Massimo Donà: cogliere l'opera d'arte

17 Dicembre 2025

Negli appunti redatti tra il 1940 e il 1942, e poi confluiti nel libro Walt Disney, Ejzenstejn, sviluppando le sue “philosophische bemerkungen” attorno al Grundproblem, cioè al Metodo dell’Arte e alla dialettica tra la dimensione razionale e quella emotiva, riferendosi anche al capolavoro disneyano Fantasia (1940), rivaluta, come Massimo Donà nel primo capitolo del suo libro Una certa idea dell’idea (Schibboleth, 2025), la fantasia che Ejzenstejn chiama “plasmaticità”. Quella di Disney, secondo il cineasta, è come se liberasse l’operaio, per un istante, dalla standardizzazione meccanizzata del fordismo; le figure senza peso di Disney sembrano trionfare sulla catena trasformandosi continuamente, improvvisamente e sorprendentemente a dispetto del timing taylorista.

Ejzenstejn osserva che il contenuto concettuale di un’opera d’arte non può essere percepito emotivamente dallo spettatore (lettore, ascoltatore), se non fa simultaneamente appello alle prime forme di pensiero “prelogiche”, quelle vichiane a cui rimanda quell’Ernesto Grassi che recupera Vico in funzione anti-cartesiana, per decostruire la “costituzione dei moderni” (Latour) che non solo oppone ma subordina l’emozione alla coscienza, la fantasia alla logica.

Donà, che ha il merito di riscoprire questo pensatore che critica il programma di ricerca del disincantamento razionale del moderno, rispetto a Ejzenstejn, spinge la sua critica ben oltre a quello schieramento che, secondo il cineasta sovietico, ha prevalso in Età moderna e cioè: Descartes Voltaire la Rivoluzione industriale Kant l’industrializzazione degli Stati Uniti. La linea di pensiero contro cui si pone Donà è quella nientemeno del “mainstream greco-tedesco”, da Platone a Hegel, che è fondata sul “logos universalizzante” che cattura l’individuale in quanto figura di un sistema, la cui singolarità ha statuto di legittimità solo perché inclusa in un discorso totalizzante. Prendendo le mosse dalla proposta retorica e di rilancio del “poetico” di Grassi, Donà apre una prospettiva teoretica articolata sulla “giusta mistura di individualità e universalità” che sappia apprezzare e custodire “l’insorgenza della singolarità”, che poi, secondo la concezione estetica di Donà, è il proprio dell’opera d’arte, quella che l’ultimo Deleuze ha chiamato immanenza: un campo trascendentale mai riducibile al soggetto o all’oggetto. Donà insiste più volte sulla irriducibilità e irriproducibilità di una singolarità immediata, un’ecceità nell’accezione del Foucault che si richiama alla vita degli uomini infami: pura potenza che può far saltare per aria il mondo.

Donà scrive che il linguaggio retorico della fantasia asseconda questa immediatezza “che caratterizza l’esperienza”, quella che Bataille chiamerebbe interiore, cioè quando l’uomo diventa colui che deve accedere all’immediato escludendo ogni immediatezza. Donà ricorda che, a dispetto dell’imperialismo greco-tedesco dell’universale, dell’eidos, della permanenza o del concetto che è il più “concreto”, non sono mancate eccezioni e eccedenze come nel caso dell’“eracliteo” Baltasar Gracián che, a differenza del “newtoniano” Francis Hutcheson – tra i precursori dell’estetica moderna – non afferma che la bellezza di un’opera d’arte è varietà nell’uniformità ma corrispondenza antitetica tra l’una e l’altra. Come Vico, anche gli Schlegel, dopo la Rivoluzione industriale, quando la natura è già scomparsa, si interrogano sull’originario che è l’origine della lingua. Il ritmo all’inizio è ciò che articola le passioni altrimenti incontrollate e disordinate. La poesia è la lingua primitiva, il ritmo è la prima forma di articolazione del caos passionale e la prima regola.

“Una cosa è certa, comunque: l’originario non è mai afferrabile con il linguaggio dimostrativo”, scrive Donà. E, forse ancor di più, ricorda con forza Donà, davvero irreale è quella logica universalizzante, quella mania dello spirito tipica della filosofia, come direbbe Lucrezio, che riconduce la molteplicità all’unità. Realtà è unicità persino auratica in quanto insostituibile sottratto, come voleva Bataille, alla logica dell’utilitas in cui siamo sempre invischiati nella vita quotidiana, perché, scrive Donà, le cose del mondo nel “nostro sguardo si configurano come ‘oggetti’ (ad eccezione delle ‘opere d’arte’)”. Benjamin osserva che fare esperienza di un fenomeno auratico o, classicamente, meravigliarsi di qualcosa, è “accorgersi della sua capacità di rispondere con lo sguardo” che risponde come ad un appello. “Nel mondo c’è tanta aura quanto vi rimane di sogno” (Benjamin). Questa aura Donà la chiama unicità o, citando Kant, incondizionatezza, disincagliata finalmente dal discorso che canalizza e addomestica la figura, quella artistica o quella dell’uomo.

j
Full Fathom Five (1947) di Jackson Pollock.

L’unicità dell’esperienza, del mondo e dell’uomo, è come l’existentia di quel Riccardo di San Vittore citato da Donà che peraltro rinvia anche a Hannah Arendt, la quale nel libro del 1951 The Origins of Totalitarianism spiegava che il progetto totalitario consisteva nell’annichilamento dell’unpredicability, il tratto più caratteristico, e Sartre direbbe angosciante, dell’essere umano. Donà impiega il termine “sovrabbondanza”: è proprio questa eccedenza del fenomeno umano che, come scrive Arendt in Vita activa (1958), in quanto unico e insostituibile, apparendo nel mio campo d’orizzonte introduce, non la catastrofe come crede il Sartre de L’essere e il nulla (1943), ma il miracolo, il cominciamento.

La verità delle cose, scrive Donà, non è l’universale che annulla la unpredicability, l’eidos che (in)forma (o deforma?) il visibile. “Le idee immobilizzano il reale”. Il reale è la molteplicità irriducibilità dell’esperienza, poiché di questa sedia qui a me preme proprio la sua questità, la sua singolarità, quella che mi meraviglia, mi secca, mi sconcerta, mi agita, la sedia dell’aguzzino, la sedia del padre, la sedia vuota che un tempo fu di Gauguin. E, infatti, per Donà, l’opera d’arte è come la forma più pura di questa esperienza unica e irripetibile.

L’opera d’arte che, e qui Donà fa ricorso a Alberto Giacometti e Gianni Celati, se è copia del mondo, lo è solo in quanto copia di una visione, persino, come scrive Celati, la visione degli altri che guardano alle cose del mondo e alle opere d’arte. A dire il vero già Alberti enuncia che l’arte imita la natura ma per perfezionarla. Merleau-Ponty in L’occhio e lo spirito (1960) “capisce”, come direbbe Donà, perché Giacometti potesse dire che era interessato alla rassomiglianza. Questa infatti non è imitativa, bensì diagrammatica. La rassomiglianza è ciò che mi fa scoprire il mondo. Ma ci vuole esercizio, la pulizia della tela baconiana di cui parla Deleuze nel suo corso universitario del 1981 dedicato alla pittura. Il diagramma, diceva Deleuze, è questa zona ripulita, quel che ne salta fuori, che ne emerge, è ciò che Bacon chiamava Figura. Questa non è quel “che normalmente crediamo e diciamo di vedere” in quello che Donà chiama il mondo del riconoscimento, perché affaccendati nelle nostre faccende siamo interpellati a riconoscere questo e quello: “non potremmo fare altrimenti”. La conoscenza è stata troppo spesso poco avventurosa e troppo spesso troppo asservita all’utilitas.

Forse Grassi vuole risalire ad uno strato primordiale, ma Donà, nella sua teoresi estetica, si pone piuttosto il problema di come riunire la fantasticazione e il riconoscimento. La logica del riconoscimento è utile, efficace e funzionale, ha una suo ortopedia irrecusabile, eppure questa “logica ortogonale” e poco dispendiosa non può non confrontarsi, anche dialetticamente, con quella che Donà chiama della erranza, dell’andare a zonzo come in un film della Nouvelle Vague o di Cassavetes, attratti da un’occasione, un incontro, un détour. “Il fatto è che camminiamo sempre sul limite”, forse è proprio questo “limite”, questa capacità di danzare sui bordi, tra l’utilitas e la dépense, il riconoscimento e la fantasticazione, la posta in gioco che Donà articola nel suo Una certa idea dell’idea. Del resto, lo ricorda Donà che cita Celati: noi tutti siamo una tribù. Whitman, come sa bene Dylan, ha scritto: “I contain multitude”. Il riunire avventura e conoscenza è questo limitare sul limite o, per dirla con quel Gianni Rodari a cui Donà dedica una riflessione che promuove una logica di senso eraclitea e delle ibridazioni: una “grammatica della fantasia”. Una logica altra che lascia intatta la “complessità” ibrida del reale. Allora una certa idea dell’idea, cioè della verità delle cose, è quella anti-platonica e poco cristallina che Donna Haraway oggi chiama matassa di mondeggiamenti o, come scrive Donà: “Il mondo è sempre confuso, dinamico, e dunque mai risolto in questa o quella delle sue determinatezze”, quelle “ospitate dall’Iperuranio platonico”.

Quella proposta da Donà è un’eterologia: questa sedia è proprio questa e non è, cioè è differente da quella. L’opera d’arte, la poesia, l’immagine è quella forma non nell’accezione platonica ma in quella di Goethe, maestro segreto di Nietzsche secondo Francesco Moiso, che è solo una fissazione provvisoria e fluttuante di un divenire molteplice. Una certa idea (forma visibile, forma del visibile) dell’idea (verità o enunciabile delle cose). La forma, una certa idea della forma, che è arte, cioè “vivente molteplicità”, come vuole Goethe. Se si vuole, persino identità ma vivente, e magari telos verso cui tendiamo, perché, classicamente, bello è anche buono. Ma a patto che si sia capaci, con lo sguardo, di rispondere a quel diluvio universale che è l’esperienza, come se questa fosse Full Fathom Five (1947) di Pollock: “flusso di una vita che l’arte non può più tenere fuori da sé”. Questo, ancor di più di quello di Balzac (o di Rivette), è davvero il “capolavoro sconosciuto”.

Da quest’anno tutte le donazioni a favore di doppiozero sono deducibili o detraibili. SOSTIENI DOPPIOZERO (e clicca qui per saperne di più).
TAGGED: Massimo Donà