Liberare le buone idee

7 Marzo 2014

Dopo aver commentato l’articolo di Maggioni e Beretta, provo qui a proporre delle considerazioni più costruttive. Pur essendo un filosofo, non mi diletto nelle tassonomie. Grazie alle puntualizzazioni di Marta Mainieri credo che l’articolo iniziale, a firma Maggioni e Beretta, abbia trattato il tema della sharing economy da una prospettiva più ampia rispetto al significato oggi attribuitole da Rachel Botsman.

 

Se di equivoco si tratta, in parte la responsabilità è della stessa Botsman che, nel suo libro manifesto (“What’s mine is yours”, scritto insieme a Roo Rogers) ha utilizzato il termine “collaborative consumption” e lo ha impiegato per descrivere un’ampia gamma di fenomeni che cito abbastanza liberamente: “baratto (swap), banche del tempo, valute virtuali, scambio di attrezzi, di terreni, condivisione di giochi, uffici, co-housing, co-working, couchsurfing, car sharing, crowdfunding, bike sharing, noleggio p2p, car pooling” ecc (p. 71).

 

Ammetto che trovavo più interessante questo raggruppamento di fenomeni eterogenei, e che ritengo un po’ limitata la definizione di sharing economy più corretta riportata da Mainieri: “i servizi collaborativi più propriamente detti […] sono quelli che mettono direttamente in contatto le persone (chi offre e chi cerca) per condividere o scambiare beni, competenze, tempo, e denaro”.

 

A mio modesto parere, un’economia basata solo su una sorta di mercatino di quartiere 2.0, o una banca del tempo, è poco eccitante. Che decida di rivendere i miei abiti usati tramite internet impatta di qualche euro sulle mie finanze, è più probabile trovare acquirenti disposti a spendere qualcosa di più, ma la macroeconomia difficilmente se ne accorgerà, anche per le minacce di regolamentazione paventate giustamente da Maggioni e Beretta: un’estensione della tassazione renderà meno lucrose certe transazioni.

 

Proviamo pertanto ad andare oltre la purezza tassomonica, cercando un fattore comune tra Collaborative Economy, Collaborative Consumption, Sharing Economy e Peer Economy sviluppando riflessioni non certo originali, nate dall’internet economy, credo che il fattor comune sia l’attacco agli intermediari e la semplificazione dell’accesso al mercato da parte di chiunque; considerazioni, peraltro, già presenti nel testo di Botsman e Rogers (cfr. p. 108).

 

Sintetizzerei questi fenomeni con l’espressione “capitalismo paritario”: un sistema dove è più facile accedere a finanziamenti, mezzi di produzione (open manufacturing - fablab), prodotti, servizi e distribuzione, senza dover sottostare a colli di bottiglia sempre meno efficienti e trasparenti (le banche di cui ai commenti, per esempio). Colli di bottiglia che esercitano un potere su chi deve attraversarli: il capitalismo paritario aumenta le possibilità di autorealizzazione, slegandole da censo, educazione, conoscenze. Produce inoltre un mercato davvero concorrenziale in cui torna a valere l’allocazione ottimale, perché gli attori sono price takers (agiscono indipendentemente, non di concerto) e sono sufficientemente piccoli da non influenzare il mercato – rimando qui all’economista liberale Luigi Zingales che, in Manifesto capitalista, sostiene l’importanza di ridimensionare lobbisti e conflitti di interesse.

 

Siamo disposti a cambiare i nostri concetti e termini? Le resistenze da combattere sono notevoli. Stiamo infatti trattando la sharing economy come l’ennesima moda del web e per venderla meglio cerchiamo di dipingerla con un po’ di romanticismo. Abbiamo trovato il modo per sfruttare la nostra naturale bontà, per dare più peso alla fiducia reciproca, possiamo avviarci verso una società migliore con qualche algoritmo ben congegnato… magari! Si tratta di una moda che viene alimentata da venture capitalists sempre alla ricerca di buone exit [quotazioni in borsa della start up], quindi obbligati a creare bolle contenutistiche per alimentare bolle finanziarie - rimando al padre della finanza comportamentale, Robert Shiller, che in Euforia Irrazionale spiega l’origine delle bolle speculative.

 

Riportare in auge il termine capitalismo dovrebbe chiarire il mio punto di vista: ciò che cresce attorno alla sharing economy e al collaborative consumption non è un’alternativa che può sostituirsi al sistema di produzione capitalista, è, piuttosto, un complemento che può ridurne gli effetti distorsivi o, addirittura, massimizzarne gli effetti positivi.

 

Non c’è motivo di pensare che gli attori economici del capitalismo paritario siano troppo diversi dal capitalismo “classico”; hanno forse una razionalità più estesa, se è vero che il risparmio è giustamente uno dei primi motivi per cui si entra in questo mondo, è anche vero che si accompagna ad altri bisogni da soddisfare: come la socialità, l’arricchimento personale ed esperienziale. Il couchsurfing è un modo per conoscere la realtà da un altro punto di vista, il prestito p2p [tra privati] è un modo per empatizzare o rispondere alle proprie esigenze etiche offrendo loro come soluzione un comportamento economico - soprattutto nel caso di Kiva.

 

Se il capitalismo è cresciuto producendo beni materiali e convincendoci del bisogno di consumarli (portando a un iper-consumo), oggi potrebbe maturare, dandoci modo di soddisfare bisogni immateriali e rafforzando i legami sociali. Diventare tutti micro-attori economici ci potrebbe consentire di capire un po’ meglio anche la macroeconomia e, forse, potrebbe spingerci a smettere di delegare i nostri bisogni e le nostre risorse ad aziende e investitori divenuti inaffidabili e onnipotenti.

 

Le sfide intellettuali mi paiono notevoli e molto interessanti: chi utilizza servizi del capitalismo paritario non può riferirsi solo al prezzo per compararli, deve valutare l’affidabilità del rivenditore, di solito espressa con un rating pubblico, deve trattare e confrontare informazioni non omogenee. Le difficoltà della scelta individuale sono amplificate dall’importanza dell’ecosistema: per garantire successo alle transazioni, più complesse, ha bisogno di strumenti di facilitazione a prova di truffe e free rider [scrocconi]. Comprare un bene in un negozio si limita a un’operazione di pagamento, comprarlo su Ebay richiede comparazioni, tattica, scambio di messaggi con i venditori per valutare la qualità del prodotto.

 

Entriamo in una fase “strutturalista” in cui non basta la fiducia bensì conta il modo in cui il sistema-servizio è congegnato, attraverso contrappesi, assicurazioni, rating, karma dei venditori [storia delle precedenti transazioni commerciali], comunicazioni incessanti tra attori economici.

 

Come tutti i fenomeni economici, il capitalismo paritario approfitta di vizi e virtù, e sarebbe ingenuo non sottolinearlo. Chi mi ha preceduto ha discusso del profitto con un accento un po’ critico, e mi sembra quindi onesto discutere del significato delle commissioni applicate da alcuni servizi: se nel caso di Airbnb vedo ben poco di social, in BlaBla car vedo meno inquinamento e maggiori relazioni umane; stesso discorso per BarattoBB, Dropis, siti che riducono gli sprechi, o Fluentify e Ideasharing, siti che accrescono gratuitamente la conoscenza mediante lezioni individuali. Mi sembra utile accostare i casi della seconda specie alle benefit corporation, alle low profit, o a Ong auto-sostenibili: il denaro serve a mantenere in piedi un’infrastruttura che crea un ritorno positivo nei confronti della società.

 

In questo intervento ho lanciato soprattutto degli spunti per aumentare gli strumenti critici con cui analizzare un corpo vasto, innovativo ed eterogeneo di fenomeni economici. Vorrei concludere stabilendo anche dei limiti alla sua estensione.

 

Se pensiamo di utilizzare al meglio prodotti di cui disponiamo sfruttando quella che Botsman e Rogers descrivono come idling capacity [potenziale “a riposo”: strumenti come i trapani utilizzati due/tre volte nella vita], potremo prolungarne la durata attraverso l’autoriparazione, la stampa 3d in metallo dei ricambi, ma l’usura è un fenomeno fisico ineluttabile. Né ha senso rinunciare al progresso tecnologico, alimentato dalla ricerca del profitto, per scambiarsi oggetti usurati e di minore qualità. Se le persone spendono meno per prodotti inutili, possono pagare di più per prodotti di qualità superiore o spendere di più per servizi formativi o legati al benessere.

 

Il numero e la natura dei servizi di capitalismo paritario sono notevoli, ma è importante non abbandonare il know-how capitalista: il prestito p2p richiede una valutazione accurata del profilo di rischio dei debitori [quanto è probabile che riescano a restituire il prestito?]; forse è meglio che si affidi a un filtro tenuto da esperti (non per forza una banca, ma almeno un pool di agenti finanziari trasparente e aperto). Stesso discorso per il crowdfunding: un’analisi pre-campagna (pubblicata in caso di rifiuto) delle effettive capacità dei team di realizzare i prodotti proposti riduce sonori fallimenti ed evita danni reputazionali a un sistema di finanziamento davvero promettente.

 

Sta a noi costruire i migliori sistemi per incentivare il capitalismo paritario: ecco perché è importante non cadere vittime di utopie ed evitare l’atteggiamento opposto, il loro ridimensionamento cinico.

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