esce contemporaneamente alla nuova edizione del libro di H. Maturana e F. Varela, L’albero della conoscenza. Le radici biologiche della conoscenza umana, (Mimesis edizioni, Milano-Udine 2024), con un saggio di Mauro Ceruti e Luisa Damiano, praticamente un libro nel libro, il cui titolo è un programma di ricerca: Il passato nel futuro. Mente, reti e alberi della conoscenza. Nonostante tutto, i due volumi mostrano come stia progredendo la ricerca per mostrare la naturalizzazione della conoscenza e esaltarne il valore e la potenza, mentre la si colloca nella prospettiva della nostra evoluzione di specie. Come mai: “nonostante tutto”? Nel 2025 saranno trascorsi quaranta anni da quando Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti e alcuni di noi proposero la sfida della complessità. Furono soprattutto le radici biologiche della conoscenza che aprirono la strada che avrebbe portato, con tutta la fatica dei cambiamenti paradigmatici, a riconoscere il rapporto tra vita e conoscenza e a porre le basi per una visione non deterministica e non riduzionista, cioè non mortificante, della natura dei sistemi viventi e delle distinzioni dell’esperienza umana in particolare. Il cambiamento di paradigma è avvenuto e si è consolidato? Non ancora. Cognitivismi, riduzionismi, determinismi, dualismi, scientismi da un lato, e fughe nelle vaghezze dell’esoterismo, delle derive new age, della spettacolarizzazione di aspetti politicamente corretti e banalizzati dall’altro, giocano un ruolo prevalente. Eppure, magari a denti stretti, per vie carsiche, il paradigma epistemologico della complessità si diffonde, adottato spesso da chi non ne conosce origine e fondamenti ma lo trova appropriato alle ricerche per comprendere il presente.
“Conoscere come conosciamo” è l’argomento del libro di Maturana e Varela. Presentando una nuova visione della conoscenza, gli autori ne evidenziano le importanti implicazioni sociali ed etiche: il solo mondo che noi umani possiamo costruire e avere è quello che creiamo insieme attraverso le azioni e le relazioni della nostra coesistenza. È bene precisare che il contributo di Maturana e Varela non è soltanto un’altra tra le introduzioni alla biologia della conoscenza. Si tratta in realtà di una prospettiva globale finalizzata a costruire un approccio alternativo alla comprensione delle radici biologiche della conoscenza. In questo senso il libro propone una discontinuità particolarmente importante nei modi di cercare le basi naturali della cognizione e della significazione. Una questione tra tutte può anticipare e chiarire l’originalità e la distinzione del contributo a comprendere la conoscenza della conoscenza umana contenuto nel libro: il processo del conoscere non è considerato come una rappresentazione del “mondo là fuori”, bensì come una permanente produzione di mondo, – potremmo parlare di worlding –, attraverso il processo stesso della vita.
Come è noto, nel contributo più conosciuto e diffuso degli autori, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, (Marsilio, Venezia 1980), essi sostengono che la vita è conoscenza. La critica alla conoscenza come rappresentazione è sviluppata da Varela anche in un altro importante testo, Scienza e tecnologia della cognizione, (Hopefulmonster, Firenze 1987), testo che affronta una delle principali questioni irrisolte per comprendere l’esperienza e il comportamento umani. Secondo la cosiddetta Teoria della mente, infatti, noi arriveremmo a conoscere l’altro attraverso la rappresentazione della sua rappresentazione mentale. L’exergo di Warren Mc Culloch,che Ceruti e Damiano appongono all’inizio del loro saggio, indica bene la natura del problema: Don’t bite my finger, look where I ampointing: si tratta di volgere lo sguardo al corpo, al movimento e alla sua autoorganizzazione, che nella relazione con gli altri e il mondo lascia emergere la conoscenza mediante il processo stesso del vivere. La tendenza, invece, è consegnarsi a una prospettiva informazionale e cognitivista.
Vi sono creazioni scientifiche che precorrono i tempi, risultando così premature e anticipatrici: quando presentano un grado elevato di innovatività quest’ultima può diventare un ostacolo. Gaston Bachelard ha parlato di ostacolo epistemologico; Erique Pichon Rivière di angoscia epistemofilica. Sta di fatto che seguire una rivoluzione paradigmatica diventa destabilizzante. Tanto è vero che il senso più rilevante del concetto di paradigma, introdotto da Thomas Kuhn, si riferiva proprio alla funzione di ostacolo rassicurante e contenitivo che un certo paradigma condiviso in una comunità scientifica svolge nell’impedire l’innovazione e la discontinuità della conoscenza. La prospettiva computazionale, informazionale e cognitivista nella concezione della conoscenza umana è ancora qui, in mezzo a noi, e con la cosiddetta intelligenza artificiale vive una stagione di successi pervasivi.
Quando una scoperta scientifica precorre i tempi gli ostacoli a riconoscerla si accentuano, come mostra uno studio di Gunther Stent, citato da Ceruti e Damiano.
Una dimensione difficile da accettare e da accogliere è quella autofondativa, per noi umani che tendiamo a consegnarci costantemente alla ricerca di una causa prima e finiamo per trovarla. Eppure, a distinguerci, e a distinguere la nostra vita, è proprio la conoscenza intesa come una permanente produzione di mondi attraverso il processo stesso del vivere. Si tratta di mondi paralleli, come li definisce Vittorio Gallese. Mentre produciamo mondi, producendo quei mondi produciamo noi stessi. Maturana e Varela sostengono: “La nostra proposta è che gli esseri viventi si caratterizzano perché si producono continuamente da soli, processo che indichiamo denominando l’organizzazione che li definisce organizzazione autopoietica” (p. 57) Nella loro accezione, questione molto importante, l’organizzazione di qualcosa è “quell’insieme di relazioni che devono esistere e devono verificarsi perché questo qualcosa esista”. In questa prospettiva la struttura è una delle possibili manifestazioni contingenti di quella organizzazione. Mauro Ceruti sostiene che inscrivere il problema della conoscenza nel cuore stesso del problema della vita, se da una parte consente di superare l’astratto normativismo della tradizione epistemologica, dall’altra parte rende plausibile il progetto di una storia naturale della conoscenza (e dunque rende possibile adottare una visione naturalistica dei processi cognitivi interni al soggetto conoscente fondata su una biologia antiriduzionistica). Oltre ogni linearità riducibile a una prospettiva causa-effetto, emerge in tutta la sua rilevanza una visione basata sull’interessante idea di glidingevolution, di evoluzione di sistemi che slittano l’uno contro l’altro come pezzi di ghiaccio e non raggiungono mai un equilibrio stabile, dal momento che le totalità interattive che costituiscono non riescono mai ad abolire la conflittualità e l’autonomia delle sue componenti. Queste prospettive convergono nell’approfondire un’idea di coevoluzione dei sistemi, e di coevoluzione di ciò che l’osservatore definisce come sistema e come ambiente, che rifiuta la prospettiva di un fondamento assoluto dei processi evolutivi e conoscitivi. In base a questa visione delle caratteristiche dei sistemi viventi, l’ambiente non determina la struttura, l’unità e l’identità del sistema considerato, ma è questo, al contrario, che fra gli stimoli che gli provengono dall’ambiente seleziona quelli ammissibili e quelli non ammissibili, quelli integrabili nei cicli che definiscono la sua organizzazione e la sua individuazione in quanto essere vivente, e quelli non integrabili. Siamo di fronte a un invito a interrompere l’abitudine a cadere nella tentazione della linearità e della certezza. Ogni esperienza conoscitiva, infatti, coinvolge colui che conosce in modo personale, radicato nella sua struttura biologica, per cui ogni esperienza di certezza è un fenomeno individuale sordo all’atto conoscitivo di un altro, in una solitudine che si supera solamente nel mondo che si crea con esso. Esaminando da vicino in che modo arriviamo a conoscere il mondo e ogni mondo che conosciamo, scopriamo in quale modo la nostra esperienza sia indissolubilmente legata alla nostra struttura corporea. Non possiamo separare la storia delle nostre azioni, biologica e sociale, da come ci appare un certo mondo: “questa cosa è tanto ovvia e vicina da essere la più difficile da vedere” (p. 41). Se ogni cosa detta è detta da qualcuno, e se ogni azione è conoscenza e ogni conoscenza è azione, abbiamo bisogno di renderci conto che il fenomeno della conoscenza non può essere concepito come se esistessero “fatti” o “oggetti” esterni a noi che “uno prende e si mette in testa. L’esperienza di qualcosa là fuori è convalidata in modo particolare dalla struttura umana che rende possibile ‘la cosa’ che emerge dalla descrizione” (p. 43).
Lo studio della conoscenza deve allora essere condotto non parcellizzandone i processi, bensì ricostruendone la complessità, cioè comprendere costruendo (understanding by building). In base all’ipotesi di Mc Culloch, elaborata con il matematico Walter Pitts, ipotesi che ha prodotto la possibilità di una transizione epocale, tutti i processi cognitivi, dalla percezione all’apprendimento, dal ragionamento alla coscienza, sono generati da flussi di impulsi neuronali che si muovono su percorsi cerebrali di natura reticolare. La mente così modellizzata non è una sostanza ma un processo. Materialità corporea processuale e reticolarità delle operazioni cognitive non sono predeterminate, ma devono essere generate mediante apprendimento durante le interazioni con gli altri e l’ambiente. La cognizione assume così le caratteristiche di creatrice di significati di auto-regolazione per gli aspetti percepiti della dinamica ambientale.
È stato verso la fine degli anni ‘80 del XX secolo che le linee dell’indagine cibernetica che avevano rifiutato di partecipare alla strutturazione dell’approccio computazionalista sono confluite nel processo di costituzione della nuova forma delle scienze cognitive. Questo nuovo orientamento è stato battezzato embodiedcognitive science per mettere in evidenza la necessità di affrontare le difficoltà incontrate dal computazionalismo classico mediante la rivalutazione del ruolo del corpo biologico nei processi cognitivi. L’ambizione teorica chiave è quella di superare la dicotomia mente/corpo orientando la ricerca a una prospettiva di radical embodiment, un asse di indagine di forte componente biologica, caratterizzato dall’individuare la proprietà distintiva dei sistemi cognitivi naturali, in quanto sistemi viventi, nell’autonomia, intesa come la capacità degli organismi di auto-organizzarsi e di reagire per autoregolazione alle pressioni ambientali. Si tratta di una impostazione teorica che traduce l’inammissibilità del modello del calcolatore digitale per la descrizione dei sistemi cognitivi naturali. È necessario qui ricordare come la nozione di embodiment si combini, grazie al lavoro di Francisco Varela, con la nozione di enaction sia nel ricomporre la dicotomia cartesiana mente corpo, sia nel focalizzare la matrice autopoietica che consente un’ampia integrazione di diversi livelli e modi di descrizione, per la caratterizzazione dei processi cognitivi.
Si profila così la rilevanza di un pluralismo descrittivo, basato su modalità tra loro differenti di interpretare e studiare la mente. Nel perseguire questo obiettivo, che mira a combinare l’epistemologia sperimentale e la biologia autopoietica, intervengono sia i contributi di Maturana e McCulloch, sia la mediazione di Heinz von Foerster e della sua linea di indagine detta ‘cibernetica di secondo ordine’. Il nucleo teorico del modello di von Foerster risiede in una versione radicale della tesi che afferma la continuità di vita e cognizione. A partire da una comprensione letterale del verbo latino ‘computare’ come ‘considerare le cose insieme’, von Foerster trasferisce il concetto di computazione dallo spazio epistemologico astratto del problem solving a quello del learning interpretato come adattamento biologico, esprimendo così una rilettura marcatamente biologica della modellistica delle reti, per giungere a concettualizzare la mente non come una sostanza ma come un processo: “la dimensione corporea dell’agente non si limita a offrire un supporto organico al cervello, inteso come l’unico organo responsabile dei processi cognitivi. La caratterizzazione dei sistemi viventi in quanto reti auto-computanti implica che il corpo dell’agente, in quanto tale, sia un corpo cognitivo; un sistema che nella sua integralità percepisce e reagisce, creando significati per le sue interazioni. È un’angolazione teorica in cui tutte le funzioni cognitive appaiono radicate nei processi più profondi dell’auto-organizzazione del corpo del sistema vivente; un’attività di organizzazione di sé inseparabile dall’attiva organizzazione – la costruzione – di un mondo significante di riferimento” (p. 226).
Appare a questo punto evidente l’innovazione nella concettualizzazione della conoscenza come oggetto di indagine, che Maturana e Varela, in allineamento con Piaget e von Foerster, hanno individuato nella vita in quanto processo intrinsecamente cognitivo. Come ha sostenuto Maturana in Biologia della cognizione (Autopoiesi e cognizione, p. 59): “I sistemi viventi sono sistemi cognitivi e il vivere in quanto processo è un processo di cognizione”.
Conoscere è partecipare a un’unità globale di coevoluzione basata sulle relazioni di accoppiamento strutturale in una rete di reti da cui l’organizzazione del sistema vivente non può essere isolata, pena la dissoluzione. La conoscenza si configura perciò come un processo intrinsecamente partecipativo. Come ha scritto Varela in Principles of Biological Autonomy (North-Holland, New York (NY) 1979): “Il paradigma fondamentale della nostra interazione con un sistema autonomo è una conversazione”.