Doppio Celant

22 Novembre 2025

Chi lo volle capire lo capì abbastanza bene che in poco tempo era diventato il più bravo di tutti. E che aveva capito le cose più velocemente di tutti, imprimendo al corso dell’arte – non solo italiana – un’accelerazione inusitata e un’apertura inedita.

Aveva lavorato a sufficienza nella redazione di una rivista – non una rivista qualunque, ma quella “Marcatrè” fondata da Eugenio Battisti – da non essere così ingenuo da fondarne altre. Appoggiandosi piuttosto a quelle già attive e posizionate (da Flash Art a Artforum a Domus), complice anche il fatto non trascurabile per quegli anni di parlare l’inglese un po’ meglio di tutti. E di poter contare, come ricorda il figlio Argento in apertura del libro (Germano Celant. Cronistoria di un critico militante, Skira 2025), sul fatto che “quei due anni di ingegneria [fossero] stati fondamentali per imparare a osservare e analizzare sistemi diversi”.

E così anziché fare il critico che dispensa spiegoni o alate descrizioni volle divenire compagno di strada e prima ancora, come si sa, di “guerriglia”. Al racconto preferì la partecipazione; al giudizio di gusto individuale la cronologia (apparentemente) oggettiva – vi dico che le cose sono andate, o stanno andando, così. Un “reporter”, secondo la testimonianza affettuosa e candida di Giulio Paolini (“Nessuna eccitazione particolare, nessuna sensazione di vivere ‘grandi occasioni’, la mitologia dell’Arte Povera, credo, nacque solo successivamente”). E dunque: cogliere quanto di interessante vi era nel nuovo, farlo conoscere, condividerlo. Collocandosi così in quella condizione post-storica che Arthur Danto aveva appena iniziato a spiegare, ma le cui conseguenze erano ben visibili, a volerle vedere.

Fu un approccio professionale e sistematico – in fin dei conti l’“archivio” di cui si blatera tanto in tempi recenti nacque allora – governato da una strategia ben precisa, come riconosce qui Fabio Belloni. Puntare al risparmio. Non investire su artisti emergenti o sconosciuti. Lasciare da parte i “giovani”. Non confondersi, ma muoversi in autonomia. Selezionare a priori, concentrarsi su pochi artisti. Dotarsi di un’immagine e di una credibilità che passano attraverso tante cose: compreso anche un marchio identitario tutt’altro che futile: “Il mio vestire in nero era come il cappello per Beuys, un segno d’identità”, dice a un certo punto GC. Pochi in effetti potevano permettersi alle soglie degli ottant’anni di vestirsi come i Depeche Mode quando ne avevano venti. Eppure Celant, con la sua gran testa da imperatore romano, gli anelli sgargianti e gli occhiali cerchiati di metallo, risultava credibile e carismatico: perlomeno nelle due volte in vita mia in cui l’ho visto.

Il libro di Skira, che raccoglie gli atti di una celebrazione-convegno monstre e naturalmente nomadica (quattro città, quattro sedi e tra i partecipanti tutto il name dropping del caso), costituisce un primo tributo a colui che, prima ancora che per le scelte peculiari di ordine artistico (importanti tatticamente anche quelle, ma non decisive quanto la strategia), fu in grado di costruire una figura del tutto nuova nell’Italia dei boomer.

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Germano Celant.

Il critico non agiva più infatti da “presentatore”, ruolo ormai televisivo, né da anfitrione prezzolato; si emancipava a figura professionale (non userò l’orrendo lemma “curatore”) in grado di muoversi con disinvoltura e autorevolezza ai vari livelli del sistema dell’arte. Facendosi tra l’altro pagare (e bene) anche in virtù del brand così costituito. Sapendo puntare a una “italianità” riscattata da intenzioni nazionalistiche o codine, e inserita invece entro una riconoscibilità internazionale. È quanto ora viene contestualmente ricostruito in un libro di Silvia Maria Sara Cammarata, Arte povera e identità italiana. Le mostre di Germano Celant (Postmedia, 2025), dove si ricostruisce il cruciale momento di storicizzazione (e, va da sé, autostoricizzazione) del quindicennio di piena maturità e di standing internazionale del critico quarantenne: dal 1981 di Identité italienne al Pompidou (mostra tanto bella e fortunata quanto tendenziosamente pericolosa) fino al 1994 di Italian Metamorphosis al Guggenheim (come sopra).

Nel frattempo si era compiuto il mutamento antropologico – lo chiameremo pasolinianamente così – del critico dell’arte contemporanea. Il lavorìo degli accademici (Crispolti, Barilli, Calvesi) si trovava insabbiato nella diversa professionalizzazione della cattedra universitaria, istituita nel 1972 (e per la quale, se ho capito bene – non ho le prove, cit. – Celant tentò anche di accreditarsi, rimanendone escluso), impegnato nella gestione delle collaborazioni con i quotidiani (pagavano ancora, e garantivano una rendita di posizione) e impaniato nel sottobosco di commissioni, comitati più o meno scientifici, giurie. Quel gruppo perse smalto e forza di trazione, giocando una partita diversa su un campo diverso. Contribuendo tuttavia, ma questo è un altro discorso, alla formazione accademica di almeno un paio di generazioni di giovani critici e curatori: sarebbe assai ingeneroso dimenticarlo.

La critica dei battitori liberi, dispersi tra tentazioni iper-letterarie (da Boatto a Vivaldi a Janus) e pratiche esoeditoriali, percorse itinerari laterali, non di rado marginali, e per questo tanto più interessanti e riscattate solo in parte, ad esempio, con il recupero degli scritti di Paolo Fossati. Che pure curatore o “critico”, in quel senso, proprio non era. Il resto sopravvisse come estrema specializzazione (Accame o Cerritelli, ad esempio), oppure cercò di reggere come giornalismo di maniera, o provando a galleggiare fra i marosi di gallerie effimere, di un mercato discontinuo, di un collezionismo talvolta isterico, e di istituzioni pubbliche inaffidabili (l’eterna Italia dei campanili e degli assessorati, insomma).

Personalmente continuo a prediligere il Celant prima del suo momento mainstream, e soprattutto al di fuori di musei e Fondazioni. L’autore cioè di Offmedia, un libro di cui in questi recenti studi si trova appena traccia: un lavoro che anticipò l’attuale mescidazione multimediale, pago del fatto che molte cose inventive, negli anni Settanta, non venivano più dai minimalisti sfiatati o dai poveristi sussiegosi, bensì dal sottobosco dell’underground. Peccato averlo col tempo perso di vista, ma si sa che da quello spontaneismo un po’ anarcoide non si ricavano mercato e remunerazioni…

Certo, anche nella vicenda di un gran critico ci sono le cadute. Qualcuno si ricorda ad esempio dell’“Inespressionismo”? Certo, era la sua personale e condivisibilissima confutazione della Transavanguardia e di tanto greve “ritorno alla pittura”. Ma a volte le cose non vanno come si spera; e comunque questo non è un buon motivo per far finta di nulla.

In ogni caso, così come a monsieur Joseph-Ignace Guillotin non riuscì di staccare il suo nome dalla sua invenzione, difficilmente Germano Celant verrà staccato dall’Arte Povera. Ma quello che questi due libri suggeriscono è qualcos’altro. Il discorso sull’arte non si fa più sugli oggetti, ma sui flussi, sulle relazioni, sui sistemi. È sempre meno una cosa da umanisti e sempre più da ingegneri – magari gestionali.

Leggi anche:
Gabriele Guercio | Germano Celant, New York 1962-1964
Michele Dantini | Germano Celant, critico baby boomer

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