Underworld 2. Grotte e caverne
Il 12 settembre 1940 due ragazzi, Marcel e Jacques, accompagnati dal loro cane si aggirano nella campagna intorno a Montignac, in Dordogna. Intorno a loro c’è la guerra e l’occupazione tedesca: la Francia di Vichy. Si arrampicano su un promontorio e il cane corre libero all’intorno. A un certo punto perdono le sue tracce. Si sta per fare buio e ritornano sui loro passi, finché sentono i suoi guaiti disperati e capiscono che è caduto nell’apertura di una grotta in mezzo ai cespugli. Armati di torce scendono e lo ritrovano. In questo modo il mondo viene a conoscere l’esistenza di uno dei più straordinari luoghi dell’arte preistorica: Lascaux. Rimasta nascosta agli occhi umani per migliaia d’anni questa caverna, lunga 235 metri e profonda 30, contiene alcune tra le più belle pitture parietali di 19.000 anni fa, uno dei grandi misteri per tutti, paleontologi e storici dell’arte compresi. Carole Fritz, curatrice insieme a una équipe di collaboratori di L’arte della preistoria, scrive che “nella storia dell’umanità, l’arte paleolitica si distingue per una particolarità: l’attrazione per le grotte profonde”. In nessun’altra epoca gli uomini si sono avventurati tanto lontani nel sottosuolo. Nelle caverne di Rouffignac in Dordogna, a Etxeberri nei Pirenei, a Niaux in Ariège, a Nerja in Andalusia o ancora in La Cullalvera in Cantabria, i cunicoli sotterranei si sviluppano per chilometri e chilometri seguendo reticoli, molti dei quali conservano le tracce del passaggio di artisti della lontana Preistoria.
A differenza di quanto si crede normalmente, gli uomini di 30.000 e 40.000 anni fa frequentavano le caverne come rifugio dal caldo opprimente e non tanto, o non solo, come riparo dal freddo. Questi luoghi impenetrabili ed enigmatici non erano delle residenze bensì spazi in cui accadeva qualcosa di segreto e di rituale. Che cos’è esattamente una caverna o una grotta? Uno spazio vuoto, una cavità che si sviluppa sotto il suolo per effetto di fratture nelle rocce, di aperture e di faglie prodotte nel passato dai sommovimenti della Terra, così da creare gallerie orizzontali e pozzi verticali che si estendono in alcuni casi fino a centinaia di chilometri. Derivano dalla corrosione di rocce che nel corso di milioni d’anni si sono sciolte o hanno subito un’erosione meccanica causata da acque di scorrimento. Il più noto di questi processi è chiamato carsismo, da un toponimo italiano, dove esistono rocce di origine calcarea e dolomitica.
Come ha scritto in un suo libro Gwenn Rigal, guida e interprete delle grotte di Lascaux, la caverna è un luogo molto particolare: “è buia, fredda, umida, il silenzio sepolcrale è interrotto dal ruscellamento, dal gocciolio, dal rumore dei passi e dal respiro dei visitatori”. Lì nelle tenebre solo il chiarore delle torce tiene a bada il buio totale e insieme anima il luogo proiettando sulle pareti le ombre agitate degli ospiti. Così, immagina Rigal, gli esseri umani della Preistoria devono aver conosciuto quei budelli, frequentandone i recessi più irraggiungibili sulle cui pareti di roccia hanno dipinto animali, uomini e segni astratti. Hanno affrescato salendo in alto o sporgendosi in luoghi scoscesi o calandosi dentro pozzi naturali con l’evidente desiderio “di non trascurare nessuna parte delle cavità durante le loro esplorazioni”. Mircea Eliade ha ipotizzato che il fine di questa esplorazione remota fosse quello di verificare la “conformità” del santuario prima di consacrarlo. Lo possiamo capire, ci ricordano gli studiosi, là dove un crollo improvviso ha sigillato la grotta e impedito ad altri di entrare, al contrario di quanto è poi accaduto proprio a Lascaux dove i lavori di sistemazione dell’ingresso hanno permesso, tra il 1948 e il 1963, il passaggio di un milione di visitatori, che hanno cancellato disegni e forme sul pavimento della grotta. A Chauvet, scoperta solo nel 1994 – ci sono ritrovamenti di caverne dipinte anche più recenti – gli scienziati hanno potuto osservare la circolazione delle persone nella cavità oscura, tanto da identificare anche solo il passaggio di una unica persona, o forse due, 30.000 anni fa in un cunicolo.

Come sanno bene gli speleologi scendere in questi interstizi dentro la Terra significa abbandonare lo scorrimento temporale che vige sulla superficie del Pianeta, entrare in un mondo dove tutto sembra scorrere più lentamente, dove è abituale perdere la cognizione del tempo. L’esperienza della discesa nelle grotte, oltre a una necessaria assenza di paure claustrofobiche, esige uno stato d’animo che non a caso Eliade avvicina a quello dei riti sciamanici: raccogliere dentro di sé una forma di spazio-tempo differente e intimo, e insieme anche collettivo. Somiglia all’apprestamento a un rito. Per questo Rigal si è immaginato che l’atto di dipingere fosse codificato, una forma d’iscrizione non dettata da un proprio estro personale, ma da un insegnamento comunicato da persona a persona nell’arco di migliaia d’anni. Nel libro L’arte della Preistoria si sottolinea come l’arte delle grotte si è trasmessa per più di 30 millenni, ovvero per 1200 generazioni, senza mai estinguersi. Non si può immaginare un’arte simile se non in quelle profondità e con quelle condizioni climatiche. Per quanto le incisioni e altre manifestazioni artistiche lasciate dagli uomini del tempo remoto in luoghi protetti o all’aperto siano assolutamente straordinarie, l’arte delle caverne è tuttavia unica.
Si tratta di un’arte che ci fa capire cosa sia il sacro, ben differente da quella che noi conosciamo così bene in chiese e musei, l’arte cosiddetta religiosa. Molte delle stesse tracce antropiche all’interno di questi spazi chiusi, e spesso sigillati dagli stessi autori, vanno intese come atti sacri (G. Rigal). Le analisi dei paleontologi ci dicono che alcune di queste grotte sono state affrescate in un periodo compreso tra i 40.000 e i 13.000 anni fa, a partire dal Paleolitico superiore, l’ultimo periodo glaciale. A visitare e dipingere le pareti con colori naturali sono stati i cacciatori-raccoglitori Homo sapiens, che sono succeduti agli uomini e alle donne di Neanderthal, già presenti da almeno 200.000 anni. La magia dell’esplorazione delle grotte è tale che non è difficile comprendere come questi luoghi chiusi, oscuri, sotterranei, in molte religioni e culti del passato costituiscano l’immagine stessa del Cosmo, uno spazio che include in sé sia l’elemento ctonio sia quello celeste: una coincidenza degli opposti, e anche la conciliazione di simbologie maschili e femminili, umane e animali, che in questo mondo “altro” conoscono il loro perfetto compimento.
Per saperne di più:
L’arte della Preistoria, a cura di C. Fritz, Einaudi; G. Rigal, Il tempo sacro delle caverne, Adelphi; Amir D. Aczel, Le cattedrali della preistoria. Cortina; M. Eliade, Immagini e simboli: saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book.
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Questo articolo è già uscito in forma ridotta su “la Repubblica”, che ringraziamo.
