Teju Cole, ripulire lo sguardo

12 Aprile 2024

Il rapporto fra parola e immagine – mai come oggi attuale e ricco di implicazioni – è tutt’altro che scontato. Sebbene il divario tra le due sia sostanzialmente incolmabile (l’immediatezza dell’immagine è ben difficile, se non impossibile, da replicare a parole), è interessante osservare come, anche nel passato, gli scrittori si siano misurati in un dialogo con l’arte produttivo di uno scambio di potenzialità e di elementi che ha portato a risultati di grande valore letterario. Pensiamo alle opere di Calvino, Moravia, Pasolini, Volponi, per citare solo alcuni nomi, per i quali, come ha osservato Alessandra Sarchi nel suo bel libro: La felicità delle immagini. Il peso delle parole (Bompiani, 2019): «È lo sguardo inteso come azione che promuove direttamente la parola».

Più in generale, non possiamo analizzare un’opera letteraria a prescindere dal contesto storico-artistico in cui prende forma: l’osmosi tra le diverse arti è inevitabile, palese o meno.

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Questa osmosi è ancora più feconda quando a interagire sono letteratura e fotografia. Rimanendo nel contesto italiano degli ultimi decenni, tra coloro che molto si sono interrogati sul nesso tra parola e immagine, realizzando insieme progetti oggi iconici sono stati Gianni Celati e Luigi Ghirri (pensiamo in particolare a Il profilo delle nuvole, 1989). Entrambi, prendendo atto, senza catastrofismi, della nostra contemporaneità che ha sommerso tutti di immagini stereotipate, hanno saputo per primi cogliere la relatività del visibile e, in ultima analisi, del reale. Le loro “scritture” si soffermano sulle apparenze, narrando il mondo visibile per come si presenta, nella consapevolezza che le parole e le fotografie si approssimano al vero, senza mai esprimerlo totalmente. Da qui la necessità di «ripulire lo sguardo», mai di per sé vergine, operando un ascolto paziente del mondo con un’adesione al reale senza pregiudizi o schemi preordinati.

Questa è la lezione che sembra avere fatto propria anche Teju Cole, che ha sempre costruito i suoi libri in un corpo a corpo tra immagine e parola, sviluppando la sua scrittura a partire da un pensiero figurale, visivo.

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Classe 1975, nato negli Stati Uniti da genitori nigeriani, ha trascorso lunghi anni nel paese africano d’origine, per poi tornare definitivamente in America negli anni Novanta, dove si è laureato nelle più pregiose università, dove ora insegna, specializzandosi in storia dell’arte rinascimentale italiana. Firma del New York Times Magazine e del The New Yorker, Teju Cole è oggi una delle coscienze critiche più lucide di un’America in profonda crisi di identità. Una crisi che attraversa tutto l’Occidente e che l’autore ha raccontato nel suo ultimo libro dal titolo emblematico: Pharmakon, uscito da poco per l’editore londinese MACK (pp. 200, € 50,00). Fotografie che danno forma a un racconto insieme spaventoso e consolatorio, forse evocando l’etimologia stessa della parola greca che l’autore ha scelto per il titolo del libro: cura e veleno. Le immagini, invitandoci a riguardare il reale, possono essere rimedio a un modo di osservare stereotipato, ma anche un veleno quando prendono il sopravvento sostituendosi integralmente alla “vita vera”.

Le fotografie di Pharmakon costituiscono un proseguimento del progetto sviluppato dall’autore in Fernweh (MACK, 2020). Ma se quest’ultimo si concentrava principalmente su un solo luogo, la Svizzera, dove Cole aveva trascorso un lungo periodo dopo una grave malattia che lo aveva colpito agli occhi, tracciando l’anatomia di un paese che, sebbene in gran parte privo di presenza umana, è estremamente ricco di tracce, non sempre idilliache, lasciate dall’uomo, in Pharmakon le immagini, come le pagine di un diario visivo, seguono e testimoniano i suoi diversi viaggi e peregrinazioni per il mondo. Ancora una volta la sequenza intreccia le fotografie con una dozzina di racconti, quasi piccole parabole o profezie. 

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Per Teju Cole le immagini sono un carburante per la scrittura, nonché un oggetto di riflessione teorica, che dà vita a una meta-narrazione. Come ha osservato acutamente Marco Belpoliti: «Cole è prima di tutto uno scrittore: pensa le parole, anche quando scatta, e soprattutto quando guarda le immagini. Nella relazione tra le due cose l’immagine è il dopo, anche se è prima». In questa direzione molto forte è la lezione di Italo Calvino. Le emittenti delle fotografie sono svariate: dall’osservazione diretta alla trasfigurazione onirica, fino al mondo figurativo e all’astrazione dell’esperienza sensibile. Con la sua vista intensa, ci offre riflessioni e punti di vista preziosi, gemme nascoste in luoghi insieme familiari e ignoti, con quell’«urgenza in cui passano l’estraneo e l’ignoto», per dirla con un verso del Nobel Seamus Heaney, dal quale lo stesso Cole ha preso il titolo per un suo libro del 2018 (L’estraneo e il noto, edito in Italia da Contrasto). 

Nelle fotografie di Pharmakon non accade nulla, non si verifica alcun evento e non ci sono elementi forti che catturano la nostra attenzione. Un piccolo spostamento all’interno della quotidianità, un microevento sembra trasformarsi nella mutazione vera e propria di un ambiente e conseguentemente anche della percezione che di esso si può avere. Questo è il suo modo di guardare il paesaggio, lontano dal sensazionalistico e dall’eccezionale, dove la contemplazione rappresenta una precisa scelta di campo. In questo vicino alla poetica di molti nostri autori. Non a caso una volta si è provocatoriamente definito: «Un fotografo italiano nato e cresciuto in Massachussetts», a sottolineare la sua vicinanza alla nostra grande fotografia degli ultimi quarant’anni – in particolare all’opera dello stesso Ghirri, ma anche di Guido Guidi e di Giovanni Chiaramonte (al quale Cole dedica un ricordo in queste pagine) – e a scrittori come Calvino e Celati, come spesso ha ricordato nelle sue interviste.

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In questo lavoro l’uso dell’immagine non è ornamentale. Forse anche grazie alla consapevolezza maturata con i suoi studi rinascimentali, sa che a seconda di come un testo viene affiancato a un’immagine si stabilisce un diverso modo di leggerlo (come accadeva per esempio con le versioni illustrate dell’Orlando Furioso). Tuttavia come accaduto anche nei suoi precedenti libri, tra la parte scritta e la parte visiva non c’è perfetta aderenza. Il testo scritto si riferisce solo tangenzialmente all’istantanea lì a fianco, rendendo l’operazione sottesa a questo volume ancora più affascinante, a sottolineare una volta di più, da un lato le implicazioni che legano immagine e parola, dall’altro anche la distanza e finanche l’inconciliabilità tra le due forme espressive, che l’autore utilizza come mezzi, non come fini, nel processo esteso di costruzione del “testo”, del “tessuto” di ciò che osserva. Da questo punto di vista, il libro si presenta come una sorta di diario di bordo, un album – di immagini e parole – dove a sciogliere la fissità dei segni del paesaggio intervengono frequentemente minimi riverberi di forme e di percezioni. Dettagli a prima vista impercettibili, quasi tracce benjaminiane di una scena del delitto, si rivelano a un’attenzione più prolungata: frammenti di carta che si staccano da una colonna, la tensione tra due colori complementari, una macchia scura vicino alla carcassa di un uccello, il riflesso dell’acqua sul vetro ripreso da un interno. 

I segni del paesaggio paiono poi trasmutare fluidamente da una fotografia alla successiva, da un testo all’altro, generando potenziali dissolvenze incrociate che destabilizzano il campo visivo riattivando lo sguardo dell’immaginazione. È questo il modo con il quale Teju Cole ci invita a moltiplicare i punti di vista, a riaprire di nuovo gli occhi sulla realtà, a svegliare il nostro sguardo dal sonno dell’abitudine. Le sue fotografie e le sue parole sono dunque un antidoto alla nostra progressiva “cecità”, un “rimedio” al “veleno” della cosiddetta civiltà dell’immagine, nella quale non vediamo più ciò che ci sembra di osservare. Come dice l’autore in uno dei testi: “Non si può scrivere del cerchio dall'interno del cerchio. Per scrivere del cerchio, bisogna essere al di fuori di esso. No, pensa, non è proprio così: si potrebbe scrivere del cerchio dall'interno del cerchio. Dovrebbe essere possibile, e forse necessario”.

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