5 per mille

Chi ha paura dell’AI

30 Maggio 2025

Così come Musil aveva notato che “il grave imbarazzo che Dio procura alla scienza sta nel fatto che egli è stato visto una volta sola, e per di più alla creazione del mondo, prima che esistessero osservatori addestrati” [p. 365, 1957], più o meno allo stesso modo noi notiamo l’imbarazzo che ci procurano le nostre stesse invenzioni come l’AI. Se neppure quell’altrove che appartiene solo all’arte può sottrarsi al reale, come ha sostenuto Camus, figuriamoci se una creazione tecnologica che per quanto complicata resta umana, troppo umana, può farlo. Il reale può cambiare e cambia ma rimane imprescindibile. Eppure, per nulla osservatori addestrati, paralizzati dall’imbarazzo e dallo stupore più che impegnati ad addestrarci, siamo annichiliti di fronte al Golem del digitale e dell’AI, rimuovendo il fatto che siamo noi ad averlo creato, e reificandolo e deificandolo allo stesso tempo. Che inventi un mondo o mondi paralleli? Che riproduca la realtà esistente? Che si sovrapponga alla realtà come altra realtà? Che entri nella nostra coscienza possedendola? Che invada i nostri corpi con genetica negativa o positiva? Che l’abbia già fatto, da sempre, e solo ora ce ne accorgiamo? Tutte queste ed altre possibilità si profilano nell’orizzonte degli eventi con l’avvento dell’AI. E alimentano le nostre tecnofobie. Il fatto è che quello dell’AI non è un avvento ma un evento creato da noi. La paura, come al solito è che ci sfugga di mano. Una paura, quella di sempre, che più che dell’oggetto è paura di noi stessi incapaci di governare l’oggetto o di astenerci dall’aprire il vaso di Pandora. Un mito antico, quello del gap tra il creatore e l’oggetto creato che gli sfugge di mano, e finisce per dominarlo. Ma forse stavolta è proprio così, è il pensiero subdolo che si insinua, rimuovendo innumerevoli precedenti, tra i quali spicca Platone, che era Platone, il quale si stracciò le vesti per gli effetti distruttivi che la scrittura avrebbe prodotto sulla conoscenza, sulla memoria e sulla vita stessi degli umani. Eppure solo grazie alla scrittura noi oggi conosciamo il suo pensiero.

Ci voleva un’alleanza ben congegnata tra un neuroscienziato, un filosofo e storico, e un pedagogista per creare un testo in grado di aprirci gli occhi sulla ennesima rivoluzione tecnologica in corso, quella del digitale e dell’intelligenza artificiale. Del resto filosofia e neuroscienze non sono mai state così vicine, come ha sostenuto recentemente Barry Smith, e finché ciascuna contribuisce con ciò che offre distintamente nella cooperazione conoscitiva, possono portare a scoperte sulla mente umana che nessuna delle due discipline avrebbe potuto scoprire da sola [B. C. Smith, Not just Philosophy of Neuroscience but Philosophy and Neuroscience, philosophersmag.com].  È nato così Tecnofobia. Il digitale dalle neuroscienze all’educazione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2025. Il sottotitolo è polisemico e la sua efficacia segnala il valore del testo. Si tratta di un contributo che non solo va dall’analisi del digitale a quella dell’educazione nell’era digitale, ma di un’analisi che mostra con documentata chiarezza espositiva come sia l’educazione basata su un approccio neuroscientifico e storico-filosofico il modo più importante ed efficace per guarire e uscire dalla tecnofobia. Sì, perché il male sembra proprio la tecnofobia e non la tecnica. Strana specie quella umana: inventa quel che le serve per affermare la propria presenza e difenderla e appena lo fa, o usa anche contro sé stessa quel che ha inventato o ne ha paura e ne demonizza la presenza. Siamo una specie tecnologica fin dalle nostre origini come homo e questa nostra distinzione si conferma e amplifica con l’avvento di homo sapiens sapiens, in buona misura proprio in ragione delle tecnologie che, una volta create da noi, non se ne stanno per così dire “là fuori”, ma circolarmente e ricorsivamente trasformano il nostro corpo-cervello-mente che le ha create. In questa circolarità si annidano non poche domande e non pochi rischi. 

Gli autori concludono il libro considerando la necessaria attenzione da porre a una condizione, quella di noi umani, del tutto cambiata in ragione delle tecnologie digitali e dell’AI. Da tecnologie che intervenivano in un rapporto diretto con la natura, come un’ascia bifacciale; a tecnologie finalizzate all’utilizzo di altre tecnologie come il cacciavite; siamo passati a tecnologie che generano tecnologie a prescindere dal loro inventore. Quest’ultimo detiene il potere di impostarne l’utilizzo e di controllarne gli effetti, ma lo detiene del tutto? E fino a quando? È impossibile evitare di porsi simili domande nel momento in cui diviene possibile che ogni essere umano sia riempito, per così dire, di informazioni e conoscenze socialmente ed economicamente utili, da macchine sempre più connesse al cervello, fino a che ciascuno diverrà lui stesso un artefatto costituito da artefatti. Così come non si può prescindere dal chiedersi cosa diventi la libertà personale nel momento in cui sia il sistema a diventare il soggetto e il comportamento umano sia ridotto a una catena di routine. “Potremmo scegliere di imboccare una prima via che ci consentirebbe di fare di algoritmi e sistemi generativi degli effettivi strumenti di emancipazione, utili anche per guadagnare lo spazio e il tempo necessari per esprimere liberamente – come mai prima nella storia – l’irriducibile singolarità che ci costituisce. È la strada di una cittadinanza digitale matura, segnata da una consapevolezza equilibrata e non ingenua del valore ambiguo (nel senso del φάρμακον - pharmacon) della tecnologia. Nulla, in linea di principio, impedisce di incamminarsi in questa direzione”, scrivono gli autori [p.177]. 

Oppure potrebbe prevalere una seconda via, che gli autori delineano così: “La seconda via, invece, si configura come una progressiva subordinazione di noi cittadini agli imperativi del capitalismo digitale, in cui gli strumenti tecnologici finiscono per imporsi come dispositivi normativi, più che come mezzi per l’autodeterminazione individuale e collettiva. Il sospetto (o il timore) è che per diverse ragioni rischiamo di essere ciecamente attratti da questa seconda via, quasi fosse l’unica plausibile” [p. 178]. Efficientismo diffuso e mancanza di una seria cultura tecnologica tendono a spingerci in quella direzione. Il rischio di particolare importanza opportunamente segnalato dagli autori è che diventi “sempre più difficile pensare a possibili radicali alternative a quel “senso unico” di marcia che rischia di far collassare le democrazie contemporanee nelle loro interpretazioni meno liberali e libertarie”. Come si può evincere, la contrapposizione in gioco è tra una tecnologia umanistica e una tecnologia che diventi il veicolo dominante del “populismo industriale”.

C’è un solo modo per far prevalere la libertà e non è la tecnofobia, ma dipende dalla disposizione a rimboccarsi le maniche e, come scrivono Gallese, Moriggi e Rivoltella, assumere una prospettiva multidisciplinare, esplorando il modo in cui il digitale contribuisce a modificare le nostre percezioni, le relazioni interpersonali e il senso del reale. Il punto di partenza assunto dagli autori per la loro analisi è il corpo: la nostra prima interfaccia con il mondo. Lungi dall’essere un semplice spettatore passivo della rivoluzione digitale, il corpo umano rimane il perno attorno a cui ruota la nostra esperienza, anche nell’era degli schermi e della realtà virtuale. Allora lo scopo del libro, esplicitamente dichiarato, è cercare di analizzare e comprendere cosa significhi essere umani nell’era digitale.

Una delle incidenze più rilevanti delle tecnologie digitali nell’evidenziare una distinzione umana riguarda l’estetizzazione. Non è certo, come si potrebbe dire, una novità, bensì una pervasiva amplificazione. Se come è evidente consegniamo alle immagini, sia nei rituali collettivi che nell’individuazione di noi stessi, tanta parte della nostra esperienza dai tempi più remoti, come documenta e mostra, tra gli altri, Michele Cometa [Paleoestetica. Alle origini della cultura visuale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024]; se la nostra disposizione specie specifica all’artification, come la definisce Ellen Dissanayake studiando l’origine evolutiva delle pratiche estetiche, è parte costituiva della nostra stessa individuazione, gli autori opportunamente dedicano attenzione e approfondimenti all’esplorazione di fenomeni come la disintermediazione della percezione, l’onnipresenza delle immagini e la crescente influenza dell’estetica sulla politica e sulla vita sociale. “L’estetico”, come, infatti, conferma Dissanayake, “non è qualcosa che si ‘aggiunge’ alla nostra natura – qualcosa di appreso o di acquisito, come ad esempio imparare a parlare una seconda lingua: l’estetico, piuttosto, è il modo stesso in cui noi siamo” [The Artification Hypothesis and its Relevance to Cognitive Science, Evolutionary Aesthetics, and Neuroaesthetics, in Cognitive Semiotics, 5, 2009; pp. 136-158]. Del resto fin dalle anticipatorie analisi di Walter Benjamin le “variabili storiche” sono state riconosciute rilevanti per comprendere “le impressioni visive” di noi esseri umani.   

j

Allora, forse, più che parlare di “impatto delle tecnologie digitali” sulla cognizione sociale e sulle relazioni interpersonali, potrebbe essere importante considerare quali proiezioni ed estensioni di sé homo sapiens esprime mediante la produzione tecnologica. Si tratta di una questione non semplice, ma che attende di essere posta, come hanno provato efficacemente a fare sia Gilbert Simondon che Bernard Stiegler. Il costrutto di impatto, infatti, richiama qualcosa come un meteorite che, esterno a noi e indipendentemente dalla nostra volontà, precipiti nella nostra esperienza sconvolgendola. Non sono outside in bensì inside out le tecnologie. Studiare come e perché le reifichiamo e esternalizziamo – processi decisivi per ridurci a subirle – è un tema di particolare rilevanza che il libro di Gallese, Moriggi e Rivoltella sollecita. Soprattutto perché il digitale e l’AI non si limitano a trasformare la comunicazione, ma incidono profondamente sulla nostra esperienza incarnata e sulla costruzione dei significati nella società contemporanea. È necessario un approccio radicale, sostengono gli autori, per cercare di confrontarsi con una vera e propria rivoluzione che non ammette soluzioni palliative, ma richiede un esame di realtà difficile e impegnativo, “senza scivolare nelle consuete e tecnofobiche contrapposizioni tra uomo e macchina, naturale e artificiale, reale e virtuale”. Se non si vogliono subire passivamente gli effetti del digitale e dell’AI, l’esame di realtà è una condizione imprescindibile accanto a una rivoluzione necessaria, almeno di pari livello, nell’educazione e nei metodi educativi, andando oltre la nostalgia del passato per formare cittadini in grado di navigare il presente e il futuro con consapevolezza.

Il primato dell’immagine è una delle chiavi del libro. Le visioni digitali non fanno che confermare quanto è vero da sempre, o perlomeno dall’avvento del comportamento simbolico e, quindi, della nostra disposizione a creare mondi paralleli, con la narrazione e soprattutto con le immagini. Siamo, in fondo, una singolarità provvisoria. In tutti i sensi. “Siamo il risultato e l’espressione di stili di relazione col mondo” e di una continua invenzione di artefatti di ogni tipo che retroagiscono con il nostro corpo e la nostra neurofisiologia. L’evoluzione culturale umana è anche, se non soprattutto, l’evoluzione di nuove tecnologie cognitive. Dall’invenzione del fuoco agli smartphone, la cultura della nostra specie dipende dallo sviluppo di nuovi strumenti di mediazione. Ne dipende al punto da tendere oggi non solo a creare mondi paralleli immateriali e immaginari, ma a cercare di agire sulla nostra genetica e di riportare in vita, mediante l’ingegneria genetica, una specie di lupo cattivo estinto che seguì la stessa sorte dei dinosauri e del mammut lanoso [D. T. Max, Life after Death. Has Colossal, a genetics startup, resurrected the ancient dire wolf?, The New Yorker, April 14, 2025]. Molto opportunamente gli autori, all’interno di un paradigma corporeo, privilegiano un approccio di tipo estetico, cioè riferito alla conoscenza attraverso corpo, sensi, azione e affetti, in quanto in grado di illuminare l’aspetto forse più rilevante dell’impatto del digitale sulla nostra vita e sulla nostra società. La disintermediazione della percezione e la creazione di significato rese possibili dai media digitali, fortemente caratterizzate da un punto di vista emotivo, rendono il modello trans-estetico pervasivo, segnando un cambiamento nelle pratiche quotidiane e nelle abitudini, influenzando il modo in cui le persone si relazionano con il mondo, lo percepiscono e prendono decisioni su di esso. 

Se l’AI è allo stesso tempo il prodotto e il modello per spiegare il funzionamento della mente, non è possibile ridurre a una questione algoritmica la comprensione di noi stessi, che non siamo solo linguaggio e cognizione ma espressione dinamica della nostra natura corporea e relazionale. La cognizione incarnata (embodied cognition) è, secondo gli autori, un punto di vista appropriato per studiare l’impatto del digitale sul sé e sulle relazioni sociali, e l’intercorporeità è riconosciuta come la fonte primaria della conoscenza degli altri. In quello che viene definito il processo di innervazione del digitale e dell’AI nella nostra realtà generando un mediascape, un aspetto rilevante è il progressivo sfumare della linea di demarcazione tra la “realtà fisica” e la sua rappresentazione digitale. Tra le tante chiarificazioni originali e capaci di orientare nel nuovo mondo digitalizzato, gli autori evidenziano come non esistano meccanismi cervello-corpo radicalmente distinti a supporto della nostra vita nel mondo della presenza fisica e di quella vissuta nella mediasfera digitale. Il fatto da non trascurare è che data l’alta plasticità dei meccanismi cerebrali, rimane aperta una questione: se e in che misura il tempo sempre maggiore trascorso nella mediasfera influenzerà la nostra vita “analogica” e le relazioni interpersonali. Ciò impone di porsi domande sul rapporto tra l’ambiente dei media digitali e il senso di realtà. Così come Gallese, Moriggi e Rivoltella si interrogano sul rapporto tra l’estetizzazione della vita sociale e della politica nell’era digitale, evidenziando, anche con riferimento a esperimenti dedicati, che la capacità degli individui di rilevare la disinformazione e resisterle migliora dopo la familiarizzazione con le strategie usate nella produzione di fake news. Dal momento che sappiamo ancora poco sull’influenza delle tecnologie digitali sul benessere delle persone, oltre a sottolineare la necessità di sviluppare la ricerca in questo campo così cruciale per la vita individuale e collettiva e per la democrazia, gli autori non si esimono dal mettere in evidenza i limiti di tutta una serie di futili indicazioni prudenziali, quando non tecnofobiche, che dovrebbero difenderci dal digitale. Per giungere finalmente ad approfondire nella parte terza di questo libro importante e chiarificatore il ruolo che può svolgere l’educazione per emancipare le persone nel governo delle tecnologie digitali e nella valorizzazione delle loro potenzialità. Nella straordinaria ricchezza del testo spicca la sottolineatura della funzione della domanda nell’educare alla conoscenza, al pensiero critico, alla cittadinanza e alla libertà e gli autori ci consegnano anche un “Manifesto dell’Oltretecnofobo” che merita da solo la lettura del libro.       

Leggi anche:
Pino Donghi | La superintelligenza artificiale
Riccardo Manzotti | L’IA pensa. E noi?
Riccardo Manzotti | Se l’IA sa tutto, perché imparare?
Riccardo Manzotti | Intelligenza artificiale: proprio come noi?
Tiziano Bonini | Può l’intelligenza artificiale essere etica?
Stefano Bartezzaghi | Prompt, Chi parla? 
Luigi Bonfante | L'arte alla sfida con l’IA  

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO