Giustizia / Conflitti di diritti

19 Settembre 2020

In questi mesi segnati dalla pandemia abbiamo avuto l’esperienza collettiva di due diversi tipi di conflitto nel campo dei diritti. Il primo riguarda un conflitto tra diritti – principalmente tra il diritto alla salute (alla sicurezza) e il diritto alla libertà, ma anche tra diritto alla salute e all’educazione, diritto alla salute e al lavoro. Il secondo riguarda il conflitto tra “aventi diritto”: rispetto alle cure, rispetto alla protezione, o tra i diritti all’educazione, alla motricità, alla socialità di bambini e ragazzi e il diritto dei loro nonni, ma anche dei loro insegnanti più anziani, ad essere protetti dal contagio. Se il modo in cui questi conflitti si sono manifestati è nuovo, la potenziale conflittualità connessa ai diritti e all’avere diritti non lo è. 

Vediamo meglio.

 

Per quanto riguarda il primo tipo di conflitti, si è molto discusso in questi mesi della tensione e del possibile conflitto tra diritti di libertà – di movimento, di incontri, di socialità – e diritti di sicurezza. In realtà il conflitto tra libertà e sicurezza non è nuovo, anzi è all’origine dello stato, come ci ha insegnato Hobbes. Per risolvere il conflitto altrimenti insanabile della libertà di tutti contro tutti, quindi dell’insicurezza permanente e il prevalere della legge del più forte, allo stato è affidato il monopolio della forza, a garanzia della sicurezza, ma anche dell’esercizio della libertà senza che questa diventi sopraffazione – dei ricchi sui poveri, di un’etnia o di una religione sull’altra, degli uomini sulle donne e così via – quindi negazione della libertà di altri.

 

A sua volta, la libertà dei cittadini è la necessaria pre-condizione perché lo stato non diventi esso stesso pura sopraffazione, dittatura (quindi non solo impedimento alla libertà, ma anche fonte di insicurezza perché si tratta di un potere incontrollato). Quello tra libertà e sicurezza, quindi, è un conflitto antico, originario si potrebbe dire, pur declinato in modo sempre diverso. L’enfasi eccessiva sulla sicurezza rischia di eliminare la libertà (inclusa quella di pensiero e di critica) a favore della logica amico/nemico e della sopraffazione di fatto di qualcuno su altri. L’enfasi esclusiva sulla libertà censura sia i problemi di sicurezza, sia gli squilibri di potere e risorse. La soluzione non sta nell’optare per l’uno o l’altro senza mediazioni, ma nel cercare l’equilibrio di volta in volta più ragionevole, più condiviso e argomentato in modo trasparente, meno lesivo dell’una o dell’altra. Nella consapevolezza che si tratta sempre di un equilibrio provvisorio e rinegoziabile, i cui costi vanno riconosciuti. Vale a livello collettivo, tra cittadini e stato, tra collettività e i propri aderenti. Ma vale anche nelle relazioni interpersonali. Si pensi, ad esempio, alle relazioni genitori-figli, quando questi ultimi sono ancora in crescita, ove la preoccupazione per la loro sicurezza deve essere temperata da quella per lo sviluppo della loro autonomia e libertà.

 

Oppure si pensi alle relazioni di cura verso persone fragili, dove troppo spesso si trascura l’importanza della libertà (oltre che del diritto alla dignità) per lo stesso stare bene. Un tema che è emerso con forza, di nuovo, in questi mesi, quando ci si è iniziati a interrogare sulle conseguenze negative della lunga chiusura delle scuole sul piano cognitivo e del benessere psicologico dei bambini e ragazzi – conseguenze che sono state empiricamente documentate a livello internazionale. In altro modo si è ripresentato allorché, dopo non essere riusciti a evitare la tragedia delle morti nelle RSA, in molti casi si è deciso di mantenere il lock down per i sopravvissuti e i loro parenti, facendo valere il diritto alla salute e alla sicurezza (per altro limitatamente al Covid 19) rispetto al diritto alla continuità delle relazioni, al benessere psichico dei ricoveri (con possibili contraccolpi negativi sul loro stesso benessere fisico).

 

 

Un caso tutto moderno, mi sembra, di conflitto tra diritti, che di nuovo ha a che fare con la sicurezza, dei singoli e della collettività, è quello tra diritto alla salute e diritto al lavoro. È un conflitto che può presentarsi nel caso specifico di una fabbrica o di una località, ma che può diventare un fenomeno strutturale in un’epoca di politiche ambientali. Queste possono costituirne (forse) la soluzione nel medio-lungo periodo, ma non sempre nel breve e non per tutti. Tant’è vero che si parla della necessità di prevedere forme di compensazione, che è un modo di riconoscere che – mentre si lavora per produrre un bene e allargare un diritto per la collettività – a un ambiente sano e sostenibile – si produce un danno per alcuni/molti: di solito coloro che già erano in condizione di svantaggio.

 

Per quanto riguarda il secondo tipo di conflitti – tra persone o gruppi rispetto allo stesso diritto – un altro dilemma discusso in questi mesi – chi salvare quando non ci sono risorse per tutti – lo esemplifica bene. Anche questo è un dilemma antico e, temo, diffusissimo in società più povere della nostra, non solo per quanto riguarda le cure sanitarie, ma il cibo e i beni essenziali, o quale figlio/a mandare a lavorare invece che lasciarlo a scuola per poter nutrire gli altri. Anche nell’Italia dell’Ottocento, del resto, come ci racconta lo storico Della Peruta a proposito delle campagne lombarde, nelle famiglie contadine povere la madre nutriva prima il marito e i figli grandi maschi, poi le figlie grandi femmine, poi i più piccoli, infine se stessa, in una gerarchia del diritto al nutrimento – quindi alla sopravvivenza – basata non su rapporti di potere e neppure altruismo, ma su un calcolo razionale di chi la cui sopravvivenza forniva più garanzie per la sopravvivenza anche degli altri. Ad un altro, meno immediatamente drammatico, livello, un ragionamento analogo è stato fatto in molti paesi quando si è deciso di chiudere le scuole per contrastare l’epidemia: la questione non era tanto proteggere i bambini e ragazzi come potenziali vittime dell’epidemia, piuttosto proteggere gli adulti e gli anziani da loro come potenziali diffusori della stessa.

 

O ancora, a livello micro, di singole famiglie, è successo che, nel caso in cui entrambi o l'unico genitore presente dovessero lavorare fuori casa, la figlia femmina più grande venisse incaricata della gestione della casa e dei fratelli/sorelle, a scapito della frequenza della didattica a distanza. È successo, ad esempio, a Torino, in alcuni quartieri più periferici, dove l'alto tasso di abbandono nella scuola media superiore ha riguardato in maggioranza ragazze, specie se di origine migratoria. Un fenomeno di sostituzione della madre da parte di una figlia sul fronte domestico che si può ritrovare in altre situazioni.

Un caso classico di conflittualità sia tra diritti, sia tra aventi diritto è il diritto all’aborto, ove il diritto alla vita del nascituro e quello di un uomo a provare a diventare padre si scontrano con il diritto della donna a decidere della propria vita e del proprio corpo. Potremmo dire che il fatto di poter venire al mondo solo tramite il corpo, e l’accoglienza, di qualcuno, di una donna, è l’esemplificazione più chiara di quanto all’origine di un diritto, incluso un diritto fondamentale, stia un potenziale conflitto – tra diritti e tra persone. 

La potenziale conflittualità dei diritti non deve sorprenderci né scandalizzarci, perché ci sono diritti solo quando ci sono relazioni, quando c’è società. Perché un diritto possa venire esercitato (e prima ancora pensato come tale), occorre che venga riconosciuto dagli altri. E trova il suo limite non solo nella configurazione sociale, nella struttura di risorse e bisogni in cui ci si trova a vivere insieme ad altri, ma nei diritti degli altri. 

 

Bobbio aveva rilevato questa dipendenza dei diritti di ciascuno dalla disponibilità di tutti di cedere una quota delle proprie risorse nel caso dei diritti sociali, in quanto essi sono finanziati dal bilancio pubblico, quindi dalle imposte. Questa dipendenza, a suo parere, ne faceva un’eccezione rispetto a diritti civili e politici, che, invece, a suo parere sarebbero, per così dire, a costo zero. Non sono d’accordo. Anche l’esercizio dei diritti civili e politici richiede insieme la collaborazione e la limitazione del proprio spazio di potere e libertà da parte di altri. Per questo la loro conquista è sempre l’esito di conflitti (per altro di norma molto maggiori nel caso dei diritti civili e politici che di quelli sociali). L’estensione del diritto di voto ai non abbienti e alle donne ha fortemente limitato il peso del voto dei maschi abbienti che prima ne avevano diritto da soli. I diritti sindacali hanno limitato il potere dei datori di lavoro, l’estensione dell’alfabetizzazione e del diritto all’istruzione ha rotto il monopolio che pochi avevano sulla conoscenza e l’informazione. Il diritto alla contraccezione e all’aborto e prima ancora all’autonomia sessuale delle donne ha subordinato il diritto degli uomini a provare a diventare padri al consenso, appunto, delle donne. Il diritto delle persone omosessuali ad aver riconosciuta la propria dignità e normalità ha rotto il monopolio della normalità che le persone eterosessuali ritenevano di avere e con questo il diritto di imporla erga omnes, con le idee, le norme, le punizioni e le esclusioni. Il fatto che il riconoscimento dei diritti civili e politici non richieda impegni di spesa (cosa per altro, non sempre vera, visto che per darvi attuazione talvolta occorre mettere le persone in condizione di fruirne – come direbbe Sen, occorre che gli individui abbiano i mezzi necessari ad attuare i propri diritti) non significa affatto che la loro affermazione e attuazione non dipenda dal raggiungimento di un consenso che richiede anche un’auto-limitazione. 

 

Proprio riflettendo sui conflitti che possono darsi attorno ai diritti Sen, nella sua critica a Rawls (cfr. L’idea di giustizia), ha parlato di giustizia comparativa, contrapponendola a un’idea di giustizia basata su un principio di imparzialità astratto. Secondo Sen non sempre, c'è un criterio chiaro in base al quale decidere, o meglio, possono esserci criteri diversi, tutti legittimi (tutti “imparziali”), ma in competizione tra loro per decidere ciò che è giusto e chi ha diritto a che cosa. Nell’esempio da lui utilizzato, il problema del flauto e di chi, tra tre bambini – uno che l’ha prodotto, uno che lo sa suonare e l'ultimo che non possiede altri giochi – sarebbe legittimato a ottenerlo, Sen descrive tre differenti legittimi e imparziali modelli etici (Utilitarismo, Liberalismo, Egualitarismo, ciascuno dei quali rappresenta un’idea di giustizia). A fronte dell’impossibilità di trovare un criterio univoco, che prevalga chiaramente sull’altro, secondo Sen, piuttosto occorre chiedersi attraverso quali realizzazioni concrete si potrebbe giungere a un progresso della giustizia. Occorre quindi soppesare i diversi interessi e bisogni, consapevoli che qualsiasi decisione potrebbe ledere il diritto legittimo di altri, dandone atto e riconoscimento nell’argomentazione delle decisioni. Tenendo conto della diversità dei bisogni e delle risorse, dei punti di partenza.

A ben vedere, è la logica che sta dietro alle cosiddette azioni positive: un maggior diritto riconosciuto temporaneamente (o anche strutturalmente, nel caso della disabilità) a individui appartenenti a determinati gruppi a scapito di altri perché considerati in condizione di debolezza sociale. Era anche la logica che stava dietro alla tesi di don Milani secondo cui è contro la giustizia “far parti eguali tra diseguali”. Anche se rimane aperta – nel senso proprio di aperta alla discussione, verifica, rinegoziazione – la questione di quali disuguaglianze, o anche fragilità, meritino di ricevere più risorse e per quanto a lungo e su come compensare eventuali ingiustizie che nel far ciò si compiono verso altri (si veda il contenzioso sempre rinnovato sulle azioni positive negli Stati Uniti). 

 

Secondo Sen, la democrazia gioca un ruolo importante nel dirimere di volta in volta questi conflitti, evitando che siano decisi in modo autoritario e sopraffattorio. Democrazia intesa come esercizio della ragione pubblica (“scambio di buone ragioni”, secondo Habermas). Solo tramite questo esercizio si può scegliere, appunto, tra diverse concezioni della giustizia. L’idea di giustizia, infatti, determina “i tipi di ragionamento” che devono “intervenire nella valutazione dei concetti etici e politici come la giustizia e l’ingiustizia”. E solo attraverso il confronto tra questi tipi di ragionamento e criteri, sui diritti che promuovono (e di chi) e quali (e di chi) invece negano, o sacrificano, si può arrivare ad un consenso più o meno fragile e provvisorio su “quali aspetti del mondo concentrarsi” per realizzare la giustizia e combattere l’ingiustizia. Ma perché questo confronto possa avvenire realmente, occorre mettere tutti e ciascuno nelle condizioni, non solo formali-legali, di poter partecipare. Per dirla con l'articolo 3 della Costituzione italiana, occorre che vengano rimossi gli ostacoli che “limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e limitano la partecipazione di tutti alla organizzazione politica, economica e sociale”.

 

Questo scritto è la relazione di apertura al Festival Con-Vivere, Carrara 10-13 settembre.

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