La cultura come risposta alla crisi

5 Luglio 2013

Il senso comune vede nella cultura un surplus cui si può facilmente rinunciare nel momento in cui diminuisce il reddito a disposizione e, ora che siamo al quinto anno di crisi, parlarne può sembrare inopportuno, a meno che non si abbiano solidi argomenti.
Nonostante l’entità del disastro economico, si fatica a vedere analisi critiche che consentano di andare oltre l’attuale modello capitalista basato sullo sfruttamento della manifattura esternalizzata e sulla gestione del disequilibrio nel mercato dei capitali attraverso una finanza deregolamentata. 

In questo doppio articolo (la seconda parte comparirà su doppiozero il prossimo mercoledì ndr) intendo in primo luogo dare delle solide giustificazioni a una politica di investimenti culturali, ricavandole in parte avendo sullo sfondo la crisi del sistema neoliberista, e cerco, in secondo luogo, di abbozzare delle strategie di sviluppo coerenti.

 



Da dove partiamo? Nel 2012 la produzione culturale italiana contribuisce al 5,4% della ricchezza prodotta, equivalente a quasi 75,5 miliardi di euro, nonché all’occupazione di circa un milione e quattrocentomila persone, ovvero il 5,7% del totale degli occupati del Paese (Fondazione Symbola, Unioncamere (2013). “Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”. Rapporto 2013.).

Aumentare i posti di lavoro e i consumi culturali permetterebbe tassi di crescita probabilmente meno spettacolari della speculazione edilizia, ma di sicuro rilievo, in quanto parte dei consumi oggi rivolti a beni materiali può essere spostata ad acquistare esperienze, benessere, auto-formazione, ovviamente nei limiti del tempo libero, che non è detto non possa aumentare.
Per avere un’idea delle potenzialità, pur nella consapevolezza che una sostituzione completa non sia possibile, ci basti pensare che il mercato mondiale dei videogiochi oggi raggiunge i 70 miliardi di dollari o che le ore passate davanti alla televisione nei soli Stati Uniti sono 1500 all’anno per persona. Le famiglie italiane nel 2007 spendevano in consumi culturali il 6,9% contro una media europea del 9% (Beretta, Migliardi, 2012, Le attività culturali e lo sviluppo economico: un esame a livello territoriale”, Questioni di economia e finanza (Occasional papers) n. 126, Banca d’Italia): raggiungere la media europea vorrebbe dire iniettare 19 miliardi di euro.

La ricchezza prodotta dai consumi culturali non produce inquinamento né sfruttamento (in linguaggio economico, non crea esternalità negative): appare evidente che la spesa culturale è sostenibile, socialmente ed ecologicamente, visto che possiamo produrre cultura illimitatamente, anche grazie alla digitalizzazione, e a bassi costi ambientali; il bene culturale non si consuma e non vive di mode che richiedono un ricambio continuo. Il moltiplicatore appare molto interessante: per ogni euro investito si producono 2,49 euro di valore aggiunto (Beretta, Migliardi citato).

Un altro argomento per sostenere forti investimenti in cultura è del tutto sconosciuto all’opinione pubblica italiana ma viene discusso in paesi tecnologicamente più avanzati (per esempio: http://www.technologyreview.com/featuredstory/515926/how-technology-is-destroying-jobs/ )
Si tratta della disoccupazione tecnologica, provocata da robot sempre più abili e da algoritmi in grado di gestire la complessità di domini imprevedibili, come lo logistica e la finanza. Nel campo finanziario, i media più specializzati parlano sovente di high frequency trading, di previsioni di borsa basate su twitter sentiment o big data, di siti di investimento sociale (come http://www.estimize.com/about).
Una rassegna aggiornata di robot, giusto per avere un’idea più precisa dello stato dell’arte, è presente in questo sito: http://robotswillstealyourjob.tumblr.com/

 



Laddove si nascondano routine manuali e problemi di efficentamento la macchina è destinata a prevalere, è solo questione di tempo, con buona pace di chi suggerisce ai giovani di non studiare discipline umanistiche. Ecco allora che tutto ciò che è creativo, “inutile” agli occhi della logica economica, non risulta imitabile da alcun programma, per quanto complesso: non esistono problemi di ottimo per l’arte, semmai ci troviamo di fronte all’esatto contrario, e il vero artista è tendenzialmente contro-corrente.

Riprendendo a parlare di conseguenze positive, un ulteriore argomento a favore di investimenti in cultura è di tipo sanitario: la cultura fa bene, previene e cura malattie psichiche, aumenta la qualità percepita della vita. Mentre la cura delle malattie gode di un’ampia letteratura, soprattutto psicanalitica, occorre aumentare gli sforzi per comprendere la capacità preventiva e gli effetti sul life style. A parere di chi scrive, i risultati di alcuni studi preliminari scontano la difficoltà di separare l’apporto culturale dall’apporto economico; il fatto che le zone in cui si vive meglio siano anche le più ricche del paese non aiuta a capire se la cultura abbia un influsso positivo sul benessere,  già garantito da maggiori disponibilità sanitarie, maggiore informazione, maggiore attività sportiva.
 
Più promettenti appaiono studi di neuroscienze che identificano le aree cerebrali coinvolte nei giudizi estetici e le confrontano con l’attivazione legata al piacere; cito dalle conclusioni di uno di questi (http://www.pnas.org/content/98/20/11818.long):
“we have shown here that music recruit neural systems of reward and emotion similar to those known to respond specifically to biologically relevant stimuli, such as food and sex, and those that are artificially activated by drugs and abuse.” E ancora “[...] music may not be imperative for survival of the human species, it may indeed be of significant benefit to our mental and physical well-being”.
Arrivare a una dipendenza da musica classica può non essere facile, richiede molto investimento in tempo e pazienza e, soprattutto, un approccio educativo al piacere: prima si scopre che il vero organo erogeno è il cervello, prima si impara a nutrirlo con libri, film, spettacoli, quadri, musica di qualità. Dovremmo forse smettere di pensare di essere (solo) organismi biologici che rispondono a sostanze chimiche, come l’attuale psichiatria vorrebbe farci credere, o scimmioni che reagiscono allo stesso modo a stimoli elementari come belle donne e hamburger.

Siamo complessi e relazionali per natura: buona parte della nostra insoddisfazione e delle nostre nevrosi deriva dalla difficoltà di gestire i rapporti umani e gli imprevisti. Eppure, la nostra società fa molto poco per educare i giovani alle relazioni interpersonali, e, laddove ci prova, tendenzialmente fa danni proponendo modelli narcisisti, insicuri, parossistici.

 

La cultura umanistica pare rispondere a questo bisogno (un tema tipico dell’opera di Martha Nussbaum; cfr. anche Dutton, D. (2009), The Art Instinct, Oxford, Oxford University Press):
 offre spaccati di vite nella loro complessità emotiva, ed è pertanto capace di accrescere la nostra sensibilità e comprensione empatica dell’altro - presupposto fondamentale di qualunque relazione funzionante. L’arte, nella prospettiva evoluzionista di Dutton (citato) consente di addestrare le persone alle pratiche sociali, ai riti, di trasmettere conoscenza utile per la vita di tutti i giorni; l’arte di finzione allena il nostro cervello ad affrontare situazioni impreviste e sviluppa la nostra creatività - fino ad anticipare eventi epocali: http://it.wikipedia.org/wiki/The_Lone_Gunmen)
Considerazioni di sicuro interesse per qualunque studioso di management e gestione risorse umane.

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