Laura Pigozzi: la madre e la donna
Il titolo dell’ultimo libro di Laura Pigozzi anticipa con enfasi il tema che lo attraversa: non solo madri, ma anche donne. L’autrice prosegue il lavoro già avviato nei saggi precedenti, ma questa volta con una radicalità più esplicita, concentrandosi sull’idea sacralizzata della maternità: una maternità “tutta natura”, tutta istinto, tutta dedizione, che la cultura contemporanea continua a proporre come modello ideale e, allo stesso tempo, colpevolizzante.
Il libro si colloca nel dibattito odierno sulla complessità del materno e tenta di riportare la madre nel registro della donna, del pensiero, della relazione e, soprattutto, della separazione — categoria che attraversa tutto il saggio come un filo rosso. Il retroterra culturale attinge alla psicoanalisi e alla filosofia.
La scena fondativa del libro — la bambina che chiede alla madre: “chi eri prima di essere la mia mamma?” — richiama il tema lacaniano dell’enigmaticità del desiderio materno. La domanda della bambina rivela come la madre sia “altro” rispetto alla funzione materna: ha un desiderio proprio, non interamente saturabile dal figlio. Richiamare questa scena fondativa è mettere in luce la necessità che la funzione materna non sia totalizzante; il desiderio materno, potenzialmente illimitato, può risultare travolgente: è necessaria una barriera simbolica, un confine che impedisca alla madre di essere definita solo dalla maternità e al bambino di essere totalmente catturato da tale desiderio. È questo limite che permette al figlio di crescere senza essere “inghiottito”, è, dunque, condizione di possibilità perché possa separarsi e costituirsi come un soggetto distinto.
Laura Pigozzi parte da un paradosso molto attuale: non siamo mai stati così informati sulla cura dei figli, eppure la retorica dell’istinto materno non è mai stata tanto forte. Dai corsi preparto, all’immagine diffusa della “madre leonessa”, sino alle narrazioni social che glorificano la fusione madre–figlio, la cultura dell’iper-accudimento tende a negare ciò che rende davvero umana la maternità: il pensiero, la capacità di prendere distanza, di riconoscersi altra dal figlio e di riconoscerlo come altro. Il richiamo contemporaneo alla “madre leonessa” è un mito regressivo poiché, come già segnalava Freud, negli esseri umani gli istinti non sono mai puri, essendo sempre mediati dalla rappresentazione. Lacan riprende il tema sottolineando che la natura umana è strutturalmente deviata dalla parola, impossibilitata a ritornare all’animale. Pigozzi, evocando de Sade, ribadisce che “la natura è matrigna”, non è maternamente amorevole. Per l’autrice, seguire l’istinto in modo acritico non è solo inopportuno, ma può essere persino pericoloso. Il racconto dell’incontro con un’orsa e i suoi cuccioli in Alaska — in cui restare immobili e lucidamente presenti ha salvato la vita — diventa una metafora emblematica: se la madre fosse “tutta natura”, resterebbe incollata al figlio per sempre, in una dipendenza reciproca che annullerebbe entrambi. La pulsione di attaccamento, se non simbolizzata attraverso linguaggio e conoscenza, rischia di trasformarsi in un nodo senza scioglimento, in cui “si muore in due, psichicamente”.

In questa prospettiva, Pigozzi rilegge criticamente anche Bowlby. Pur riconoscendone la grandezza, sottolinea un aspetto spesso trascurato: l’attaccamento non è il fine, ma il mezzo, è solo il primo gradino. Serve a permettere l’esplorazione del mondo da parte del bambino, non a impedirla. Quando l’attaccamento diventa “iperattaccamento”, gli studi neuroscientifici — citati nel libro — mostrano come l’eccessiva simbiosi possa disorganizzare i modelli operativi interni dei figli, limitandone le capacità di autoregolazione e mentalizzazione. Il risultato non è dunque una maggiore sicurezza, ma una maggiore fragilità: giovani adulti incapaci di decidere, di scegliere, paralizzati dal bisogno costante di conferme.
Qui entra in gioco uno dei concetti centrali del libro: la “madre sufficientemente cattiva”. Riprendendo Winnicott, Pigozzi rovescia la “madre sufficientemente buona” per mostrare come l’eccesso di bontà, la disponibilità totale, la presenza senza vuoti possano trasformarsi in un danno. Il plus-materno, la madre “troppo buona”, introduce una clinica dell’eccesso che ostacola la crescita; la madre “sufficientemente cattiva”, invece, è colei che sa dire no, che sa porre un limite, che sa ricordare a sé e al figlio di non essere solo madre, ma anche donna. È la madre che permette al figlio di spiccare il volo, anche usando — quando serve — parole non consolatorie, capaci però di aprire alla vita e al desiderio del figlio. Non si tratta di crudeltà, ma di introdurre frustrazione, distanza e limite. Lacan avrebbe definito questo gesto come l’introduzione del Nome del Padre, non come figura paterna, ma come funzione separativa.
L’eccesso materno genera conseguenze cliniche rilevanti: l’enfasi contemporanea sull’attaccamento rischia paradossalmente di produrre un deficit di desiderio. Quando la madre è “troppo presente”, troppo disponibile, troppo centrata sul bambino — ciò che Pigozzi chiama eccesso materno — il bambino non trova il margine necessario per percepire una distanza, immaginare ciò che manca e desiderare qualcosa che non sia già colmato dall’Altro. L’enfasi contemporanea sull’attaccamento, nelle sue versioni più iper-accuditive, mira spesso ad assicurare vicinanza continua, eliminando l’esperienza della mancanza. Ma, per Lacan, il desiderio nasce solo dove c’è mancanza: se tutto è già anticipato, fornito, previsto dall’Altro, allora non c’è spazio per il soggetto di desiderare.
Un altro tema centrale, raramente affrontato, è quello dell’invidia materna verso le figlie, che Pigozzi definisce un tabù culturale. Attraverso esempi clinici e biografici — come il celebre caso della madre di Maria Callas — l’autrice mostra come l’invidia possa deformare il legame fino a incidere sul corpo stesso, com’è accaduto alla voce della cantante. Per Pigozzi, il rapporto tra Maria Callas e la madre è un caso rivelatore, perché la madre non solo non riconosce il valore della figlia, ma vive il suo talento come una sorta di “debito” da farle pagare. Nella lettura dell’autrice, l’invidia materna non si limita al piano affettivo, può letteralmente incidere sul corpo, deformare simbolicamente o concretamente la voce, il gesto, il respiro della figlia. La voce, nel caso della Callas, diventa il luogo del conflitto. Secondo Pigozzi, l’invidia materna nasce quando la figlia incarna possibilità che la madre sente di non aver avuto, realizza un desiderio che la madre ha dovuto abbandonare, rappresenta un femminile che la madre non ha potuto o saputo vivere. La figlia diventa allora l’emblema di ciò che la madre ha perduto. Nel caso Callas, la madre percepisce la potenza vocale e carismatica della figlia come qualcosa che la sovrasta e la smentisce. Da qui l’ambivalenza: promuovere la figlia per il proprio tornaconto, ma, contemporaneamente, attaccandola e svalutandola a causa del proprio sentimento invidioso.
La Callas diventa così un caso emblematico non di “madre cattiva”, ma di ciò che accade quando la complessità del femminile — desideri, ambivalenze, rinunce — viene compressa nel ruolo materno. La figlia diventa il bersaglio: la giovane donna che vive ciò a cui la madre ha rinunciato diventa l’oggetto di un risentimento distruttivo, capace di spezzare voci e destini. L’obiettivo non è demonizzare la madre, ma restituire complessità al femminile: essere donna è più difficile che essere madre, scrive Pigozzi, e la rinuncia a questa complessità genera molte distorsioni relazionali nella famiglia.
Da un’altra angolatura, quanto il ruolo materno è ancora imbrigliato negli stereotipi patriarcali che vogliono la madre “tutta madre”? Con le parole di Hélène Cixous: “nella parola come nella scrittura femminile non cessa mai di risuonare ciò che, avendoci una volta attraversato, toccato impercettibilmente, profondamente, conserva il potere di colpirci: il canto, la prima musica, la prima voce d’amore, che ogni donna preserva, custodisce. La donna non è mai lontana dalla madre […]. Sempre in lei sussiste un po’ del latte materno. La donna scrive con l’inchiostro bianco”.
La citazione, tratta da Il riso della Medusa, evidenzia quanto per una donna sia sempre un nutrimento necessario riscoprire le tracce della madre liberate dalle costrizioni patriarcali, per ritrovare sé stessa come donna e riconoscere alla madre il diritto di essere, anch’essa, donna. In quest’ottica, l’invidia materna potrebbe essere superata grazie a un consapevole distanziamento dagli stereotipi patriarcali che ancora imprigionano il materno.
Nella parte dedicata alla funzione materna, Pigozzi propone tre livelli: ritmo, svezzamento e soglia. Il ritmo introduce il bambino all’alternanza presenza–assenza della madre, fondamento del pensiero e della vita psichica. Lo svezzamento introduce l’esistenza di un Altro e rappresenta la prima differenza simbolica; è il passaggio al diverso, al cibo dell’altro, che apre al linguaggio e alla relazione. La soglia è il luogo del passaggio verso il mondo esterno: la madre è la prima “geografia del possibile simbolico”, che accompagna il figlio senza trattenerlo né invaderlo.
Questi livelli delineano una danza lentissima e continua di separazione, che dura tutta la vita. Una madre deve elaborare il lutto del bambino piccolo per diventare la madre del bambino grande, dell’adolescente, dell’adulto. Deve accettare di essere ammirata e poi odiata, desiderata e poi rifiutata: è il destino di ogni relazione autentica e non simbiotica.
La cultura dominante preferisce spesso occultare l’ambivalenza dell’esperienza materna, le sue derive distruttive, la necessità di una cornice simbolica perché non si trasformi in una totalità invasiva. Essere donna è più difficile che essere madre: molte donne diventano madri perché non sanno come incarnare soggettivamente la propria femminilità. La maternità rischia così di diventare un rifugio identitario. Il libro invita le donne a recuperare Eros e vitalità emancipandosi dalle costrizioni culturali che legano queste dimensioni alla seduttività stereotipata, regolata da logiche di mercificazione del corpo femminile.
Non solo madri è un libro che non addolcisce la complessità del rapporto madre-donna e non ripropone le formule consolatorie del discorso materno contemporaneo. La maternità non può essere un rifugio identitario né una scorciatoia, perché essere donna richiede di confrontarsi con il proprio desiderio, con la propria mancanza, con il proprio limite. La cura autentica è sempre una cura che apre all’alterità, che non ingloba e non crea chiusure mortifere. È un testo che restituisce responsabilità alla madre, ma anche libertà: quella di non essere solo madre, ma anche donna — nei confronti dei figli e di sé stessa.
In copertina, Mother © Laura Berger.