Il tempo scolpito di Jeff Wall

22 Ottobre 2025

In quasi mezzo secolo di attività Jeff Wall ha realizzato poco meno di duecento fotografie. Un numero relativamente esiguo, se pensiamo alla produzione bulimica e debordante di tanti fotografi (artisti e non) di oggi e del passato e soprattutto in controtendenza rispetto all’“ossessione fotografica” (nelle sue varie forme) che sembra affliggere il nostro tempo, dove non conta l’immagine, ma catturarla e prenderla.

D’altro canto l’artista canadese, nato a Vancouver nel 1946, ha sempre scelto fin dai suoi esordi una strada tutta sua, un modo di osservare fuori dall’istante, prediligendo uno sguardo lungo e tempi dilatati per dare forma al mondo. «Io costruisco fotografie che chiedono lentezza. Vorrei che chi le guarda si fermasse, le vivesse come un incontro reale. È la durata a renderle vive», ha detto.

Gallerie d’Italia - Torino – che si conferma tra i luoghi espositivi più importanti per la fotografia in Italia – dedica ora una rilevante mostra antologica a Jeff Wall, artista-fotografo tra i più riconosciuti e influenti degli ultimi decenni, che con la sua opera ha spinto più in là e più a fondo le possibilità, sia pratiche sia teoriche, della fotografia, ha saputo rivitalizzarla aprendo nuove vie espressive, in un momento in cui questa forma, anche schiacciata dal fotoreportage, sembrava avviarsi, quantomeno sul piano artistico, verso un declino.

“Jeff Wall. Photographs”, questo il titolo della retrospettiva aperta in piazza san Carlo, fino al 1° febbraio 2026, curata da David Campany, direttore creativo dell’International Center of Photography di New York e massimo conoscitore dell’opera del maestro canadese. Ventisette lavori di grande formato, dagli esordi della fine degli anni Settanta ai lavori più recenti, tra cui «Mask Marker» (2015), «The Giant» (1992), «Sunseeker» (2021), «The Informant» (2023), che ripercorrono quarant’anni di carriera e consentono al visitatore di comprendere come questo autore ha cambiato il modo in cui guardiamo la fotografia contemporanea.

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Fotografia di Andrea Guermani.

Wall è infatti l’esponente principale e autorevole teorico dell’importante passaggio concettuale dalla realtà ripresa al naturale alla scena allestita. Come ha più volte spiegato nei suoi saggi (fondamentali per capire il suo lavoro), l’identità dell’estetica fotografica, all’interno del concetto di rappresentazione maturato dalla storia dell’arte occidentale di cui la fotografia è parte, non sta nella condizione limitata del frammento, ma deve più efficacemente completarsi nella complessità e nella progettualità di un’immagine strutturata e costruita in forma di tableau. In particolare, egli sceglie, accanto a quella della citazione di importanti opere della storia della pittura (Dürer, come dimostra “The Thinker”, scelta come immagine-guida, ma anche Velázquez, i Fiamminghi, Manet, Seurat, Matisse, Hopper, solo per fare alcuni nomi), la strada della costruzione cinematografica di situazioni di tono quotidiano e assai realistico, presentate poi nella forma fisica e al tempo stesso trasparente del light box, come bene mette in evidenza l’esposizione torinese. Secondo Jeff Wall, infatti, la costruzione cinematografica aiuta l’immagine ad assumere l’aspetto di un microcosmo simbolico, completo in sé stesso. «Definisco il mio lavoro “cinematografia” perché ho sempre ammirato come un progetto cinematografico possa partire da qualsiasi cosa: un evento a cui si è assistito, un sogno a occhi aperti, una fiaba, un adattamento letterario, un frammento di conversazione, sentita per caso. Qualsiasi cosa, e a volte più di una allo stesso tempo», ha dichiarato.

Per questo le opere in mostra possono essere lette singolarmente, ma anche in dialogo le une con le altre. Come suggerisce il curatore: «Jeff Wall e io abbiamo disposto le sue opere senza alcun raggruppamento tematico esplicito, per valorizzare l’individualità di ciascuna. Gli spettatori sono liberi di creare i propri collegamenti tra fotografie vicine e forse anche tra fotografie esposte in stanze diverse. Oppure possono semplicemente godere di ciascuna immagine per quello che è».

C’è però un filo rosso che sembra unire tutti i lavori ed è il tema del tempo. Jeff Wall tratta questo motivo attraverso un'estetica della sospensione e della narrativa ambigua, crea composizioni che bloccano l'istante, come in una "scena" congelata, dove il tempo non scorre in modo lineare, ma si presenta come un momento prolungato e carico di tensione. Le sue opere spesso presentano narrazioni multiple, suggerendo una temporalità sfaccettata. 

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Fotografia di Andrea Guermani.

Ed è proprio qui che entra in gioco la costruzione cinematografica delle sue immagini, come artificio con il quale Wall “scolpisce il tempo”, per dirla con Tarkovskij. Il processo di avvicinamento tra fotografia e cinema, registrabile non nell’utilizzo del montaggio o della sequenza, ma nel lungo lavoro di costruzione del set e di collocazione dei personaggi, è senza dubbio uno dei temi più interessanti e fecondi da un punto di vista concettuale dell’immagine tecnologica contemporanea. «I miei quadri sono essenzialmente sceneggiature non scritte», ha precisato.

Non è un caso allora che la mostra si apra con l’opera The Gardens (2017), trittico monumentale realizzato a pochi chilometri da Torino, nella storica Villa Silvio Pellico di Moncalieri. I giardini del grande architetto del paesaggio britannico Russell Page diventano teatro di tre scene: figure raccolte in contemplazione, gruppi in dialogo, rapporti di forza che emergono tra i protagonisti. «Non mi sono limitato a fotografare delle piante», racconta Wall. «Ho quindi inventato un accadimento, ho immaginato che qualcosa succedesse. È la parte letteraria del mio lavoro: trasformare un luogo in una scena che può essere narrata, anche se non lo sarà mai».

Realismo e artificio, documento e interpretazione, entro questi poli si muove l’intera opera di questo artista. «Le mie immagini sono illusioni – ha spiegato –. Non nel senso di inganno, ma come condizione dell’esperienza. Non voglio convincere che siano vere: voglio che lo spettatore faccia esperienza di quel confine ambiguo tra verità e artificio. È lì che la fotografia trova ancora la sua forza».

In questa direzione si inserisce anche l’elemento letterario delle sue immagini, finora poco indagato, ma assai presente nel suo lavoro. Come scrive David Campany nel raffinatissimo catalogo edito da Allemandi: «L’idea della fotografia può arrivare da ogni parte. Per Wall, nella maggior parte dei casi dall’osservare qualcosa nella quotidianità. Una situazione, un gesto, un luogo, un’opera d’arte. A volte, tuttavia, è dalla letteratura che il fotografo ha tratto ispirazione. Non che leggesse con l’intenzione di trovare spunti, l’opportunità è arrivata in maniera inaspettata e da lì è nato un corpus piccolo ma importante di lavori, che lui stesso definisce “incidenti di lettura” perché realizzati come risposta a specifici brani di alcuni romanzi».

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Fotografia di Andrea Guermani.

Tra gli scrittori ai quali Wall si è ispirato, c’è Franz Kafka. Nel 1994, Wall realizza “Odradrek, Táboritská, 8 Prague, 18 July 1994”, tra le opere più affascinanti e misteriose presenti in mostra, un light box dove appare una donna in abiti contemporanei che scende una scala antica. Il punto di partenza è stato il racconto del grande scrittore praghese “Il cruccio del padre di famiglia”, del 1919. Odradek è il nome che Kafka dà a un piccolo oggetto, un essere inafferrabile e bizzarro che si nasconde negli edifici e si mostra solo di rado. Kafka lo descrive in modo dettagliato: un rocchetto a forma di stella di fili logori e disordinati con delle aste di legno che fuoriescono. Sa parlare, risponde alle domande, ma rimane comunque qualcosa di misterioso. Per la sua opera, Wall ha realizzato una propria interpretazione dell’Odradek descritto da Kafka, una piccola scultura che si scorge a malapena nell’ombra del sottoscala.

Un’opera enigmatica, questo light box, come d’altronde quasi tutto il lavoro del maestro canadese, che intreccia diverse forme e codici espressivi. Le sue immagini, che come direbbe Susan Sontag si “appoggiano” contemporaneamente sul prestigio dell’arte e sulla magia del reale, chiedono allo spettatore tempo, attenzione pazienza, ma proprio per questo sanno scardinare visioni precostituite, sanno aprire a nuove esperienze di visione.

In copertina, Jeff Wall, After 'Invisible Man' by Ralph Ellison, the Prologue, 1999-2001, transparency in lightbox, 174 x 250.5 cm, Courtesy of the artist.

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