Il banale quotidiano di Stephen Shore

17 Settembre 2025

Con la sua consueta e geniale ironia, Stephen Shore ha raccontato di recente di avere chiesto a un sistema “da testo a immagine” di “fotografare come Stephen Shore” e ha postato su Instagram l’immagine di un unico palo al centro di quello che sembra un complesso industriale, dichiarando poi che questa fotografia possedeva «una specie di vacuità inespressiva» che gli era piaciuta. Questo esperimento ha mostrato come l’IA “vede” l’opera del maestro americano universalmente considerato uno dei padri fondatori della fotografia moderna a colori. Sperimentatore aperto alle nuove tecnologie e ai nuovi linguaggi e media (negli ultimi anni la sua attività si è molto spostata su Instagram), è sempre rimasto coerente al suo stile antispettacolare, dove prevale l’ordine matematico della composizione (come in effetti sembra avere intuito anche l’esperimento con l’intelligenza artificiale).

Per capire a fondo l’opera di Stephen Shore e l’importanza del suo magistero anche sulle generazioni successive, occorre però fare un salto temporale di qualche decennio, ben prima della nascita delle cosiddette “immagini sintetiche”, quando, a partire dagli anni Sessanta, ancora adolescente, il grande autore newyorchese muoveva i primi passi con la camera, realizzando on the road le sue prime fotografie in bianco e nero percorrendo in lungo e in largo le strade della Grande Mela.

Oggi questi suoi primi lavori sono stati riuniti nel bel volume Early Work edito dalla casa editrice MACK di Londra (pp. 172, € 65,00).

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Nato nel 1947, Shore è stato un talento precocissimo. All’età di 14 anni presenta le sue fotografie ad Edward Steichen, il direttore del MoMa. A 24 anni diventa il primo fotografo nella storia a cui è dedicata una personale al Metropolitan Museum of Art di New York, dove si farà notare da Andy Wahrol. L’anno successivo parte per un viaggio di due anni attraverso gli Stati Uniti, dal quale nascerà “American Surfaces”, libro-totem, che esplora senza enfasi gli effetti della cultura del consumo sul paesaggio americano e che lo consacrerà come uno degli artisti-fotografi più influenti degli ultimi decenni, segnando il passaggio dalla fotografia documentaria a una concettuale e autoriale.

Early Work raccoglie per la prima volta le fotografie inedite realizzate da Shore durante la sua adolescenza, tra il 1960 e il 1965, un periodo ricco di sperimentazioni. Queste immagini dimostrano la concezione già complessa che aveva della forma fotografica e la particolare attenzione con cui si avvicinava a ciò che lo circondava. Il volume rivela i temi che hanno costituito una fonte costante di interesse per il giovane fotografo: lo spazio urbano, i segni del paesaggio, la poetica dell’ordinario che diventa degna di essere osservata con attenzione.

Per lui la fotografia è sempre stata strumento di riflessione sull’atto stesso del vedere. In un’immagine tra le più emblematiche realizzate in quegli anni, Shore ritrae un angolo urbano dominato da un’insegna Esso e un’auto d’epoca parcheggiata. Il centro del fotogramma è occupato dalla scena quotidiana – un marciapiede bagnato, elementi architettonici anonimi, forse anche persone appena percepibili. L’inquadratura riflette già una sensibilità visiva matura: quell’area metropolitana banale diventa soggetto di osservazione con un occhio attento alla configurazione dello spazio visivo.

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In un’altra fotografia ci troviamo a un incrocio con un segnale stradale in primo piano che indica le direzioni (freccia sinistra – freccia destra). Sullo sfondo si percepiscono edifici, insegne di attività commerciali o abitazioni, e una presenza sottile di traffico o veicoli. La scena sembra presa in un momento ordinario. L’inquadratura dimostra una consapevolezza compositiva precoce: il segnale diventa elemento di ancoraggio visivo, mentre gli elementi sullo sfondo creano profondità e contesto senza distrarre. La fotografia incarna l’abilità di Shore nel trasformare luoghi anonimi in immagini dense di potenzialità narrativa.

In questa direzione Early Work offre una testimonianza autorevole della sensibilità innata con cui l’autore ha affrontato non solo il suo mestiere, ma anche il mondo che lo circondava, fin dalla sua giovane età.

Racconta il maestro americano nell’intenso saggio, in forma di racconto, che accompagna le immagini: «Ho imparato a vedere in bianco e nero. Il risultato di questi anni di sperimentazione è stato che non dovevo più pensare alla tecnica. Era diventata una seconda natura, era stata assimilata. Allo stesso tempo, ho imparato la storia della fotografia. Ho studiato il lavoro dei fotografi della Guerra Civile e dell'esplorazione del West; Cameron e Frith; i maestri dell'inizio del XX secolo (Atget, Stieglitz, Riis, Hine, Steichen, Strand, Abbott); i fotografi della FSA (Evans, Lange, Lee); Cartier-Bresson e Kertész; Weston e Sommer; Levitt e Weegee; Klein e Frank. E, naturalmente, i fotografi contemporanei». Shore ha spiegato il suo apprendistato culturale anche nel memoir Modern Instances: The Craft of Photography, personale autobiografia, edita sempre da MACK nel 2022, dove ha raccontato la sua profonda passione per la storia dell'arte italiana, e in generale uno stretto rapporto con l’Italia. 

Ma ciò che ha davvero cambiato il corso del suo cammino artistico è stato l’incontro con Andy Warhol e la sua Factory. A 17 anni, infatti, lascia la scuola per dedicarsi a tempo pieno a frequentare la fucina del maestro della Pop Art. «Alla Factory – spiega lo stesso Shore – potevo semplicemente lavorare. Ho imparato molto osservando Andy, un artista nel pieno del suo processo creativo. Questa esperienza mi ha instillato il gusto per il pensiero estetico. Questo, insieme alla padronanza tecnica che avevo sviluppato, ha costituito la base per l'esplorazione formale che ho iniziato quando ho lasciato la Factory, a partire dalle mie sequenze concettuali e proseguendo con “American Surfaces” e “Uncommon Places”. Ho visitato la Factory regolarmente per i tre anni successivi. È quello che ho fatto invece di andare al college. La mia famiglia era angosciata dal fatto che avessi lasciato la scuola, anche se credo che alla fine abbiano accettato che non avrei vissuto la vita che avevano immaginato per me. Nessuno dei miei genitori aveva frequentato l'università e so che si aspettavano che io ci andassi».

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Queste fotografie offrono anche una testimonianza unica della vibrante energia della New York dei primi anni '60, epicentro culturale mondiale: creativa, caotica, politicamente carica e profondamente trasformativa. Una delle città più importanti per lo sviluppo delle arti visive, della musica, della letteratura, del teatro e dei movimenti sociali del XX secolo. Allora centro nevralgico di tutta la cultura e l’arte concettuale americana, della quale le fotografie di Stephen Shore si appropriano. È in questi anni che incontra figure che segneranno il suo lavoro, oltre a Andy Warhol con la sua Factory, anche Ed Rucha, Roy Lichtenstein, James Rosenquist, Sol LeWitt, Lawrence Weiner. Ed è proprio in questo ambiente che un giovane Stephen Shore si inserisce, mentre percorre le strade newyorchesi affinando lo sguardo ed esplorando linguaggi nuovi, con un forte legame alla realtà urbana.

Le immagini riunite in questo volume evidenziano il legame dell’autore con la tradizione della street photography americana, le influenze di Walker Evans, ma anche di Robert Frank e Garry Winogrand. Quest’ultimo, in particolare, con il suo stile di fotografia in bianco e nero, spontanea, dinamica, dove protagonista è la vita pubblica statunitense, scene urbane, persone, eventi sociali e culturali. Anche in queste immagini di Shore realizzate per strada ritroviamo spesso angolazioni strane e soggetti colti in modo casuale e ironico. Anche se già emerge il suo sguardo distaccato e contemplativo, il suo approccio concettuale e metodico, che caratterizzerà i suoi lavori più maturi, dove il “banale quotidiano” entra a far parte della Storia documentata da un punto di vista basso, che non ri-crea il racconto alla ricerca del sensazionale. «Guardando oggi queste immagini – spiega l’autore in esclusiva per “Doppiozero” –, vedo che fin dall’inizio avevo un senso della struttura fotografica, la consapevolezza che una macchina fotografica non puntainquadra. Inoltre, sembrava che avessi già un’intuizione di come il mondo che viviamo venga tradotto in una fotografia; un’intuizione del divario tra il mondo che vediamo e quello racchiuso in un’immagine fotografica».

Le sue “early work” rappresentano non solo un archivio visivo storico, ma l’essenza della sua visione emergente: osservare ciò che molti trascurano con occhi nuovi e comporre con rigore ciò che può sembrare insignificante. A partire da queste immagini, Shore ha dato un contributo fondamentale alla costruzione della cultura visiva del secolo scorso, ridefinendo i canoni della fotografia contemporanea.

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TAGGED: Stephen Shore