L’arroganza delle auto
Via Carpi è una piccola e graziosa strada a senso unico di Lambrate, alberata su entrambi i lati, che collega via Casoretto a via Porpora: trecento metri, stando a Google Maps. Come ogni altra strada della zona e più in generale di Milano, anche via Carpi è oltraggiata dai parcheggi abusivi: sui marciapiedi, sulle strisce pedonali, in doppia fila, ovunque. L'altra mattina percorrendola lentamente in bicicletta ho contato quarantadue automobili ferme dove non avrebbero dovuto; calcolando una media di quattro metri circa per veicolo, è come se metà dell'intera via fosse occupata illegalmente (senza peraltro calcolare la larghezza dei mezzi, che per inciso aumenta di anno in anno).
È un esempio che si può moltiplicare senza difficoltà. Nella primavera 2024 gli attivisti di Sai che puoi? hanno mappato 63.990 soste abusive, traendone conclusioni rilevanti: dato che il Comune di Milano "offre più del doppio dei posti auto — e con sistemi di tariffazione vantaggiosa — di altre città europee comparabili" e "la densità di parcheggio abusivo non è risultata correlata alla difficoltà di accesso ai mezzi pubblici" bensì "correlata positivamente con la densità abitativa e di esercizi commerciali", l'ipotesi avvalorata dai dati è che "la pratica del parcheggio irregolare non sia dettata da necessità, ma da un'abitudine, nata per la comodità degli automobilisti" e soprattutto sia tollerata dal Comune.
Da maggio 2024 a oggi le cose non sono cambiate affatto, i parcheggi continuano a essere selvaggi, la mobilità pedonale è perennemente insultata: di fronte al perdurare di simili condizioni — nonostante gli apprezzamenti dell'assessore alla Sicurezza per l'iniziativa — quindi più che di tolleranza parlerei di implicito stimolo. Ogni giorno camminare sui marciapiedi milanesi significa verificare un'illegalità pacificamente suggerita proprio dalla mancanza di interventi: a quanto pare fa comodo al segmento più benestante, e certi privilegi in Italia sono intoccabili. In effetti, che il dato sociale si leghi al disprezzo per le regole non è affatto secondario e ci aiuta a demistificare alcuni luoghi comuni. Sempre dal report di Sai che puoi?: è dimostrato come la percentuale di famiglie senza auto sia più alta tra le fasce meno abbienti della popolazione, dove è inferiore anche il numero di auto per famiglia, e l'uso dell'auto è di per sé meno frequente. Queste disuguaglianze sono ancora più pronunciate in grandi aree urbane come Milano, dove la maggior parte dei meno abbienti l'auto non ce l'ha affatto, al contrario della maggior parte dei più abbienti. Ne deriva che la sosta irregolare è in gran parte un comportamento illegale tollerato di cui beneficiano i più abbienti, mentre i meno abbienti ne soffrono le conseguenze negative. Inoltre la sosta irregolare danneggia in modo particolare altre fasce della popolazione "vulnerabili": persone con disabilità, bambini, anziani, etc.
Dall'ultimo Report della Mobilità il tasso di motorizzazione risulta di poco diminuito e comunque inferiore alla media nazionale; ma Milano attrae ovviamente moltissime persone che vengono da fuori città in auto. In ogni caso il problema è quanto mai evidente, e gli interventi che l'amministrazione ha messo in campo — Area B, sempre più sanzioni, il programma Piazze Aperte, eccetera — non lo affrontano con la dovuta energia.
Con ciò non voglio deresponsabilizzare chi guida e parcheggia selvaggiamente, al contrario: ignorare le ricadute del mezzo su cui siede è una forma di pigrizia mentale tanto diffusa quanto pericolosa e difficile da contrastare. Ciò nonostante, come racconta Andrea Coccia in uno dei pochi testi radicali sul tema — Contro l'automobile (Eris 2020) — l'onnipresenza dell'auto è figlia di un piano d'assalto alla mobilità pubblica per favorire la vendita di mezzi privati, testardamente perseguito fino a oggi nel nome del profitto. Con conseguenze urbanistiche precise: "L'idea delle banlieue e delle cinture residenziali suburbane infatti non sarebbe mai stata possibile senza l'esistenza e l'accesso di massa all'automobile". E con conseguenze sociali catastrofiche: "il trionfo finale di quello che Proudhon chiama la consacrazione dell'egoismo", scrive Colin Ward in Dopo l'automobile (elèuthera 1992): "di quanto cioè ha sistematicamente minato ovunque la possibilità economica di sistemi di trasporto pubblico".
Io sono cresciuto in una cintura residenziale e so benissimo cosa significa non avere un mezzo privato quando non ci sono alternative: anche solo andare al supermercato o uscire con gli amici rasenta l'impossibile. A diciotto anni tutti ci affrettavamo a prendere la patente come se fosse la salvezza, perché era la salvezza sociale — la libertà di uscire da quella sfilza infinita di palazzi, villette, fabbriche. Ma quando si parla di chi vive in città e ha delle alternative praticabili, il discorso comincia decisamente a cedere; quantomeno, sarebbe opportuno accettare che non tutto dipende dal "sistema".
In tal senso la diffusa obiezione che i difensori di pedoni e ciclisti siano radical chic o non vedano oltre la loro ZTL diventa una prova ulteriore della servitù concettuale alla destra: l'idea che chi rivendica uno spazio comunitario, o un modo più leggero di muoversi, non sia parte del "popolo" che viene dalla provincia o dalla periferia. Certo l'accusa contiene una lezione, perché qualsiasi lotta che dimentica le reali difficoltà delle persone è vana: il tizio che da Solaro deve andare in zona Ortica non è certo il colpevole della storia, anzi. Tuttavia, come abbiamo visto poco sopra, il grosso della realtà milanese è ben diverso: sono le famiglie più povere a non avere auto e a subire gli effetti di quelle altrui.
Fra l'altro le auto fanno danni seri anche semplicemente stando ferme, e persino nei luoghi deputati: in effetti passano il 95% del loro tempo parcheggiate, occupando suolo che potrebbe essere usato in modi assai più gradevoli. Sempre in Contro l'automobile Coccia ribadisce l'inconsistenza di valori quali "velocità, avventura, privilegio, libertà" che la pubblicità associa alle automobili — pubblicità definite da un'utente di Reddit come "pornografia", dato che "presentano un'immagine irrealistica di un'attività diffusa". Mi sembra appropriato: una Mercedes che corre solitaria su un magnifico lungomare non è l'esperienza comune di chi guida, dato che la stragrande maggioranza del tempo la si passa in coda o muovendosi a una velocità media bassissima. L'auto, scrive Coccia, passa così "dall'essere una rivoluzione, una comodità e quasi un lusso, all'essere una prigione, una condanna, una schiavitù. Se tutti si muovono, nessuno si muove".
Non ci facciamo nemmeno più caso, ormai sono parte dell'arredo urbano, eppure tutte quelle auto immobili sono la dimostrazione di un vastissimo fallimento sociale, climatico ed economico. E in Italia, dove lo spazio pubblico non sembra essere di tutti bensì di nessuno — e quindi può essere violato con allegra libertà — a ciò si aggiunge la pratica del parcheggio illegale, reciprocamente tollerato.

Poi le auto si muovono e chi le guida si dimentica di essere seduto su una possibile arma letale, così come chi deve informare tende a darne per scontata la primazia sulle strade. Il fatto compiuto vince su qualunque alternativa, anche di immaginario: e non serve spingerci alle aberrazioni di chi non si dispiace molto alla morte di un ciclista. A Milano la polizia locale ha pubblicato un video di consigli ai pedoni che sa di victim blaming; e persino la pagina della campagna "Il pedone ha sempre ragione" ricorda con insistenza i doveri di chi va a piedi: "Niente foto, niente messaggi, niente videogiochi, niente fumetti o libri mentre si attraversa e meglio tenere la musica degli auricolari (vietati a chi usa un veicolo) a basso volume per sentire bene i rumori della strada". D'accordo, certamente. Ma un pedone in movimento è innocuo per gli altri: occorrerebbe spendere molte più energie per sensibilizzare chi ha un potenziale di danno altissimo fra le mani.
Dal Report della mobilità del Comune apprendiamo che "la serie storica mostra un calo costante nel numero di incidenti e feriti"; il problema è che ci sono ancora moltissimi incidenti fra auto e bici (1072 nel 2024) e investimenti di pedoni (1333, in crescita dell'11% rispetto al 2023). Ripeto quest'ultimo numero in forma di media: 3,65 pedoni al giorno vengono colpiti da automobili a Milano. D'altronde i sempre più diffusi veicoli di taglia grande tendono a far assumere comportamenti di guida più rischiosi e più aggressivi: la correlazione è supportata da evidenze empiriche, e non stupisce affatto.
C'è poi la questione dei limiti. Negli ultimi due anni Milano ha introdotto più zone 30 ed è auspicabile che ciò venga esteso all'intera città seguendo l'esempio di Bologna; certo resta il problema del Codice della strada rinnovato da Salvini con effetti omicidi, che impedisce di utilizzare autovelox fissi sulle strade urbane con limite inferiore a 50 km/h: qua purtroppo l'amministrazione ha le mani legate. D'altro canto qualunque limite in città è regolarmente disatteso (talora con i complimenti delle forze dell'ordine): benché la velocità media sia bassa, sono i picchi improvvisi a essere estremamente rischiosi — oltre al fatto che un oggetto di una tonnellata e mezza è pericoloso anche a 20 km/h.
A tal proposito qualsiasi persona che si muove in bicicletta può raccontarvi le proprie storie dell'orrore e gli incidenti mancati per un soffio o subiti (tre per il sottoscritto): portiere aperte di scatto, auto in doppia fila che ripartono senza guardare, ciclabili ostruite da SUV con le quattro frecce perché i proprietari devono bere il caffè, soste vietate che ostruiscono la visibilità di chi svolta o esce da uno stop, eccetera. Il tutto condito dal perenne senso di lesa maestà che anima chi è al volante, per cui chiunque complichi il avanzare è un nemico: così non appena la strada si libera un poco è bene accelerare, superare, contro ogni buon senso. È un riflesso automatico, ce l'ho a volte anch'io (perché anch'io ho un'auto) e devo sforzarmi per reprimerlo: chi infila la chiave nel cruscotto dimentica spesso tale verità essenziale, e si arma contro il prossimo.
Un ultimo aneddoto al riguardo. Un sabato mattina stavo attraversando via Grossich — un'altra strada di Lambrate, ma a doppio senso e più trafficata — con mia moglie e mia figlia in passeggino. Eravamo sulle strisce pedonali. Un SUV arrivava a velocità davvero molto spinta dal fondo della via: gli ho fatto cenno di rallentare e ho aggiunto il classico gesto del "Ma che diavolo stai facendo?" con le dita raccolte. Il guidatore si è fermato e ha iniziato a insultarmi sbraitando che non dovevo permettermi, che come cazzo mi era venuto in mente eccetera eccetera — il tutto davanti a una bambina di un anno. "Non so perché", ha commentato un amico, "ma gente così dà il suo peggio quando ci sono di mezzo dei bambini". In effetti che si tratti di cocaina o nervi a pezzi, questa città abbonda di gente così che se la prende coi più deboli. E chi è più debole di un bambino?
C'è anche un elemento di invisibilità su cui dovremmo riflettere. Ogni volta che accade un'aggressione una parte dell'opinione pubblica salta in aria e pensa che Milano sia uno dei posti più pericolosi del mondo: ovviamente non lo è, benché fenomeni di quel tipo ci siano e vadano sicuramente evitati e repressi. C'è tuttavia una forma di violenza più sottile e diffusa: l'indifferenza all'esclusione sociale, che interseca ma non è riducibile alla sola esclusione economica. La diseguaglianza e l'esercizio di potere emergono certo in modo chiaro quando si parla di affitti fuori controllo, costo della vita o inchieste sulla speculazione urbanistica; ma si dovrebbero vedere anche quando un pensionato a piedi evita una BMW che rischia di colpirlo. Invece questa violenza, del tutto quotidiana, non solleva enormi indignazioni.
Milano in tal senso è una sineddoche del Paese, perché il problema delle auto è un problema italiano — siamo la nazione europea con il più alto tasso di motorizzazione, peraltro in aumento — così come italiano è il tema del rapporto privato/pubblico, e in generale il rabbioso individualismo che lo avvelena soffocando immaginari alternativi. L'auto è l'espressione perfetta di una volontà (nei fatti repressa) di spazzare via ogni ostacolo: andrebbe considerata come una sgradevolissima necessità da limitare il più possibile, e invece siamo ancora fermi al suo culto machista. L'alternativa disegnata da Crippa sul Foglio — "Andare veloce, rischiare, fare un sacco di baccano e di polvere: l'auto come libertà. O andare adagio, silenziosi e in bicicletta collettivizzata" — non è realistica: Crippa preferisce la prima opzione, che tuttavia come abbiamo visto è un'illusione pubblicitaria; quanto alla seconda, è una sciocca caricatura.
A Milano peraltro è facile muoversi: ha una rete di trasporto pubblico estremamente capillare ed efficiente; è piatta e relativamente piccola; quel che manca è la sicurezza per chi la attraversa in bici e una maggiore mobilità pedonale (non parlo delle singole aree chiuse al traffico ma proprio di semplicità di deambulazione). E naturalmente servirebbe diminuire il numero di furgoni per le consegne — il che però significa ordinare meno prodotti a casa, dunque consumare meno, dunque provare a vivere in modo diverso da quel che suggerisce ogni giorno l'immaginario metropolitano. Pensare alla bambina che corre e non all'automobile; perché la bambina che corre è la normalità mentre l'automobile non dovrebbe esserlo.
Come scrive Francesco Tonucci in un bel libro di trent'anni fa, appunto La città dei bambini (Laterza 1997), si tratta di creare uno spazio adatto ai più piccoli, intesi non come fastidiosi adulti potenziali bensì come soggetti attivi e dotati di precisi diritti; anche perché uno spazio di questo tipo è adatto di conseguenza a chiunque: agli anziani, ai disabili, alle donne, ai giovani, ai senza dimora, ai disoccupati e non soltanto agli adulti produttivi. Senza retorica: "è una necessità urgente, non per tornare indietro, non per sperare in un ritorno al clima romantico del paesello o del vicinato di quaranta, cinquanta anni fa, ma per prepararsi ad un futuro diverso, non controllato esclusivamente dalla produzione commerciale, non dominato dalle automobili e neppure dominato da un inarrestabile sviluppo dei servizi". E ancora:
Le automobili hanno una loro «idea» di città, una loro estetica e la stanno imponendo. È una estetica profondamente diversa dalla nostra, è quella dei garage (individuali o collettivi, sotterranei o aerei, a silos, multipiani...), delle stazioni di servizio (sempre luminosissime, grandissime e tutte uguali); dei segnali stradali, dei cartelloni pubblicitari (semplici e grandi per essere visti in corsa); è quella dell’asfalto (meno rumoroso dell’acciottolato), del guardrail (più sicuro); è quella dei clacson e delle sirene antifurto (anche se svegliano i bambini e mettono paura); è quella dei depositi di carcasse di macchine, che stanno costruendo un ultimo anello cimiteriale intorno alle nostre belle città e alle nostre brutte periferie. Quando si è evidenziato un conflitto fra la sicurezza dell’automobilista e il diritto di continuare a vivere di alberi e viali anche di grande importanza estetica, paesaggistica e per la salute delle città, non si è avuto nessun dubbio, non si sono esplorate soluzioni alternative come la deviazione delle strade o il rallentamento della velocità, si sono semplicemente abbattuti gli alberi.
L'obiettivo di Tonucci in tal senso è "apparentemente piccolo e semplice: che i bambini possano uscire da soli di casa". Perché "il bambino può essere considerato come un sensibile indicatore ambientale: se nella città si incontrano bambini, che giocano, che passeggiano, da soli, significa che la città è sana; se nella città non si incontrano bambini significa che la città è malata". Seguendo questo metro di giudizio, Milano più che malata è moribonda.
D'altro canto lo ammoniva anche Gesù, che in teoria dovrebbe essere un riferimento gradito alla maggioranza conservatrice, magari dotata di crocifisso penzolante sotto lo specchietto retrovisore: per entrare nel regno dei Cieli occorre diventare come bambini. "Non solo in senso escatologico", commenta Tonucci, "e cioè riferito ad una vita futura, ma parametro di santità, e quindi della scelta giusta oggi, la via storica verso la felicità. Essere bambini ed essere poveri significa sapersi accontentare, saper desiderare, essere liberi. Condizioni necessarie per la felicità umana".