Mario Giacomelli: sotto la pelle del reale
Il più eretico dei fotografi italiani. Eretico nel senso etimologico e vero della parola, ovvero colui che compie una scelta, una scelta divergente. Questo è stato Mario Giacomelli nella storia della fotografia, non solo italiana: sperimentatore libero e anticonformista, lontano da appartenenze a gruppi, scuole, tendenze, che ha scelto fin dall’inizio una strada tutta – e soltanto – sua, con la quale ha scardinato ogni visione precostituita. Tra i primi, quantomeno in Italia, ad avere scoperto una dimensione “metafisica” della fotografia, non più strumento per replicare la realtà, ma per andare oltre, appunto, per pensare, per interpretare il reale, consapevole che in ogni ricerca artistica è in gioco la propria relazione con il mondo, con sé nel mondo. In questa direzione, e ben prima di Luigi Ghirri e degli autori di Viaggio in Italia, l’attività di fotografo non ha significato per lui la rigida professione, ma la scelta di una disciplina espressiva all’interno di un progetto di vita globale. Ecco perché dopo Mario Giacomelli si può ben dire che la fotografia in Italia, non è stata più la stessa.
Il primo ad accorgersene fu Paolo Monti nel 1955, che, nella giuria del Concorso nazionale di Castelfranco Veneto, descriveva così l’originalità di quel candidato: “Ad un tratto, fra le migliaia di copie che ci franavano addosso, apparvero le fotografie di Giacomelli. Apparizione è la parola più propria alla nostra gioia ed emozione, perché di colpo la presenza di quelle immagini ci convinse che un nuovo fotografo era nato”. Da questo momento ha inizio la fortunata, ma anche sofferta, esperienza artistica di Giacomelli, che, arrivato alla fotografia dopo avere fatto il tipografo (mestiere che gli tornerà molto utile in camera oscura), si rivelerà come la personalità più originale della fotografia italiana del secolo scorso. Lui, che non si era quasi mai mosso dalla piccola Senigallia, dove è nato, vissuto e morto, così legato alla sua terra, è stato tra i primi italiani ad entrare nella collezione del MoMA di New York, quando nel 1964 John Szarkowski, allora potente e carismatico direttore del dipartimento di fotografia, acquisisce la serie Scanno e alcune immagini dei cosiddetti Pretini (Io non ho mani che mi accarezzino il volto). Ormai la sua fama è mondiale. Nello stesso anno partecipa alla Biennale di Venezia. Nel 1980 Arturo Carlo Quintavalle, tra i suoi più acuti esegeti, gli dedica la prima ampia monografica allo CSAC di Parma.

In occasione del centenario della nascita, l’1 agosto 1925, Milano e Roma dedicano al grande maestro marchigiano, due importanti mostre parallele, promosse dall’Archivio Mario Giacomelli, entrambe curate da Katiuscia Biondi Giacomelli e Bartolomeo Pietromarchi: la prima a Palazzo Reale, dal titolo “Il fotografo e il poeta” e la seconda a Palazzo delle Esposizioni intitolata “Il fotografo e l’artista”, visitabili fino al 7 settembre. Per l’occasione, Silvana Editoriale pubblica il monumentale volume che raccoglie le opere realizzate tra il 1954 e il 2000, con un ricco apparato di saggi.
Le due esposizioni hanno come fulcro l’importanza per Giacomelli di porre la fotografia in dialogo con altre discipline e forme espressive. Questo dato è fondamentale per comprendere l’intera opera dell’artista marchigiano, un’opera e un insieme culturale composito che dagli anni sessanta ha rilanciato il dibattito e la riflessione sulla fotografia, mettendoli in rapporto sia con l’esperienza letteraria sia con i linguaggi dell’arte e facendo convivere linguaggio descrittivo, forma narrativa e valore simbolico, in un importante incontro tra scritture diverse.
In tutto questo la poesia ha avuto un ruolo centrale, come bene si coglie dall’importante retrospettiva milanese, con oltre trecento immagini originali e materiale d’archivio, che si focalizza proprio sul legame del fotografo con il linguaggio poetico.
Il modo di pensare e di vedere il mondo di Mario Giacomelli è stato infatti influenzato dalla consuetudine con la poesia, che ha forgiato in lui una straordinaria forma di immaginazione analogica. Il verso poetico, anche come autore in proprio, è stato un potente nucleo generativo di figure.
Molte delle sue opere, visibili anche in mostra, sono trasposizioni fotografiche di alcune poesie che lo hanno colpito in modo profondo (L’Infinito e A Silvia di Giacomo Leopardi, Io non sono nessuno di Emily Dickinson, La notte lava la mente di Mario Luzi, Ritorno di Giorgio Caproni, solo per citarne alcune), altre riprendono titoli di componimenti di grandi poeti (come Turoldo, Pavese, Lee Masters).
Magnifica è la sala che riunisce le immagini della serie Caroline Branson da Spoon River, realizzate tra il 1967 e il 1973. Una sala dedicata all’amore, dove sono esposte anche le immagini attraverso le quali l’artista-fotografo ha interpretato il poema Passato di Vincenzo Cardarelli.
La serie Per poesie, espone invece per la prima volta molte fotografie inedite, che l’artista ha lasciato lievitare per anni all’interno di scatole ora finalmente aperte, rivelando ancora di più la visceralità del legame con la poesia, motore e fondamento della sua ricerca.
Tutto il lavoro fotografico di Giacomelli è dunque percorso da echi che rimandano e rimbalzano dal verso all’immagine. Come fossero un unico poema, le sue fotografie si rincorrono e a volte addirittura tornano da una serie all’altra, da una stanza all’altra. In lui poesia e immagine appaiono come la declinazione di una fonte comune dalla quale possono generarsi vicendevolmente e appartenersi.

Tuttavia le fotografie di Mario Giacomelli – è bene precisare – non sono affatto “poetiche”, nel senso corrente (e corrivo) del termine. La poesia, o meglio l’idea della poesia, è per lui prima di tutto un’ancora di salvezza, come forza sintetica e di concentrazione, come ritmo del pensiero, come rimando di temi che, sì, s’intrecciano tra loro, ma come avviene alle rime nelle poesie. Questo aspetto, a un osservatore attento, emerge con chiarezza nelle varie sezioni della mostra e scorrendo le pagine del volume.
Come noto, e come si percepisce anche visitando le due mostre simultanee, il paesaggio è stato fondamentale nel suo percorso creativo, ricorrendo continuamente come infinite varianti di uno stesso motivo. In particolare il paesaggio campestre delle Marche, ripreso in modo personalissimo e interpretato in maniera sempre più grafica. “Cerco i segni nella terra, cerco la materia e i segni, come può fare un incisore”, ha spiegato. Il paesaggio di Giacomelli è insieme reale e inventato, così come il suo sguardo è visionario e visivo al contempo. Da un lato la tradizione bressoniana, dall’altro la reinvenzione surrealista delle immagini. A quest’ultima categoria, soprattutto, appartiene la serie dei paesaggi dell’ultimo periodo. E proprio il motivo del paesaggio lega profondamente l’opera di Giacomelli a quella del conterraneo Leopardi. Per quest’ultimo, così come per il fotografo, quando lo sguardo si apre al paesaggio, si apre alla conoscenza, al mito e alla storia, si appresta a cogliere le infinite relazioni della natura umana. È in particolare il paesaggio delle Marche ad accomunare la loro esplorazione artistica: entrambi modellano territori fisici e interiori. Le serie L’infinito e Presa di coscienza sulla natura restituiscono l’essenza più profonda della contemplazione leopardiana, quel “doppio sguardo” di cui parlava il genio di Recanati.
È proprio nelle fotografie che hanno per soggetto il paesaggio che emerge la matrice concettuale e informale di Giacomelli. Questo aspetto è al centro della mostra a Palazzo delle Esposizioni di Roma, che si concentra sul dialogo di Giacomelli con le arti visive contemporanee: 300 stampe originali, molte inedite, accostate a opere di Afro Basaldella, Alberto Burri, Jannis Kounellis, Enzo Cucchi e Roger Ballen.
È soprattutto nel confronto con le opere pittoriche di Afro e Alberto Burri che si coglie il rapporto tra astrazione e materia nel lavoro di Giacomelli. Le sperimentazioni di quest’ultimo sulla superficie fotografica riecheggiano le ricerche materiche, alchemiche e pittoriche dei due artisti, in una comune indagine sulla densità del nero e del bianco, sul contrasto e sul segno. Amico personale di Burri e profondamente attratto dalla sua arte, Giacomelli ha trovato anche nel lavoro dell’artista-medico un costante punto di riferimento, visibile nelle sue sperimentazioni, soprattutto in camera oscura. Particolarmente significative sono le celebri serie paesaggistiche: Motivo suggerito dal taglio dell’albero (1966-1968), Territorio del linguaggio (1994) e Bando (1997-1999).

La mostra romana mette dunque in luce il dialogo che Giacomelli ha instaurato con gli artisti della sua generazione dimostrandosi in grado di assorbire le più varie suggestioni, dall’Arte Povera all’Informale fino all’astrazione più radicale, di cui “si nutriva – ha giustamente osservato Bartolomeo Pietromarchi – ma che poi trasformava in modo assolutamente personale”.
Tuttavia come ha scritto Elio Grazioli nel saggio del volume, a proposito della sua attenzione a quanto accadeva nella ricerca artistica del suo tempo: “…Vedere figure non va inteso come la proiezione del figurativo nelle forme casuali, “informi”, non tanto cioè nel senso del cosa si vede, ma del vedere stesso, dello sguardo, del vedere e fotografare lo sguardo. Ovvero, secondo una formula ribadita più volte in formulazioni diverse: “Io cerco di fotografare i pensieri”, che significa fotografare il pensiero, non solo quello che si è avuto nel momento dello scatto, ma il pensare, quello che nasce insieme al vedere. Di nuovo lo scatto fotografico è dif/ferenza. Vorrei azzardare che Giacomelli intendesse questa formula anche come una risposta, risposta fotografica, all’Arte concettuale, che riduceva anche la fotografia a concetto: irriducibilità del pensiero e della visione alla concettualità”.
Le immagini di Mario Giacomelli, lontane dall’oggettività quanto dal sentimentalismo, sono oggi lucide testimonianze di una mente che si muove tra materia e astrazione, capace di ricreare continuamente la materia della realtà, di “entrare sotto la pelle del reale”, per usare una sua espressione. Lo scorrere del tempo è il vero soggetto di queste fotografie, un tempo ciclico che torna da una serie all’altra, da un’immagine all’altra, in un processo che tutto trasforma e mai definisce.
Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta, Palazzo Reale, Milano
A cura di Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli
dal 22.05.2025 al 07.09.2025
Mario Giacomelli. Il fotografo e l'artista, Palazzo esposizioni, Roma
A cura di Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli
dal 20.05. 2025 al 03.08.2025
Catalogo: Mario Giacomelli, Opere 1954-2000, Silvana Editoriale
